Interventi

Foto di Aksel Lian da Pixabay 

Articolo pubblicato su “Internazionale” il 03.08.2020

Pochi giorni fa Alexandria Ocasio-Cortez, deputata democratica al congresso americano e star della sinistra radicale, è stata ingiuriata da un collega repubblicano, Ted Yoho, con epiteti del tipo “disgustosa, pazza, fuori di testa, fottuta puttana”. Storia di ordinaria misoginia, non fosse per il luogo istituzionale dove si è consumata, la scala del Campidoglio, e per la sfacciataggine con cui il nostro si è poi “scusato” in aula, sostenendo che in quanto buon marito e buon padre di famiglia non aveva certo inteso offenderla, e spingendo Ocasio-Cortez a fare un memorabile intervento sui discorsi d’odio (hate speech) maschile come fenomeni non incidentali ma strutturali della società americana, sostenuto da un intero e collaudato sistema di potere e di complicità.

Ripreso da tutti i mezzi di informazione anche in Italia, l’episodio ci dice due cose. La prima: a tutte le latitudini la violenza – verbale e non solo verbale – contro le donne, nonché contro gay, lesbiche, transessuali e altri “irregolari”, è un problema culturale di sistema e richiede strategie di contrasto sistematiche. La seconda: a tutte le latitudini l’efficacia della risposta dipende da molti fattori, per primi la forza, la visibilità e l’autorevolezza della vittima di turno o di chi per essa, ovvero della rete di sostegno su cui può contare. Una legge non basta, né a scoraggiare chi la violenza la agisce né a tutelare chi la subisce: ci vuole altro e questo altro, dice da sempre il femminismo che infatti una legge contro la misoginia non l’ha mai chiesta, si chiama pratica politica. Naturalmente, una legge può aiutare: a stigmatizzare la violenza, a punirne l’attore e risarcirne la vittima. Ma non è tutto, e può essere perfino un alibi per non fare l’essenziale, che viene prima e va oltre la legge.

Stupisce che di questa eccedenza dalla legge delle questioni che hanno a che fare con il sesso, o come si dice adesso con il sesso e con il genere, non ci sia traccia nella pur accesa discussione che sta accompagnando l’iter del disegno di legge Zan contro la omotransfobia, estesa in corso d’opera alla misoginia. Eppure proprio la consapevolezza di questa eccedenza ha consentito in passato al movimento femminista di ottenere dei buoni compromessi sul piano legislativo, per esempio nel caso della legge sull’aborto e di quella sullo stupro. Compromessi in grado di creare un minimo comun denominatore fra posizioni inizialmente distanti, senza saturare lo spazio dell’iniziativa politica extragiuridica.

Pare a me invece che oggi, e non da oggi, l’urgenza della soluzione giuridica dei conflitti attinenti al sesso-genere esaurisca l’operato di tutti gli attori in campo: di un parlamento ignaro della complessità della materia, che al meglio ragiona solo in termini di vittimizzazione e di risarcimento penale dei soggetti da tutelare e al peggio sventola valori tradizionalisti e reazionari; e di movimenti caratterizzati da una segmentazione identitaria assetata di riconoscimento giuridico-istituzionale. Una situazione che certamente è figlia di lunghi processi di trasformazione politica e sociale, ma che non necessariamente porta a un buon uso del diritto, anzi.

Tutele e uguaglianza
Veniamo infatti al disegno di legge Zan, che dovrebbe approdare nell’aula della camera dopo aver esaurito l’esame in commissione. Questa legge, si dice, colma un vuoto: nomina e riconosce gay, lesbiche, transessuali come soggetti particolarmente vulnerabili, dunque meritevoli di una tutela specifica, e codifica come specifiche fattispecie di reato la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (casistica poi allargata anche al sesso e al genere), aggiungendole alle analoghe fattispecie su base razziale, etnica e religiosa previste dalla legge Mancino. L’intenzione, ovviamente del tutto condivisibile, è antidiscriminatoria ed egualitaria, e punta a realizzare “quella pari dignità che la costituzione riconosce a ciascuna persona”, oltre che ad allineare la legislazione italiana ad una risoluzione contro l’omotransfobia del parlamento europeo.

C’è da chiedersi tuttavia, ed è il punto generale di politica del diritto che questa legge solleva, se per raggiungere questo scopo egualitario sia più efficace introdurre di volta in volta nell’ordinamento norme antidiscriminatorie specifiche riferite a specifiche categorie di soggetti, o rafforzare principi e norme di carattere generale generalizzando, appunto, le esigenze e le pressioni di questi soggetti specifici. Sono due strade diverse: l’una, potremmo dire, di particolarizzazione dell’universale, l’altra di universalizzazione del particolare. Il disegno di legge Zan sceglie la prima strada; ma sarebbe (stata) percorribile anche la seconda, ad esempio, com’è stato suggerito, limitandosi a introdurre nel codice penale un’aggravante per gli atti lesivi della dignità della persona (tutte le persone, senza ulteriori specificazioni). La strada prescelta però non è priva di effetti collaterali, come il dibattito in corso sta dimostrando, in parlamento e fuori.

