Le questioni finanziare hanno di fatto permeato ogni aspetto dei colloqui. Fin dal loro inizio a metà degli anni ’90, le Cop hanno visto nazioni povere e vulnerabili alla costante ricerca di finanziamenti dai paesi ricchi per i danni loro causati dai mutamenti climatici. La Cop26 è arrivata poco dopo che le nazioni ricche hanno riconosciuto il mancato finanziamento annuale di 100 miliardi di dollari fino al 2020, sulla carta già fissato più di dieci anni fa. Tale fallimento ha pesantemente condizionato i lavori, generando, presso i paesi più a rischio e poveri, una situazione di rottura della fiducia verso i paesi inadempienti.

Il testo della decisione della COP26 “rileva con profondo rammarico” che l’obiettivo di $100 miliardi non è “ancora” stato raggiunto – formulazione fuorviante, visto che l’obiettivo aveva una data fissata per il 2020 e non dovrebbe essere raggiunto nemmeno quest’anno.

Il testo finale “esorta” i paesi ricchi a raggiungere l’obiettivo “con urgenza e fino al 2025”. Anche qui mancano date e sanzioni, così come una formulazione per colmare il disavanzo negli anni 2020-2022, nei quali si prevede che l’obiettivo non venga raggiunto.

Il Climate Vulnerable Forum, che raggruppa i paesi a maggior rischio di impatto climatico, per voce del suo presidente afferma che il forum sosterrà “il monitoraggio indipendente dell’erogazione dei finanziamenti per il clima che è stato imposto nelle decisioni sui risultati della COP26. Un simile passo potrebbe fare molto per ripristinare ulteriormente la fiducia nella cooperazione internazionale sul clima, come patto tra ricchi e poveri”. Dichiarazione che è evidentemente, essa stessa, sintomo di una scarsa fiducia. La stessa fonte, nell’affermare che “l’aumento dei finanziamenti per l’adattamento è diventato una chiara priorità umanitaria”, porta anche in evidenza la necessità di raddoppiare la loro consistenza.

Un’altra questione chiave per i paesi in via di sviluppo è stata la qualità dei finanziamenti per il clima. Molte delle nazioni più povere e dei piccoli stati insulari, raggruppati nell’Alliance of Small Islands States (AOSIS), denunciano gravi difficoltà di accesso ai fondi. Allo stato attuale, i flussi finanziari come i prestiti ad alto interesse sono spesso inclusi nei rapporti sulla finanza climatica. Durante i negoziati i paesi ricchi hanno resistito alle richieste di una definizione operativa di “finanza per il clima”, una richiesta a lungo avanzata dai paesi in via di sviluppo che potrebbe chiarire esattamente cosa conta per attingere ai budget.

Una ulteriore priorità era un flusso di finanziamenti all’interno del nuovo obiettivo dedicato alla compensazione di perdite e danni, ma alcuni osservatori abbiano riferito che gli Stati Uniti, in particolare, si sono opposti a questa idea.

Non ci si aspettava che i negoziati sull’obiettivo post 2025 si concludessero in questa COP e i negoziati dovrebbero continuare per altri tre anni. Tuttavia le nazioni più ricche hanno espresso priorità ben differenti da quelle dei paesi piu poveri e a rischio. In particolare “La questione su cui i paesi sviluppati vogliono discutere è chi contribuisce al nuovo obiettivo: ampliare la base dei donatori” secondo una dichiarazione a Carbon Brief di Jan Kowalzig, esperto di finanza climatica presso Oxfam. L’elenco dei paesi obbligati a fornire finanziamenti nell’ambito dell’UNFCCC si basa su quelli che erano membri dell’OCSE nel 1992. Pertanto, non include i paesi ricchi, come la Corea del Sud o gli stati del Golfo ricchi di petrolio. Alla fine, precisazioni su perdite e danni o l’espansione della base dei donatori non hanno fatto parte del testo finale.

Un secondo punto dell’agenda riguardava il finanziamento climatico a lungo termine, che suona simile all’obiettivo post 2025, ma, nonostante il nome, in realtà si riferisce al mancato raggiungimento dell’obiettivo di 100 miliardi di dollari fino al 2020.

I paesi in via di sviluppo volevano mantenere aperta questa discussione fino a quando non entrerà in gioco il nuovo obiettivo finanziario e utilizzarlo come sede per discutere del miglioramento della qualità e della quota dei finanziamenti per l’adattamento. I paesi più ricchi hanno sostenuto che il punto all’ordine del giorno potrebbe essere semplicemente chiuso.

Su questo punto, alla fine si è convenuto di continuare a discutere di finanza a lungo termine fino al 2027, riflettendo un ritardo nella comunicazione relativamente ai dati finanziari del 2025, che non saranno disponibili fino a due anni dopo.

Lorena González, responsabile della finanza climatica presso il World Resources Institute (WRI), ha dichiarato in una conferenza stampa dopo la chiusura dell’evento che tutte le parti erano in qualche modo “insoddisfatte” dei risultati dei negoziati finanziari. “La COP26 ha messo in atto le impalcature per il panorama finanziario post-2020”, ha affermato. In definitiva, nei prossimi anni, i leader dovranno trovare il modo di trasformare i “miliardi in trilioni” nella finanza totale per il clima, cosa riconosciuta dalla presidenza britannica fin dall’inizio. Al di fuori dei negoziati formali, il primo ministro delle Barbados Mia Mottley ha chiesto 500 miliardi di dollari di diritti speciali di prelievo – valuta di riserva normalmente emessa durante le crisi – come strumento alternativo per mobilitare denaro sulla scala richiesta.

Insomma, nonostante il mancato rispetto della scadenza, le promesse non sono mancate, tra giuste richieste, conflitti tra paesi ricchi ed elusioni. Sarà necessario che presto seguano i fatti. “Stiamo diventando stanchi del promettere”, ha detto a Carbon Brief l’economista e inviato speciale delle Barbados Avinash Persaud.

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