Pace
Questo è il tema su cui si misura la maggiore distanza tra il programma di von der Leyen e il nostro: la Presidente ha proposto l’istituzione di un Commissario per la difesa, che suona in questa fase come un ministro della Guerra. Non si tratta del progetto, pure più interessante, degli inizi degli anni ’50, della Comunità Europea di Difesa (la CED), che si configurava alternativo al sistema NATO e di unione, oltre che di coordinamento, tra le difese dei Paesi membri, con una razionalizzazione delle spese per le varie difese nazionali. Quello proposto sembra, invece, più un sistema aggiuntivo, che si somma non solo a quello degli Stati membri, ma anche a quello della stessa NATO. La difesa è l’unico settore pubblico in cui la parola “razionalizzazione” non è sinonimo di riduzione di spesa, ma di aumento della stessa. In genere quando si parla di razionalizzare le spese della pubblica amministrazione, si prevede infatti un aumento di quelle militari complessivo fino a 500 miliardi di euro in 5 anni per la difesa e la sicurezza, e questo inevitabilmente spinge tutti a una rincorsa agli armamenti, alla paura della minaccia militare, alla sfiducia tra gli Stati, all’escalation. Insomma, antepone le armi alle soluzioni diplomatiche, e non consente che si inneschi la necessaria descalation e la fiducia tra le grandi potenze. Questo tipo di azione, che alloca le maggiori risorse verso quella che può essere definita una vera e propria transizione militare, ne assorbe da altri capitoli, che hanno un impatto economico e sociale molto importante: la transizione ecologica per lo sviluppo sostenibile, che pure aveva avuto un ruolo significativo nella scorsa legislatura, e la costruzione dell’Europa sociale, di cui parleremo di seguito.
Lavoro, povertà e disuguaglianze
Nella scorsa legislatura von der Leyen si era impegnata sul tema dei salari bassi e contro la povertà, arrivando poi alla stesura di una direttiva sul salario minimo e a una proposta di raccomandazione a settembre 2022 sul reddito minimo per far fronte a situazioni di disagio economico. Oggi, alla luce soprattutto della grave crisi inflazionistica degli ultimi anni, i problemi della questione salariale, della perdita di potere di acquisto e della povertà si sono aggravati. E questo nonostante la dinamica dei prezzi sia in riduzione, poiché il livello generale degli stessi rimane comunque alto. E in paesi come il nostro, e in diversi altri, dove l’indicizzazione dei salari all’inflazione non esiste più, e in presenza di una contrattazione collettiva poco efficace in molti settori – soprattutto nei servizi – la perdita di potere di acquisto dei lavoratori a reddito fisso è uno dei principali problemi da affrontare. L’inflazione ha causato una svalutazione dei salari, un crollo di quelli reali che, ad esempio, in Italia ha raggiunto una perdita del 16% in tre anni; fenomeno aggravato da una crescita economica scarsa a causa di una politica della BCE che ha favorito tassi di interessi alti e politiche monetarie restrittive. Per questo era necessario rafforzare quanto meno quegli elementi di sostegno al reddito, come il salario minimo, ma l’idea di introdurlo o di recepire la direttiva UE sul tema non è all’ordine del giorno in molti Stati membri e nel nostro in particolare. Di salari bassi e di sfruttamento soffrono soprattutto i migranti, oltre a giovani e donne. Quando ci poniamo il problema della necessaria integrazione dei flussi migratori per motivi economici, dobbiamo avere l’onestà di riconoscere che un salario minimo legale sarebbe di aiuto in particolar modo per queste fasce della popolazione, contro ipocrisie e fraintendimenti. Non solo: lo sfruttamento, soprattutto dei lavoratori più deboli e dei migranti, emerge segnatamente nell’ambito di aziende coinvolte nelle catene di subappalti, con i relativi problemi di scarsa sicurezza sul lavoro e della frequenza degli incidenti e delle morti che possono registrarsi nella catena dei subappalti. Subappalti che sono assolutamente tollerati, se non incentivati, dalla legislazione europea della concorrenza. Una legislazione a cui mettere fine al più presto, e su cui von der Leyen non ha detto nulla.
