Il 14 giugno l’Istat ha emesso un comunicato relativo all’andamento dei redditi delle famiglie paragonando i dati 2022 con quelli dell’anno precedente.
Le due evidenze maggiori sono il brusco abbassamento del numero delle famiglie in grave deprivazione materiale e sociale (dal 5,9 al 4,5% dell’universo), e al contempo la costanza della percentuale di famiglie a rischio di povertà (20,1 in entrambi gli anni). A prima vista si direbbe che i due dati siano incompatibili, ma a uno sguardo più attento se ne possono ricavare alcuni insegnamenti.
La prima considerazione è di carattere “esogeno”, e la dichiara lo stesso comunicato dell’Istat: rispetto al 2021 sono migliorate le condizioni del mercato del lavoro, la ripresa economica post-pandemia si è irrobustita e di questo hanno sicuramente beneficiato tutti, comprese le famiglie prima maggiormente colpite da deprivazione materiale ed indigenza. Ma al contempo andrebbe anche apprezzato il valore delle misure attuate nel contrasto alla povertà, in primo luogo il reddito di cittadinanza, che pur con i noti limiti ha certamente contribuito a ridurre l’area dei nuclei famigliari in fondo alla scala reddituale; al contempo forse proprio i limiti di quella misura hanno portato alla costanza del numero di famiglie a rischio di povertà.
Del resto ciò si può evincere da alcune ulteriori evidenze menzionate nel comunicato:
a) la riduzione del rischio di povertà è netta in tutte le aree del Paese salvo il Mezzogiorno, dove notoriamente si trova il maggior numero di percettori del reddito di cittadinanza, ma dove gli indici rimangono alti anche se si abbassa di oltre due punti il peso delle famiglie che vivono in “bassa intensità di lavoro” (dal 19,5% al 17,1%);
b) per le famiglie con almeno un componente straniero si abbassa notevolmente il rischio di povertà (dal 44.7% al 39,6%), pur mantenendosi a livelli molto alti, e giova ricordare come uno dei limiti del reddito di cittadinanza fosse l’eccessiva condizionalità per l’accesso a soggetti immigrati (10 anni di permanenza in Italia, oggi leggermente ridotto nel decreto-legge 48/2023 in via di conversione).
Andava quindi riformato il sistema (cfr. https://centroriformastato.it/la-mossa-del-cavallo-per-riformare-le-politiche-del-lavoro/). Invece il Governo ha fatto esattamente il contrario la propagandata volontà del Governo di separare “occupabili” e “non occupabili” mantenendo solo per questi ultimi una prestazione analoga al reddito di cittadinanza si è tradotta in una distinzione del tutto illogica, che non ha nulla a che fare con il rapporto tra le persone interessate e il mondo del lavoro, ma si riferisce soltanto alla loro condizione familiare e anagrafica. Chi appartiene a un nucleo familiare ove è presente un minore, un disabile o un componente ultrasessantenne mantiene il diritto di accedere alla misura più “ricca” sia in termini economici (fino a 780 euro mensili per chi abita in affitto) sia in termini di servizi. Per tutti gli altri, anche se in condizione di povertà estrema, non vi è sostanzialmente nulla (cfr. https://centroriformastato.it/primo-maggio-un-decreto-fondato-sullistinto-di-classe/).
Insomma, la ripresa ha certamente contribuito a migliorare le condizioni di parte della popolazione prima in serie condizioni di povertà, ma non ha eliminato – né lo poteva – le condizioni strutturali che le contraddistinguono. Come al solito tutto ciò è ignorato da un dibattito fatto solo di slogan e che non riflette mai su risultati negativi e/o positivi delle misure effettivamente realizzate. Eppure come avevamo già ricordato analisi analoghe erano contenute persino nell’ultimo discorso del Governatore della Banca d’Italia.
Sul reddito di cittadinanza in generale rinviamo al convegno del CRS “Reddito di cittadinanza. Non basta la parola” del 25 maggio 2018.
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