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Ogni cinque anni, in coincidenza con lo scorrere dei “quinquennati” che dal 2002 coincidono con il mandato dell’Eliseo, le elezioni presidenziali francesi tornano ad alimentare aspettative che sedimentano stratificazioni e aprono squarci su orizzonti in perenne ma interminabile avvicinamento. Come nella molto nota e citata commedia di Beckett, Godot è atteso ogni giorno per l’indomani, a ogni appuntamento per il successivo. Il momento del suo arrivo, tuttavia, sembra non arrivare mai davvero.

Il riferimento metaforico rimanda a un’attesa che è multipla, perché riguarda varie dinamiche che attraversano la Francia ma parlano anche ad altri contesti nazionali, soprattutto a quello trans o cisalpino, a seconda della prospettiva, e in una maniera che si potrebbe definire paradigmatica, con tutti i caveat che gli studiosi di scienze sociali amano sollevare in questi casi.

In questa attesa trepidante il voyeurismo degli osservatori, anzi degli spettatori della politica, una politica sempre più abbarbicata sulla logica passiva del popcorn, si intreccia così all’attenzione degli ingegneri costituzionali comparati, sempre affamati di spunti che sorreggano l’indicazione di nuovi modelli da adottare per rendere più efficiente il funzionamento del sistema politico nostrano.

E così, ciclicamente, a ciascuna elezione, dopo ogni quinquennato e in vista del successivo, si torna a dire, a scrivere, a pensare “sarà per la prossima volta”, “ci siamo quasi”, “qualcosa si muove”, “ci riproveremo”.

Vale per Marine Le Pen, arrivata personalmente al ballottaggio per la seconda volta consecutiva e artefice del terzo passaggio al secondo turno dell’extreme droite nella storia della Quinta Repubblica, se si considera anche l’inopinato exploit paterno del 2002. I voti raccolti nel 2022 dalla leader di quello che oggi si chiama Rassemblement national sono di più di quelli ottenuti nel 2017, sia al primo che al secondo turno, sia in termini assoluti che in percentuale, sia nell’Esagono che nei territori di Oltremare. La distribuzione dei consensi è sempre più ampia geograficamente e socialmente, con una caratterizzazione persistente nel nord e in tutto l’est del paese e nelle fasce popolari (lavoro dipendente e quella che un tempo si definiva “classe operaia”). Per la prima volta Marine ha beneficiato dell’indicazione di voto per il ballottaggio da parte di uno sconfitto del primo turno, e da un candidato di una certa rilevanza elettorale, seppure probabilmente effimera, come quell’Eric Zemmour che è riuscito a toccare il 7%. Il sistema del doppio turno, in cui come si sa al ballottaggio si vota contro più che a favore, ne ostacola ancora l’approdo all’Eliseo, e anche quando l’era Macron sarà finita, nonostante la lunga marcia della dédiabolisation, questo agognato (per Le Pen e la sua destra) successo rischia di avere il destino di Godot, ossia di non arrivare mai.

Il sistema a doppio turno, o meglio, il sistema a doppie elezioni consecutive, prima presidenziali e poi legislative a distanza di un mese, è sia il congegno per il consolidamento presidenziale, via effetto di trascinamento, come dimostrato nel 2017 dalla prodigiosa affermazione della République En Marche, sia la sordina e la mordacchia per le opposizioni, o sarebbe meglio dire per gli sconfitti della horse race presidenziale. E quindi, quando Mélenchon chiede agli elettori francesi di farlo diventare primo ministro di una rediviva coabitazione, finge di non sapere che una dinamica del genere è alquanto improbabile.

Le elezioni legislative (o politiche) francesi, quando svolte dopo le presidenziali, come avviene dal 2022, hanno sempre avuto l’effetto di confermare il sostegno alla parte politica uscita vincente dalla contesa per l’Eliseo, perfino nel 2017 quando il capo di Stato appena eletto una parte politica ben precisa non l’aveva neanche e l’ha dovuta assemblare in corsa durante la campagna elettorale, raggruppando alla rinfusa notabilato politico resosi disponibile per l’occasione.

In questo contesto prende forma la figura del secondo Godot: la sinistra francese che troverebbe una rigenerazione nella figura e sotto la leadership di Mélenchon. Se Marine Le Pen prova da dieci anni a conquistare l’Eliseo e non riuscendoci ripete “ci riproveremo la prossima volta”, Mélenchon fa lo stesso con il ballottaggio delle presidenziali, sin da quando Hollande si è dimostrato personalità inadeguata a dare vigore, ampiezza e prospettive a una nuova gauche plurielle. Nel 2017 la guida della Francia Insoumise, non sottomessa, arrivava quarto, a “soli” 600mila voti da Marine Le Pen. Quei 600mila voti in più stavolta li ha conquistati, ma visto che la destra nazionalpopulista ha alzato l’asticella, Mélenchon si è dovuto accontentare della terza piazza. Sarà per la prossima volta, encore une fois.