Se si procede in direzione dell’uguaglianza identificando e categorizzando delle differenze – nel nostro caso, quelle delle persone gay, lesbiche, transessuali – l’esito inevitabile è quello di un’ulteriore moltiplicazione differenziale e identitaria delle domande di riconoscimento, inevitabilmente accompagnata da altrettante denunce di esclusione e misconoscimento. L’iter della legge Zan lo dimostra già di suo: all’omotransfobia, e ai comportamenti discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, sono stati aggiunti in corso d’opera la misoginia e i comportamenti discriminatori basati sul sesso e sul genere, includendo così le donne fra i soggetti da tutelare, ma aprendo al contempo divisioni nel campo femminista, fra chi è favorevole a questa inclusione perché ritiene che le discriminazioni in questione abbiano tutte la stessa radice eteronormativa e chi invece ritiene che essa riduca le donne al rango di una minoranza fra le altre.

D’altra parte il meccanismo della moltiplicazione delle tutele presta il fianco alle critiche strumentali della destra. La quale è dominata da un’unica ossessione e da un unico fantasma: l’ossessione, effettivamente fobica, dell’“invasione” gay e trans, mina vagante per le sorti della famiglia “normale” e della norma eterosessuale, e il fantasma della “ideologia del gender”, sinonimo di relativismo, individualismo, edonismo e quant’altro. Ma ha buon gioco a diluire questa ossessione e questo fantasma in una valanga di emendamenti che aggiungono altri comportamenti da sanzionare e altre categorie da tutelare a quelli previsti dal testo: atti discriminatori basati sulla disabilità, sull’età, sull’aspetto fisico, sulle caratteristiche estetiche (c’è perfino un emendamento che nomina la calvizie e la canizie), sulle condizioni economiche e sociali; e la categoria delle coppie eterosessuali, perché, come ha sostenuto in commissione un esponente della Lega senza che nessuno gli ridesse in faccia, “io mi sento sotto attacco in quanto etero e nella legge bisogna introdurre tutele contro l’eterofobia e la famigliofobia”. La norma eterosessuale e la normalità familiare diventano così, con uno di quegli abili rovesciamenti in cui la destra è maestra, minoranze da difendere dall’attacco di altre minoranze, vittime di altre vittime trasformate in oppressori, araldi della libertà di espressione conculcata dalla nuova norma del “politicamente corretto”.

Lessico politico e lessico giuridico
Una sorta di gara fra “opposti vittimismi”, come l’ha definita Letizia Paolozzi, che penetra purtroppo anche il dibattito femminista, anche se lungo discriminanti diverse da quella destra-sinistra. Come abbiamo visto, il testo del ddl Zan elenca e allinea come atti discriminatori e violenti da sanzionare quelli basati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”. Vengono così per la prima volta trasferiti e cristallizzati in un documento giuridico termini prelevati dal lessico teorico-politico femminista e lgbtq+. Ma mentre nel dibattito teorico-politico si tratta di termini mobili e porosi, spesso controversi e comunque sempre aperti all’interpretazione, alla contestazione e alla negoziazione, trasposti nel linguaggio giuridico gli stessi termini si irrigidiscono e diventano normativi e divisivi.

La distinzione fra sesso (come dato biologico) e genere (come costruzione culturale) ad esempio, netta e basilare nel femminismo anglofono, non è tale in quella vasta area del femminismo radicale italiano che lavora piuttosto sulla risignificazione politica della differenza sessuale, a sua volta intesa come interfaccia fra natura e cultura. E l’espressione “identità di genere”, che si riferisce al genere a cui le persone trans sentono di appartenere a prescindere dal sesso di nascita, per quanto sia entrata a far parte del linguaggio giuridico internazionale non può non suscitare qualche perplessità quantomeno sul piano concettuale: a me pare che contraddica nell’uso stesso del termine “identità” la fluidità che vorrebbe esprimere. Sono questioni aperte, in Italia e altrove, che rinviano alla composizione e all’articolazione dei movimenti femministi e lgbtq+, e dovrebbero restare affidate al libero gioco politico della soggettività, delle alleanze, dei conflitti, del rapporto necessario fra le pratiche e i posizionamenti teorici.