Allo stesso tempo bisognava dare seguito alla proposta di reddito minimo, e aggredire la povertà dilagante, che interessa potenzialmente il 20% circa della popolazione nell’Unione europea. Alla luce anche dei grandi processi tecnologici in corso – non ultima, la spinta dell’intelligenza artificiale – l’Unione europea dovrebbe promuovere l’introduzione di un reddito minimo, un reddito di cittadinanza europeo, sempre meno condizionato, ispirato alla logica del basic income, che aiuta non solo a contrastare il disagio economico, ma anche la disoccupazione tecnologica derivante dall’aggiornamento continuo dei processi di automazione e dall’espulsione dal mercato del lavoro di personale anche qualificato. Uno strumento di questo tipo aiuterebbe l’economia europea anche da un punto di vista macroeconomico, perché in caso di shock asimmetrici la possibilità di poter accedere a una misura sociale centralizzata, pagata da un bilancio comune, aiuterebbe a mitigare gli effetti depressivi, evitando di fare aumentare povertà e disoccupazione, e avrebbe come conseguenza quella di calmierare le disuguaglianze tra le persone e i divari tra gli Stati membri più poveri e quelli più ricchi. Il finanziamento del reddito di cittadinanza europeo, centralizzato, dovrebbe avvenire attraverso una tassa unica – gestita da Bruxelles – sui capitali europei, che spesso circolano in UE al fine di trovare un approdo vantaggioso in qualche paese che pratica competizione sleale e svalutazione con aliquote marginali sugli utili delle società di capitali al ribasso. Molto spesso si tratta di corporation del web, multinazionali tecnologiche, grandi aziende che operano nei settori finanziari, che sfuggono a una adeguata tassazione progressiva. Queste politiche renderebbero l’UE un mercato e una economia più equa, più solidale, più giusta. La qualità della vita e il benessere sono strettamente collegati non solo con le innovazioni tecnologiche, di cui parleremo nei punti successivi, ma anche con le introduzioni di innovazioni sociali, come ci insegnava Federico Caffè. A fronte di processi tecnologici come quelli in corso, i governi nazionali e l’UE, dovrebbero porsi problemi di distribuzione dei vantaggi tecnologici, e affrontare anche il tema dei tempi di lavoro, della conciliazione con tempo libero e famiglia, dello smart working (che sembrava fosse una conquista imprescindibile durante l’emergenza Covid), e della riduzione degli orari di lavoro, al fine di ottenere guadagni in termini di benessere, e con essi guadagni di produttività. Ma anche su questo il programma di von der Leyen è assolutamente deludente.
Ambiente ed economia
Anche questa volta, von der Leyen ha parlato di ambiente e transizione verde, ma il problema e la contraddizione, rispetto al 2019, sono evidenti almeno per due grandi ragioni: 1) oggi le maggiori risorse sono concentrate sulla difesa e ci sarà quindi poco spazio per altro; 2) il ritorno dell’austerità con il Patto di stabilità, che ci riporta sostanzialmente ai vecchi criteri di Maastricht, su deficit e debito in particolare. Il nostro Paese, ad esempio, quest’anno dovrà trovare un modo per ridurre la spesa pubblica di 13 miliardi, un rientro del disavanzo dello 0,6% come ci richiede il nuovo Patto di stabilità. Un programma progressista, in economia e ambiente, dovrebbe prevedere una gestione controllata della crescita, degli investimenti e della domanda aggregata per realizzare il pieno impiego, e non tollerare disoccupazione e povertà come funzionali al capitalismo. Certamente un programma progressista non può prevedere politiche di deflazione e austerità come quelle che avremo in forza del nuovo Patto di stabilità. Fitoussi e Stiglitz (economisti progressisti) ci hanno spiegato che le politiche di austerità implementate soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008 e fino al 2018, e più in generale dopo Maastricht (1992), sono state fallimentari, e anche grazie al loro insegnamento, abbiamo gestito meglio la pandemia in Europa nel 2020-21 da un punto di vista economico, e lo abbiamo fatto certamente senza politiche di austerità. Questi insegnamenti dovevano essere alla base del programma di von der Leyen, che al contrario, quando affronta gli aspetti economici, si trasforma a tratti anche in un libro dei sogni, privo di meccanismi che permetterebbero di realizzare i pochi punti economici qualificanti del suo discorso, come una ipotetica continuità con il New Green Deal e un piano abitativo. Con il nuovo Patto di stabilità, nella pratica avremo una governance economica che ritorna al passato con strumenti che ci spingono verso l’austerità. Come si può promuovere un piano per gli alloggi, se allo stesso tempo si è approvato un Patto di stabilità che costringe alla riduzione della spesa pubblica? Si può anche rilanciare la transizione verde, ma da dove si ricavano le risorse se contemporaneamente si allocano 500 miliardi di euro sulla transizione militare? Quello che manca nella visione di von der Leyen è l’idea di una economia circolare ben rappresentata, ad esempio, nel lavoro di Kate Raworth, dove il ruolo strategico dello Stato e della spesa pubblica nei salti tecnologici, nell’introduzione dell’innovazione e quindi nella crescita della produttività, avviene attraverso lo Stato innovatore, uno Stato che insieme al settore privato possa attivamente garantire accesso e diffusione delle tecnologie come bene pubblico, delle nuove risorse energetiche, e utilizzo di risorse rinnovabili e energia pulita in modo diffuso e democratico.