Le capacità di penetrazione e tenuta elettorale di Mélenchon sono indubbie, come la solidità della sua piattaforma programmatica, che come si pretende in Francia è sempre chiffrée, ossia corredata da una pianificazione che esplicitamente dà conto del costo e della copertura delle misure prospettate. La sua attenzione agli equilibri interni alla sinistra di oggi, con le sue implicazioni intersezionali, va di pari passo con la padronanza dei fondamentali della tradizione socialcomunista, in termini di radicamento sociale e riferimenti di cultura politica. Ed è probabilmente l’oratore più abile del suo paese, almeno nell’ultimo decennio. Ciò nonostante, ragioni sia oggettive che soggettive, sia di offerta che di domanda, sembrano ostacolarne la corsa. Il sistema elettorale a doppio turno delle legislative, per quanto con accesso aperto tramite il superamento di una soglia, essendo estremamente “disproporzionale” non sembra giocare in suo favore, vista la tripartizione elettorale che esce dalle presidenziali 2022. Inoltre le legislative, come detto, fungono ormai da elezioni di conferma del risultato dell’Eliseo, e per esempio nel 2017 Mélenchon passò dal quasi 20% dei voti delle presidenziali all’11% delle legislative e, nel complesso, a 17 seggi all’Assemblea nazionale (il 2,9% del totale). È vero che oggi la sinistra francese, per il resto, dal Ps pasokizzato ai sempiterni due candidati trotzkisti, passando per ecologisti e comunisti del Pcf, si presenta come un cumulo di macerie. Ma ciò non sembra sufficiente a dare a Mélenchon la forza per arrivare ad ottenere il 20% dei deputati dell’Assemblea nazionale. Figuriamoci una maggioranza per portarlo a Matignon. Insomma, per quanto riguarda la qualificazione al ballottaggio delle presidenziali, anche in questo caso “se ne parlerà la prossima volta”. Resta tuttavia il fatto, dimostrato dalle esperienze lepeniste, che, sic stantibus i meccanismi elettorali delle elezioni politiche, anche quello sarebbe un traguardo solo platonico, irrelato da qualsiasi possibilità concreta di incidere in senso trasformativo nella vicenda del paese.

Il terzo, e ultimo, Godot chiama in causa Macron come epigono di una saga i cui protagonisti non sono solo i capi dello Stato francesi, né solo i leader politici dell’Occidente, ma la politica democratica come sistema poliarchico in grado di intervenire nella realtà lasciando segno di sé con azioni trasformative, o anche solo con interventi di significativa riforma. Negli ultimi anni, solo in Francia, abbiamo visto i progetti neonapoleonici di Macron infrangersi sulle barricate della rivolta, rivelarsi insufficienti o mal centrati. Lo stesso era avvenuto con il changement tanto sbandierato da Hollande, come anche con la rupture di Sarkozy, che pure incombeva brandendo la daga della rivoluzione contro l’immobilismo e la palude dell’era Chirac. Lo stesso empito rivoluzionario di Mitterrand, dopo il primo biennio entusiastico di riforme civili e sociali, era evaporato di fronte alle esigenze del “rigore” e alla convergenza con gli interessi confindustriali, prima ancora che al cospetto del costruendo vincolo esterno. Ora, non è esercizio di cinismo dire che non esistono programmi elettorali realizzati interamente, e anzi di solito non ne esistono neanche di realizzati in parte, salvo pochissime, scandinave, teutoniche o totalitarie eccezioni che sarebbe interessante mettere in luce con una apposita ricerca. Ma il quadro francese sembra restituire il quadro di una cronica disaffezione, se non quello di un mondo che, per citare un lavoro di Raffaele Simone uscito qualche anno fa, pare irrimediabilmente “di destra”.

Oggi, nel 2022, Macron resta all’Eliseo prendendo due milioni di voti in meno al ballottaggio di quanti ne aveva presi cinque anni prima, e in un quadro di declino della partecipazione al voto, persino alle presidenziali, che erano l’unica scadenza elettorale che ormai sembrava interessare ai francesi. In dieci anni si è passati da un livello vicino all’80% a una percentuale del 72. Macron si appresta a continuare in modo credibile il ruolo di capo di Stato avveduto e in grado di incarnare con una certa autorevolezza la linea di pensiero e azione del mainstream occidentale, con un occhio agli equilibri geopolitici che vedono l’Ue come attore di rilievo anche grazie alla persistenza dell’asse franco-tedesco.

Per il resto, tuttavia, poco o nulla lascia sperare in una svolta progressiva della vicenda politica euro-americana, almeno non nella cornice finora esplorata e consueta della democrazia rappresentativa, segnata e forse irrimediabilmente deturpata da decenni di dominio neoliberale. La comparsa sulla scena di un nuovo protagonismo di sinistra sembra il Godot più grande che le elezioni francesi tornano a evocare.

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