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Una nazione che insorge contro una ingiustizia resa palese, e improvvisamente non più sostenibile, dall’omicidio “pubblico” di una vittima inerme. La misura collettiva colmata dall’evento che di colpo cristallizza la coscienza collettiva. Un’improvvisa illuminante chiarezza su di un sopruso atavico e sistemico che crea una massa critica nazionale di rabbia ed indignazione non più contenibile nelle parole di circostanza, il lutto privato e le dichiarazioni prammatiche, ma che si riversa travolgente nel discorso pubblico e nelle piazze, dove si ha l’impressione – furiosa, liberatoria – della subitanea nascita di un soggetto nuovo, una nuova possibilità di cambiamento.

Ciò che è avvenuto dopo la morte di Giulia Cecchetin ricorda inevitabilmente i giorni seguiti al linciaggio di George Floyd. Lui non è stato certo il primo o l’unico (ne l’ultimo) afroamericano vittima di un antica ingiustizia, ma la sua morte orrenda, in diretta Facebook, è stata quella che ha innescato lo stesso cortocircuito di insopprimibile indignazione contro un sistema non più accettabile. Per questo, più ancora della marea montante del MeToo, l’insurrezione contro il letale razzismo di polizia costato la vita a Floyd è per molti versi il parallelo più calzante con quella contro il patriarcato tossico innescata dalla morte di Giulia.

In entrambi i casi, un ennesimo intollerabile sopruso esplicita d’improvviso l’accumulo di una violenza stratificata. Le due vicende si assomigliano per come innescano un esame di coscienza che obbliga ad affrontare collettivamente la questione. Nel mese di manifestazioni, dibattiti, cortei, assemblee spontanee, sit-in, talk show, azioni nelle scuole e negli uffici di quella primavera americana, si intravide una prima concreta volontà e una possibilità di imporre un cambiamento. E un inedito allargamento del consenso dalle sole vittime a una schiera di alleati che, come dissero allora veterani della lotta come Angela Davis o Kareem Abdul Jabbar, mai si era visto prima.

Dall’altra parte iniziò da subito il lavorio contrario delle forze reazionarie, che dietro alle iniziali professioni di condanna cominciavano a seminare i semi dell’ostruzionismo e dell’insinuazione e infine dell’opposizione aperta: le accuse di terrorismo lanciate a Black Lives Matter e i suoi “fiancheggiatori” come pretesto per mantenere lo status quo. La campagna denigratoria fu alimentata dal Governo Trump e dagli strateghi repubblicani. La richiesta di riformare le forze dell’ordine venne distorta in “irresponsabile abrogazione della polizia”, ripetuta come un mantra dai canali di destra. Alla fine, quasi nessuna riforma è stata effettivamente implementata. Le statistiche dicono che i morti ammazzati dalla polizia continuano a essere circa mille ogni anno; i neri (che sono circa il 10% della popolazione) rappresentano ancora circa un quarto delle vittime.

Si sarebbe tentati, giustificati nel pensare che il massiccio moto di indignazione non sia servito a niente, eppure la vicenda Floyd, passata dalla cronaca nera a diventare evento “storico” nell’autocoscienza nazionale, un peso continua ad averlo. Per come continua a influenzare una discussione culturale a lungo termine. Con George Floyd, come con Giulia Cecchetin, la conversazione è cambiata, è cambiata la terminologia e le rappresentazioni, la cultura dell’inclusione, specie fra i giovani.

Certo la polarizzazione, alimentata dall’antagonismo aggressivo di una destra imbaldanzita dal potere, non ha aiutato, ma rimangono entrambe necessarie pietre miliari di un lento progresso. Ci sono, e sempre ci saranno, un prima e un dopo George Floyd e Giulia Cecchetin.

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Un commento a “Giulia Cecchettin come George Floyd. Quando la misura è colma”

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