Investimenti pubblici e industria
Secondo molti economisti progressisti e keynesiani, sensibili ai problemi di disoccupazione e precarietà, ciò di cui l’Europa avrebbe bisogno oggi è il contenimento o l’eliminazione degli eccessi della globalizzazione, soprattutto quella legata al capitalismo finanziario, che acuisce le disuguaglianze, contribuendo a creare povertà e disoccupazione nei Paesi ricchi. La comprensione di questi fenomeni comporterebbe il superamento della politica di concorrenza che vige in UE, e la revisione delle politiche degli aiuti di Stato, che tanto male hanno fatto all’industria europea, e italiana soprattutto, negli ultimi tre decenni. Stati Uniti, Cina e gli altri grandi player internazionali stanno investendo massicciamente sulle industrie domestiche avanzate, su incentivi tecnologici, sulle politiche industriali a sostegno della transizione tecnologica ed ecologica, con un elevato grado di protezionismo, avviando un processo di de-globalizzazione, accorciando filiere produttive e aumentando gli investimenti pubblici in questo settore. In Europa niente di tutto questo sembra all’orizzonte, mentre ci vorrebbe un programma pubblico di investimenti, un Next Generation EU permanente, a sostegno delle industrie avanzate, che spinga per una transizione tecnologica verso una frontiera tecnica più elevata. Questo permetterebbe di guadagnare produttività, di aumentare i salari e la ricchezza in Europa. Infatti i mercati non bastano più da soli, soprattutto alla luce del fatto che la concorrenza viene distorta o da processi di dumping sociale (in Asia) o dalla presenza di forti politiche pubbliche di aiuto all’industria domestica (Stati Uniti, Giappone, Corea, Cina, Russia, ecc). Ad esempio, gli Stati Uniti stanno investendo oltre 1 trilione di dollari attraverso un programma noto come IRA – Inflation Reduction Act, che ha poco a che vedere con l’inflazione, ed è volto soprattutto a posizionare l’industria statunitense su una frontiera tecnologica più elevata e a farle guadagnare competitività. Nella fase attuale, il discorso di von der Leyen avrebbe dovuto riferirsi a questi processi, avanzare un progetto di politica industriale degno di questo nome, e spiegare mezzi e risorse finanziari per affrontare queste sfide globali, per evitare, come succede in Stati periferici come il nostro, che l’economia si posizioni su servizi a scarso contenuto tecnologico, con scarsi guadagni di produttività e bassi salari. Per evitare in pratica, di avere quello che sta succedendo nel nostro Paese, una de-industrializzazione continua e una concentrazione di attività economiche in settori come ristorazione, turismo, servizi ricreativi, servizi alla persona, logistica di distribuzione, trasporti, hotel e altri servizi simili, che fanno somigliare la nostra economia a una economia da bar più che ad alta tecnologia. Questo processo è spinto, in Italia soprattutto, dalla forte flessibilità e precarietà del mercato del lavoro, in assenza anche di salario minimo, che porta a una svalutazione dei salari e a una competizione sul lavoro, piuttosto che a una sana competizione sulla innovazione. La competizione sul lavoro spinge le aziende a fare solo investimenti labour intensive e quindi a sfruttare il lavoro e i bassi salari per competere, invece di investire in tecnologia. Le conseguenze sono l’aumento dei divari salariali con i Paesi più ricchi, e l’allargamento dei gap tecnologici e produttivi tra l’Italia e il resto dei Paesi avanzati. Sarebbe invece necessaria una politica pubblica, europea e nazionale, orientata a incentivare investimenti privati ad alta tecnologia e ad effettuare direttamente investimenti pubblici appropriati, come suggerisce Maria Mazzucato, nel suo libro Lo Stato Innovatore.
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