La loro codificazione, viceversa, da un lato costringe la scena istituzionale a confrontarsi con un lessico ancora instabile e per molti oscuro (quanti parlamentari sono in grado di esprimere un voto in scienza e coscienza sulla sequenza “sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere”?), dall’altro lato rischia di avere un effetto regressivo sulla galassia sociale a cui si rivolge. Malgrado la suddetta sequenza voglia essere la più larga e inclusiva possibile, e malgrado si riferisca alla definizione degli atti da sanzionare e non dei soggetti da tutelare, quello che ha prodotto finora è un effetto di segmentazione identitaria della galassia femminista e lgbtq+. Dove le questioni aperte di cui parlavo prima si trasformano in definizioni chiuse, quando non in reciproche scomuniche.

Si sono infatti fin qui fronteggiati da una parte un femminismo preoccupato che l’identità basata sul genere dichiarato si sostituisca all’identità basata sul sesso biologico, con la conseguenza di una “dissoluzione della realtà dei corpi femminili”, nonché di una nuova e paradossale forma di discriminazione e tacitamento delle donne e del femminismo che rivendicano l’importanza dell’impronta biologica sulla costruzione del soggetto (si vedano i casi delle accuse di omotransfobia rivolte alla scrittrice J. K. Rowling e alla filosofa Sylviane Agacinski). Dall’altra parte un femminismo che nella legge Zan, e nella sequenza sesso-genere-orientamento sessuale-identità di genere, non vede nulla di problematico e registra anzi un passo avanti, il più inclusivo possibile, “verso la garanzia di uguali libertà per tutte e tutti”. Infine, e su questa stessa stessa onda, un “femminismo e transfemminismo”, che accusa il femminismo critico verso la legge di voler affermare “il falso biologismo” di un’identità femminile anatomica contro le identità di genere (che invece, mi chiedo, sarebbero “vere”?), di escludere le persone transessuali e di essere alla fine “l’altra faccia della medaglia” dei movimenti no-gender di destra.

Derive antipolitiche
Qui non intendo entrare nel merito di queste posizioni, né fare lo slalom fra quello che di ciascuna mi parrebbe da accogliere o da respingere. Eviterò dunque di argomentare perché a mio modesto avviso la prima posizione vede bene il rischio degli effetti collaterali della legge Zan, pur scivolando effettivamente in un certo biologismo; o perché la seconda si fidi troppo del linguaggio giuridico progressista tralasciandone gli effetti performativi sui movimenti; o perché la terza sia viziata da un pregiudizio contro il femminismo della differenza, radicato più nell’accettazione passiva delle tassonomie del femminismo anglofono che nella conoscenza effettiva di quello italiano.

Eviterò anche di esplicitare che effetto mi fa apprendere (scusate il ritardo) che noi femministe radicali siamo ormai classificate ed etichettate come “transfem” o “terf” a seconda della presunta inclinazione inclusiva o escludente verso le transessuali. Eviterò tutto questo per non cadere nella trappola in cui invece tutte queste posizioni cadono, e che a me sembra la vera trappola della legge Zan: quella di incoraggiare – essendone peraltro e al contempo un prodotto – la deriva verso la frammentazione identitaria già presente nella galassia femminista e lgbtq+, deriva a mio avviso pericolosamente antipolitica, che ripercorre una strada già rivelatasi senza uscita nel femminismo americano e dalla quale l’originalità del femminismo italiano ci aveva a lungo preservate (si veda in proposito il fondamentale libro della filosofa americana Linda Zerilli Feminism and the abyss of freedom, a cui la rivista Soft Power ha dedicato tempo fa un ampio approfondimento).

Questa deriva consiste nel concepire il soggetto femminista come una somma algebrica – più o meno inclusiva o più o meno escludente – di identità sociali differenti, certificate non si sa come se non sulla base di astrazioni teoriche o giuridiche, piuttosto che come una costruzione politica basata su pratiche condivise. Prima fra tutte la pratica del partire da sé, pratica che di suo è aperta a chiunque perché volta a dare voce a chiunque sulla base di un desiderio di condivisione dell’esperienza e non di un’identità rivendicata o certificata; e che di suo è generatrice di relazioni, alleanze, coalizioni nonché conflitti, ma motivati da ciò che si fa, non da ciò che si è o si afferma di essere; da ciò che di inedito e imprevisto si mette al mondo, non dal bisogno di riconoscimento da parte del mondo com’è e delle sue leggi, buone o cattive che siano. Questa modalità politica di costruzione del “noi” femminista è ciò che oggi a me pare messo a rischio dalle diatribe identitarie, ed è ciò a cui invece non possiamo rinunciare, né che possiamo sacrificare a pur sacrosante sanzioni legali di comportamenti inaccettabili e a pur comprensibili istanze di riconoscimento giuridico e istituzionale.

Un commento a “Gli effetti collaterali della legge Zan”

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