Capitalismo, Internazionale, Temi, Interventi

Premessa

Per diversi decenni il commercio internazionale ha conosciuto un boom senza precedenti; cresceva ogni anno nel mondo a un ritmo quasi doppio rispetto a quello del pil. La sua dinamica era il simbolo stesso della globalizzazione in atto. Negli ultimi tempi però la sua crescita ha teso a rallentare vistosamente. Alla base di tale rallentamento vi sono stati molteplici fattori: lo scoppio del Covid, le difficoltà dell’economia mondiale, l’aumento dei tassi di interesse e le crescenti misure protezionistiche dei paesi occidentali, a cominciare da quelle degli Stati Uniti, seguiti inevitabilmente dai paesi europei, fedeli esecutori delle direttive di Washington. Così nel 2023 l’andamento degli scambi globali ha registrato una riduzione dell’1,9%, e anche se per il 2024 e il 2025 è prevista una ripresa, rispettivamente del 2,0% e del 2,5%, questa avverrà a tassi di crescita più modesti di quelli dell’economia mondiale (3,2% sia per il 2024 che per il 2025, secondo l’Ocse).

Concentriamo allora la nostra attenzione sulle conseguenze del crescente protezionismo occidentale sul Sud del mondo da una parte, sulla Cina dall’altra.

Contro i paesi del Sud del mondo

Nei due decenni dopo il 1995 le differenze nel pil tra i paesi poveri e quelli ricchi si sono ridotte e sempre nei paesi poveri è crollato il numero delle persone soggette a indigenza, mentre la salute e la scolarità sono fortemente migliorate. Ma da quasi una decina d’anni i ritmi di crescita dei paesi del Sud del mondo sono rallentati e vari indicatori sociali sono peggiorati (The Economist, 2024). Le ragioni sono diverse, ma tra queste va ricordato il crescente protezionismo occidentale, che, al contrario di quanto comunemente si può credere, non tocca soltanto la Cina.

La direttrice dell’Organizzazione mondiale per il commercio, la nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala, denuncia le crescenti restrizioni, gli ostacoli e le barriere alla globalizzazione degli scambi imposte nell’ultimo decennio (Frachon, 2024).

In particolare, nei paesi del Sud del mondo si denuncia, tra l’altro, la regolamentazione europea sulla deforestazione. La norma è applicabile dal 2023 e proibisce la vendita nei paesi dell’Ue dei prodotti derivati da territori soggetti a deforestazione: cacao, caffè, soia, olio di palma, legno, carne bovina, caucciù, etc. I paesi del Sud del mondo stigmatizzano l’ipocrita neocolonialismo verde dell’Ue.

Nel mentre, si avvicina l’entrata in vigore del cosiddetto “meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere” (CBAM-Carbon Border Adjustment Mechanism), una misura di aggravio fiscale introdotta dalla Ue all’interno del Green Deal europeo. Un altro colpo molto duro allo sviluppo dei paesi emergenti.

Ma intanto, come al solito, in Occidente è in azione il meccanismo delle doppie verità. La Francia, che appare tra i più accaniti propugnatori delle norme sopra citate, continua a esportare verso i paesi del Sud migliaia di tonnellate di pesticidi, il cui uso è proibito nell’Ue dal 2022 a causa della loro pericolosità per la salute e per l’ambiente (Mandard, 2024), senza dimenticare che la loro produzione genera l’inquinamento delle falde freatiche nei dintorni degli stabilimenti addetti in Francia.

Contro la Cina

Per decenni Washington e più in generale i paesi occidentali hanno cantato le lodi del libero commercio e spinto i paesi del Sud a impegnarsi su tale strada. Ma gli allievi, a cominciare dalla Cina, hanno con il tempo superato il maestro su molti fronti, minacciando la supremazia statunitense. Ecco allora che le vecchie regole occidentali non valgono più, e si procede con il protezionismo.

Per quanto riguarda le difficoltà poste al commercio altrui è noto che in particolare gli Stati Uniti a partire da Trump, seguiti poi dai fedeli scudieri europei, hanno intrapreso una campagna sempre più massiccia per bloccare o almeno frenare i commerci con il paese asiatico. Gli USA hanno persino varato una legge per impedire l’importazione delle bandiere a stelle e strisce prodotte dei cinesi.

I risultati di tale campagna sembrano finora però piuttosto miseri. Certo, a prima vista le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono diminuite in maniera rilevante; ma si tratta per la gran parte di un’illusione statistica. Gli importatori statunitensi tendono in effetti ormai a sottostimare ufficialmente la dimensione dei loro acquisti dal paese asiatico per non incorrere nelle ire di Washington, mentre la Cina, invece di esportare direttamente, passa per delle triangolazioni, inviando i suoi prodotti verso dei paesi terzi – dal Vietnam alla Thailandia, dal Messico all’India – perché, aggiunta qualche lavorazione, li indirizzano verso gli Stati Uniti.

In ogni caso, dai tempi di Trump in poi la quota delle esportazioni cinesi sul totale mondiale è aumentata invece di diminuire, con una crescita significativa in tutti i segmenti merceologici, dagli arredi di Natale ai prodotti per l’energia pulita. “…Nessuno è al riparo del rullo compressore industriale cinese, anche gli esportatori più agguerriti…” (Escande, 2024).

Finanche le restrizioni all’esportazione di tecnologie occidentali verso la Cina, a cominciare dai chip, per generando qualche difficoltà temporanea al paese asiatico, hanno avuto l’effetto di moltiplicare i suoi sforzi per rendersi progressivamente autonomo; sforzi che stanno avendo un rilevante successo.

Testi citati nell’articolo

– Escande Ph., «Le grand désordre du commerce mondial», Le Monde, 19 settembre 2024

– Frachon A., «Le Sud pleure la mondialisation libérale», Le Monde, 20 settembre 2024

– Mandard S., «La France esporte toujours des pesticides interdits», Le Monde, 25 settembre 2024

– «How the poor stopped catching up», The Economist, 21 settembre 2024

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Un commento a “Gli effetti del protezionismo occidentale”

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