Interventi

Scrive Maurizio Giammusso nella biografia di Eduardo che Napoli Milionaria debuttò alle sedici e trenta del 25 marzo 1945 al San Carlo in un teatro stipato come mai. La trama è nota. Gennaro Jovine, onest’uomo e padre premuroso, parte soldato lasciando la moglie Amalia a far denaro con la borsa nera mentre il resto della famiglia si sfalda. Maria Rosaria, la figlia maggiore, resta incinta di un soldato americano che se ne scappa. Amedeo, l’altro figlio, si mette a fare ’o mariuolo e persino la più piccola, Rituccia, allude all’ingenuità del padre come solo i bambini. Il terzo atto risolve il dramma avviato un paio d’ore prima a ritmo di commedia. Sempre geniale, ma commedia. Invece la chiusa è aspra e svela le anime. Amalia, dopo aver affamato parecchie vite, è schiantata su una sedia. Riccardo, un vicino distrutto dal cinismo della donna, le si presenta in casa col farmaco del miracolo, la sola speranza per Rituccia condannata da un brutto male. Sono due battute. Lei, disperata, chiede cosa voglia in cambio. Lui replica “nulla”. Glielo dice senz’astio, ma aprendole gli occhi sull’oscenità di quel suo arricchimento repentino. E’ il la. Dopo, l’impalcatura crolla e cedono le maschere. Rimasti soli, marito e moglie ritrovano le parole cancellate da anni di fame e avidità. Inizia Gennaro con un monologo intenso. Spiega alla donna cosa ha portato quell’affanno di ricchezza, quei biglietti da mille cumulati sulle disgrazie altrui. C’è del moralismo? Quanto può starci nel teatro di Eduardo. Ma il genio è genio, sa stupire. E allora Amalia, svegliata dal sonno, non si limita a piangere e compiangersi ma reagisce, e risponde così. “Ch’è ssuccieso….ch’è ssuccieso…’A matina ascevo a ffa’ ’o ppoco ’e spesa… Amedeo accumpagnava a Rituccia a scòla e ghieva a fatica’… Io turnavo ’a casa e cucenavo… Ch’è ssuccieso… ’A sera ce assettavamo tuttu quante attuorno ’a tavula e primma ’e mangia’ ce facevamo ’a croce… Ch’è ssuccieso…”. Siamo alla fine. Amedeo, inatteso, rientra a casa. Non è andato a rubare e l’indomani ripiglierà il suo vecchio lavoro. Anche Maria Rosaria abbraccia il padre, la piccola forse guarirà e il nastro delle vite si riavvolge. Gennaro finalmente può confortarsi con quell’ultima battuta immortale, “S’ha da aspetta’, Ama’. Ha da passa’ ’a nuttata”.

Racconta Eduardo che il terzo atto lo recitò con sgomento, in un silenzio assoluto. Poi scese il sipario e il silenzio proseguì per qualche secondo, alcuni più del solito. Dopo esplose “un applauso furioso” e un “pianto irrefrenabile”. Piangevano tutti, attori, comparse, il pubblico, gli orchestrali di sotto nel golfo mistico. E pure Raffaele Viviani, corso ad abbracciare il Maestro perché aveva detto del “dolore di tutti”.

Chissà come sarebbe avere oggi Eduardo tra noi. Lui o qualcuno capace di mettere in prosa la stessa domanda, ma che è successo? Che cosa è accaduto a questo paese che fatica a liberarsi da un peso divenuto insopportabile? Gennaro pensa alla creatura nel letto come al “paese nuosto”. Ma non è forse lo stesso ora con una cronaca carica di significati scomodi e soprattutto impropri? Perché c’è molto di stonato in un Parlamento chiamato a vagliare reati del tipo di quelli imputati al premier. E però la questione non riguarda il decoro o lo stile di vita che ciascuno, entro confini dati, è libero di darsi salvo risponderne. No. Il punto è altrove. Nel coté d’accompagno. In un’idea del potere piegato al desiderio, alla proiezione di un io spinto oltre i confini storici. E’ l’idea di una politica spogliata dal dominio dell’interesse proprio in una deriva dalla quale, senza troppe lacrime, è scomparso ogni carisma collettivo. Usare lo Stato, dettare leggi, blindare il consenso per accentuare allo spasimo la misura di sé: di là, a destra, tutto ciò si è fuso nella lega tra istituzioni non più sovrane e un uomo isolato destinato a comandare sino all’ultimo secondo utile e condannato a sprofondare un attimo dopo, sepolto dal discredito che spargeranno a piene mani i suoi adulatori odierni, come è sempre accaduto e come ancora accadrà. Ma di qua, da quest’altra parte, noialtri possiamo dirci innocenti? Possiamo credere di non avere responsabilità nella discesa del paese, di gradino in gradino, verso un costume confuso, un linguaggio immiserito e una ratio strumentale a dominare quasi ogni gesto o asserzione? Non dovremmo chiedercelo anche noi, ma che cosa è successo? Da dove arriva l’ondata di cinismo che ci ha costretti a mercanteggiare voti, interessi e listini? Quand’è che ci siamo assopiti e l’onda si è spinta a rubarsi i vestiti, quelli meno rifiniti, lasciandoci mezzo nudi a bramare gli abiti di altri? Perché poi, se una colpa la destra non ha è di aver suggerito di seguirne le orme, essendo quella la sua sola missione. Ma noi? Non dovevamo per forza ricalcare la traccia arata in una terra improvvisamente molle. L’esito? Si è slabbrato tutto e sono iniziati i guai. Sino al punto di apparire confusi in mezzo al gruppo, senza più l’arma che uccide il leone. Uguali perché moderni, anzi rimodernati, ma con le fogge e le parole e le angustie insufflate da altri. E però mica alle spalle ci siamo lasciati una guerra, come Amalia, e lutti e miseria. Il nostro paradosso è di avere alle spalle lustrini e benessere apparente, gioia di vivere e brama di apparire, troppe celebrità per pochi posti. E allora, in assenza di un genio che ci imbocchi le battute finali, l’unica è tornare a fidarsi di noi e degli abiti vecchi e ricucire la trama di piccole coerenze e qualche buona pratica non travolta dalle retoriche dei palchi. E ripartire così, dal paese che c’è e tutto chiede all’infuori di un’alternativa volgare tra povertà e paillettes. Ha da passa’ ’a nuttata, anche per noi. Ma prima tocca svegliarsi dal sonno. E magari, sommessamente, chiedere scusa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *