L’annuncio del verdetto, con le dirette che hanno fatto irruzione nel pomeriggio di fine maggio, è stato un momento storico dei live televisivi. Un evento che ha dato forma giuridica all’opinione che molti hanno del demagogo che da otto anni ha fatto irruzione sulla scena politica d’America, stravolgendola.
I trentaquattro “colpevole” scanditi dal primo giurato, uno per ogni capo d’accusa, non hanno precedenti per politici che hanno occupato lo studio ovale, ma il verdetto è stato anche una puntata chiave nel reality che è la missione di Trump per tornare alla Casa Bianca.
Come previsto, l’imputato, ora condannato (la sentenza è prevista per l’11 luglio, pochi giorni prima dell’inizio della convention repubblicana a Milwaukee) è stato pronto a inglobarlo nel copione elettorale preconfezionato. “Il verdetto è una vergogna,” frutto della persecuzione politica ordita da Biden ai suoi danni, ha affermato. Sulla diretta della Fox, intanto, gli anchorman gridavano alla “dichiarazione di guerra”.
Da mesi Trump va denunciando “l’interferenza elettorale” e, per metà della nazione, la narrazione complottista è una incontrovertibile realtà parallela. Quattro anni fa, prima delle elezioni, Trump aveva inoculato alla propria base il battage preventivo dei “vasti brogli”; una sua sconfitta avrebbe comprovato la congiura dello Stato profondo. Con lo stesso sillogismo, nel mondo MAGA il verdetto sfavorevole conferma la profetizzata congiura, e la corruzione di tutto il sistema giuridico ridotto a covo di anti-americanismo (è utile ricordare che il tutore di Trump in fatto di contenziosi legali è stato Roy Cohn, braccio destro di Joseph McCarthy sulla House Un-american Activities Committee.)
Il copione non è facoltativo. I maggiorenti repubblicani (compresi molti aspiranti vicepresidenti) sono allineati sulla linea del Trump-partito. Compreso lo speaker Mike Johnson che ieri ha messo tutto il peso della sua carica di presidente della Camera, non in semplice solidarietà con Trump, ma sostenendo il complotto immaginario e per inficiare lo Stato di diritto.
Alla CNN Carl Bernstein e Bob Woodward hanno rievocato il cinquantenario della rinuncia di Nixon, ricordando che dopo il Watergate quel presidente fu convinto dalla stessa leadership repubblicana a lasciare per il bene della nazione. “Non avremmo potuto neanche sognare allora,” ha detto Bernstein, “che potesse emergere un personaggio come Trump”.
“La nazione è andata all’inferno”, ha sentenziato invece quest’ultimo uscendo dal tribunale, lasciando presagire più che passi indietro terra bruciata e una strategia che alternerà ricorsi a denunce del sistema nelle piazze, e veleno sparato sui giudici come lo fu sulle elezioni quattro anni fa.
Certo, al vertice di quel sistema c’è eventualmente la Corte Suprema, il massimo tribunale blindato da toghe leali che si appresta nei prossimi giorni a pronunciarsi su di una improbabile dottrina di retroattiva “immunità totale” che potrebbe mettere l’ex presidente al rimparo dagli altri tre, ben più gravi processi. Scartata da ogni tribunale federale, una sentenza pro-Trump diventa plausibile, se non probabile, da una Cassazione su cui siedono togati di dichiarata fede trumpista come Samuel Alito e Clarence Thomas.
In altre parole politica e giustizia – o i loro simulacri – sono ormai sempre più inestricabilmente commisti nel frullatore post politico alimentato ad arte dal demagogo faccendiere, che prospetta una presidenza turbo-populista capace di coniugare gli interessi della plutocrazia liberista con un autoritarismo di stampo putiniano.
Una verità, tuttavia, proprio lui ieri l’ha detta: “L’unico verdetto che conta ci sarà il 5 novembre”. Non c’è infatti soluzione giuridica alla questione trumpista. Se ci fosse stata sarebbe scattata con gli impeachment, soprattutto quello dopo l’assalto a Capitol Hill (che ebbe, sì la maggioranza dei voti in Senato, ma non i 2/3 necessari).
Ora c’è questo verdetto nel meno grave dei processi a suo carico. Difficile prevedere l’effetto che avrà sugli elettori. Un indizio potrebbe essere stato il crash del sito per la raccolta fondi pro-Trump, ieri soverchiato dall’impennata di sostenitori che volevano contribuire alla campagna.
Ma per dirla tutta, i margini di elettori dissuadibili o convincibili, sia per Trump che per Biden, sono millimetrici e imprevedibili nel mix di economia, fanatismo, post-ideologia, disinformazione e apatia che caratterizzeranno queste presidenziali. In palio c’è un salto senza paracadute nel vuoto post- democratico al centro dell’Occidente, con il mondo in fiamme.
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