Interventi

Articolo pubblicato su “Internazionale” del 21.09.2020

Nella primavera del 1980 all’improvviso mi arrivò, non ricordo più bene tramite chi, una convocazione di Rossana Rossanda nella redazione del Manifesto: vorrebbe fare due chiacchiere, mi dissero. Ero una perfetta sconosciuta, avevo scritto per il giornale quattro o cinque articoli in tutto, escluso che mi convocasse in base a quelli. Varcai il portone di via Tomacelli, dal centralino mi indicarono la sua stanza. Mi accolse col suo sorriso dolce e severo, mi disse che s’era incuriosita ascoltandomi in un seminario su donne e lavoro, parlammo un poco di questo e d’altro, poi mi guardò negli occhi e mi chiese perentoriamente: “Che cosa pensi di fare della tua vita”? Balbettai qualcosa senza dirle l’essenziale, cioè che mi sarebbe piaciuto lavorare con lei e che questo desiderio mi era venuto leggendo i suoi pezzi sul movimento del ‘77, i soli a coglierne sia pure in ritardo la natura e le ambivalenze, e quelli sul 7 aprile, i soli a denunciare la piega emergenzialista che la democrazia italiana stava prendendo (altro che lo stato d’eccezione da covid-19). Ma lei quel desiderio lo afferrò da sola. Di lì a poco mi ritrovai nella redazione dell’Orsaminore, un mensile femminista che Rossana stava progettando con altre amiche comuni, e due anni dopo in quella del Manifesto. Molto di quello che sono diventata lo devo a quell’incontro.

Quella fu la prima volta che la vidi. L’ultima è stata poco più di due mesi fa, prima di partire per l’estate, a casa sua, con Maria Luisa Boccia. Il lockdown ci aveva tenute separate, Rossana a Roma io no, e durante il lockdown lei aveva avuto un malore, poi risoltosi. “Come stai, Rossana?”. “Abbastanza bene, tutto sommato”. Non era vero. Non stava bene, il corpo affaticato, la voce flebile. Ma Rossana aveva mantenuto nella malattia, da quando un ictus le aveva limitato i movimenti ma non la lucidità, la stessa misura che aveva sempre avuto nel parlare di sé, mai un aggettivo sopra le righe. Del resto, si accendeva ancora non appena si parlava di politica. A settembre dobbiamo fare qualcosa, disse, questo paese non può andare avanti così. Progettammo fra il serio e il faceto questo qualcosa che ora che è settembre non faremo più. Ero preoccupata di non poterla vedere di nuovo per tante settimane, ma a fine agosto ho saputo che Doriana era riuscita a portarla al mare per un paio di settimane, e dal mare Rossana tornava sempre rigenerata; presto ci saremmo incontrate di nuovo. Invece no.

Il momento della fine è quello in cui più forte scatta la tentazione di appropriarsi di chi se ne va, e più forte si manifesta la sua inappropriabilità. Rossana lo sapeva benissimo, tanto da sottrarsi esplicitamente (lo scrisse in La perdita, con Manuela Fraire e Lea Melandri, 2008) al rito dell’esposizione funeraria, quando un corpo non ha più possibilità di replica allo sguardo altrui. Ognuno, ognuna ha la “sua” Rossana, ma Rossana non è di nessuno e la sua biografia resta di una singolarità assoluta, come assoluto, indomabile, è stato il senso della libertà che l’ha ispirata e che ha trasmesso a chi sapeva coglierlo. Suonerà strano, di questi tempi, questo connubio fra una libertà irriducibile e un’altrettanto irriducibile appartenenza comunista, eppure Rossana era questo connubio e questa eresia: non la postura intellettuale del pungolo critico che tutti sono disposti a riconoscerle, ma il vissuto in prima persona, passione e croce, di una contraddizione che se la forma-partito aveva reso impraticabile la forma-giornale rendeva invece feconda. Non si capisce niente dell’esperimento-Manifesto – del Manifesto secondo Rossanda almeno – se non si parte da questa passione della libertà, che ha consentito a chi l’ha condivisa di leggere il presente violando le certezze del partito preso e i criteri dell’informazione mainstream. Il contrario dell’ideologia, l’opposto del conformismo, l’inverso del minoritarismo: questa era Rossana e questo ci ha sfidate e sfidati a essere.

