Democrazia, Diritto, Politica, Temi, Interventi

Vi è un tentativo in corso, oramai da tempo, di imbrigliare il conflitto sociale e di addomesticare le pratiche del dissenso. Un’offensiva incalzante che ha in questi mesi assunto contenuti e forme sempre più inquietanti e violente. Ne è una dimostrazione non solo il Decreto sicurezza recentemente varato dal Governo, ma anche, a corredo di questo, l’offensiva di matrice autoritaria sferrata al mondo del lavoro e segnatamente al diritto di sciopero. Dobbiamo essere consapevoli che dietro questo attacco al mondo del lavoro si cela un’aggressione senza precedenti all’ordinamento repubblicano. Un’aggressione partorita, innescata e alimentata dalla incalzante cultura del neoliberalismo autoritario.

Con l’affermarsi dell’ideologia neoliberale nei rapporti sociali, l’impresa è divenuta, in questi anni, il fondamento dell’intera società, il nuovo orizzonte di senso per ogni singolo individuo. A tal punto che finanche il sistema educativo è venuto progressivamente modellandosi attorno a queste logiche. Basti pensare ai contenuti della legge n. 107/2015 (la c.d. «buona scuola») che, tra le funzioni «prioritarie» delle istituzioni scolastiche, annovera «l’educazione all’autoimprenditorialità» (art. 1.7, lett. d), quasi si trattasse di una dimensione costitutiva non solo della cittadinanza, ma della stessa dimensione umana. Ne vien fuori un individuo isolato, impregnato di egoismo sociale, competizione, solipsismo. Un nuovo modello di homo economicus intriso di auto-management, tecniche di training mentale motivazionale, percorsi di auto-ottimizzazione.

L’offensiva neoliberista è stata, in questi anni, in grado di penetrare e sconvolgere la stessa organizzazione del tempo fatta (e presidiata, in parte anche costituzionalmente, dalla previsione) di ore di lavoro/ore di riposo; pausa/ripresa; servizio e ferie.

Anche su questo terreno, l’estensione dei poteri dell’impresa ha raggiunto livelli impensabili, anche in ambito UE. Dalla 93/104/CE che ha definitivamente dissolto, finanche sul terreno normativo, il concetto di «giornata» come unità essenziale del lavoro alla Dir. 2003/88 che ha introdotto la possibilità di disapplicare, nel rispetto dell’autonomia contrattuale (e, quindi, d’intesa con il lavoratore), i vincoli normativi esistenti, concernenti la durata massima delle ore settimanali di lavoro. Fino, per quanto concerne l’ordinamento interno, alla legge n. 183/2014 (il cosiddetto “Jobs Act”) che ha delegato il Governo a riorganizzare il sistema integrale di assegnazione delle mansioni nel rispetto di un unico criterio direttivo: la conciliazione dell’«interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro». Formula giuridica quanto mai esplicita che allude alla piena legittimità dell’impresa di ricattare il lavoratore procedendo, ogni qual volta lo ritenga opportuno, al suo demansionamento e a significative riduzioni del salario. E tutto ciò a fronte di disposizioni costituzionali che si “ostinano” a ribadire che «la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori» (art. 35).

A ciò si aggiunga che, con la medesima normativa, è stato altresì abrogato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e soppresso il diritto al reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti ingiustificati. La legge n. 183/2014 stabilisce, infatti, che, qualora non dovessero ricorrere le fattispecie del licenziamento per giustificato motivo o giusta causa, il giudice non potrà più ordinare la reintegrazione del lavoratore, ma – dopo aver dichiarato estinto il rapporto di lavoro – dovrà limitarsi a intimare il datore di lavoro a versare un mero indennizzo.

Nella medesima direzione si muoverà, negli anni immediatamente successivi, la legge n. 81/2017 in materia di lavoro “agile” che, dopo aver ribadito uno degli imperativi portanti del neoliberalismo («incrementare la competitività»), con la stesura degli artt. 18 e 22 si spingerà talmente oltre da avallare la sostanziale deregolamentazione delle norme sulla sicurezza. Perché se è vero che l’impresa, nei termini previsti dalla legge, continuerà a essere «responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa» (art. 18), è però altrettanto vero che, all’art. 22, la normativa introduce una franchigia che rende (sostanzialmente) il datore di lavoro legibus solutus e che consiste nell’onere di «consegna» al lavoratore di «un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro»: una clausola vessatoria dopo l’altra.

Né vi è da stupirsi. Travolgere le «tutele costituzionali dei diritti del lavoro» («constitutional protection of labor rights») e reprimere «il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi» («the right to protest if unwelcome changes are made to the political status quo») è un obiettivo strategico che ha in questi anni plasmato tutta l’ideologia neoliberale. Lo troviamo scritto a chiare lettere in uno dei suoi testi fondamentali: il documento redatto dalla banca d’affari statunitense JP Morgan il 28 maggio 2013. Un documento fatto proprio, seppure in vario modo e con intonazioni diverse, da tutti gli esecutivi succedutisi nel corso dell’ultimo decennio in Italia: dal Governo Gentiloni (decreto Minniti) al primo Governo Conte (decreto Salvini) fino al Governo Draghi (direttiva Lamorgese).

Il nuovo decreto sicurezza, collocato in questo quadro, costituisce pertanto non l’avvio, ma semmai il punto di condensazione di tendenze morbose già abbondantemente emerse nella recente vicenda politica italiana. Ma questa volta con caratteristiche e profili particolarmente gravi e insidiosi. Anzitutto per le sue dimensioni: il decreto coinvolge oltre venti fattispecie delittuose, introduce un cospicuo numero di nuovi reati, ne ridefinisce le aggravanti e le sanzioni, disponendo spropositati ampliamenti di pena.

Ma c’è un elemento che più di ogni altro spaventa e che più di ogni altro costituisce la cifra di questa normativa: il suo carattere cinico e antisociale, proteso a colpire duramente le aree del disagio, il lavoro precario, le «vite di scarto» ammassate nelle nostre città, i rejected people della società capitalistica.

Siamo in presenza di un disegno che esorbita i confini dello Stato costituzionale di diritto, un inedito dispositivo di difesa dell’ordine sociale per blindare il quale lo stesso decreto non esita a ricorrere a un articolato congegno di misure repressive, sintetizzate dal ministro Nordio con l’urticante formula “gladius legis custos”: bodycam per le forze di polizia impegnate nelle azioni di mantenimento dell’ordine pubblico; carcere per chi blocca una strada; specifiche aggravanti per i reati compiuti nelle stazioni e per le minacce e violenze commesse nei confronti di un pubblico ufficiale, in occasione della costruzione di un’infrastruttura strategica.

Una vera e propria sfida al costituzionalismo democratico e sociale che, all’insegna dei vincoli politici sanciti dal Washington consensus e dall’ideologia neoliberista, rivendica oggi anche in Italia il ripristino del principio di autorità (sotto forma di concentrazione del potere nelle mani di un capo), punta alla sterilizzazione delle assemblee elettive, persegue la rottura della coesione sociale fra i territori, criminalizza il dissenso, limita il diritto di sciopero.

In questi anni, il dominio del capitale è riuscito a imporre la sua forza nel mondo. E lo ha fatto brutalmente, con la delocalizzazione delle produzioni in paesi dove il mancato riconoscimento delle libertà sindacali consente di accumulare profitti e contenere i costi. Ma anche comprimendo nelle nostre società tutele normative e sociali conquistate nel secolo scorso: limitazione dei diritti del lavoro, estensione del precariato, compressione delle garanzie sociali, smantellamento del sistema dei controlli e delle misure di sicurezza.

Su questo terreno le responsabilità delle principali forze politiche sono enormi: hanno preferito distogliere lo sguardo dalla Costituzione per assecondare i dogmi del neoliberismo trionfante. Ecco perché l’iniziativa referendaria che ci chiamerà al voto l’8 e 9 giugno assume una valenza strategica: per la prima volta principi e norme di impronta neoliberista che hanno profondamente ferito la dignità sociale del lavoro sancita in Costituzione vengono finalmente messi in discussione.

L’iniziativa referendaria non è certamente risolutiva dei tanti problemi che investono oggi il mondo del lavoro. Ma va nella giusta direzione perché si propone di rendere le vite di tanti giovani meno precarie e senza licenziamenti illegittimi, di estendere la cittadinanza e di ridurre le discriminazioni, di rafforzare le misure di sicurezza e di arginare gli incidenti e le morti sul posto di lavoro.

Insomma, una battaglia di civiltà e per la Costituzione. Ma anche una sfida particolarmente difficile che dovrà vedersela con la scure del quorum, con le contraddizioni interne allo stesso fronte referendario, con il boicottaggio mediatico, soprattutto televisivo. Un motivo in più per impegnarsi attivamente nella battaglia referendaria.

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