Non era una sfida facile, soprattutto per noi donne. Perché quello stesso senso forte della singolarità e della libertà la rendeva allergica a qualunque identificazione che potesse vagamente evocarle il fantasma del gregarismo, sì che più ti avvicinavi più lei si allontanava. E perché Rossana era una madre fragile ma potente come tutte le madri, ed esigente come poche soprattutto verso le sue simili, a maggior ragione da quando aveva visto nel femminismo un’irruzione di libertà che a sua volta la sfidava e la metteva in discussione (Le altre, 1989). Ma è stata una sfida generativa di posizioni culturali e politiche che altrimenti non sarebbero esistite nel panorama italiano, e che nello stesso Manifesto non sono state prive di ostacoli e conflitti.

Due fra tutte: la difesa dello stato di diritto e del garantismo ai tempi dell’emergenza antiterrorismo negli anni ottanta, un precedente che nei novanta avrebbe impedito a “noi rossandiani” di cedere agli usi politici della giustizia che hanno accompagnato il crollo della cosiddetta prima repubblica e la parabola infelice della cosiddetta seconda. E l’interpretazione dell’89 e del ‘91, perché Rossana, che anche grazie al rapporto con K.S. Karol teneva sempre sotto osservazione i paesi dell’est europeo e aveva creduto nell’esperimento di Gorbačëv, come tutto il gruppo fondatore del giornale vide nel crollo del muro di Berlino e nel tracollo dell’Urss più il segno di un nuovo disordine geopolitico che quello della liberazione dal partito-stato che ci vedevano molti di noi. Fu il momento di massima divisione, nel giornale, fra la generazione dei fondatori e quella del ‘68: un altro conflitto sul senso della libertà. E a giudicare le cose col senno di poi, dopo trent’anni di trionfo neoliberale, avevano la vista lunga più loro di noi (Appuntamenti di fine secolo, scritto nel 1995 con Pietro Ingrao, è un libro da rileggere).

L’allontanamento di Rossana dal giornale comincerà pochi anni dopo e per altre ragioni – ma “allora sbagliai a non resistere”, mi aveva detto di recente – anche se diventerà definitivo solo nel 2012, lasciando in lei e non solo in lei il segno di una ferita non rimarginata. Bisognerà leggere la sua versione della vicenda del Manifesto nel libro che aveva da poco licenziato – “ma non mi è venuto bene”, continuava a dirmi – e che comincia dove La ragazza del secolo scorso finiva. Mentre il “suo” secolo si chiudeva ingloriosamente in Italia e nel mondo, le cose della vita l’hanno strappata alla nostra quotidianità, perché Rossana aveva molto chiare le priorità dell’esistenza e non esitò un minuto a trasferirsi a Parigi quando le condizioni di Karol lo richiesero.

A lungo ci sono mancate le incursioni nella sua stanza di via Tomacelli dove le confidenze su amori e separazioni non erano meno frequenti delle discussioni politiche, le cene fra amiche (era un’ottima cuoca) dove si parlava di cinema e si litigava sul femminismo, lo stile inconfondibilmente novecentesco delle sue case (in affitto, non ne ha mai posseduta una) con i divani neri modernisti e le librerie bianche in perfetto ordine (“buttare le carte inutili fa parte del lavoro intellettuale”), le sue poche ma salde civetterie femminili (“non penserai che i capelli bianchi non abbiano bisogno di cura”), la sua inimitabile eleganza minimalista ante litteram, le piccole bugie depistanti che elargiva quando si ostinava a difendere l’indifendibile, gli snobismi che solo lei si poteva consentire (“ma questo Osama chi è, il più giovane dei Laden?” chiese per telefono da Parigi mentre noi ci affannavamo a chiudere l’edizione speciale sulle torri gemelle). Una volta, sarà stato a fine anni ottanta o poco dopo, l’accompagnai a Francoforte dove era stata invitata a tenere una lezione magistrale sul femminismo. Era sola sul palco, tailleur nero impeccabile e sciarpa bianca, al centro di un cono di luce che rompeva il buio tutt’intorno. In un’altra vita, pensai, sarebbe stata Greta Garbo.

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