Lavoro, Temi, Interventi

Gli ultimi dati forniti dall’Istat (inizio marzo 2023, dati provvisori) sull’occupazione italiana, il suo andamento nel breve e nel medio termine, la sua composizione di genere, settoriale e territoriale meritano qualche riflessione, in particolare da parte delle forze progressiste, politiche e sociali. Vediamoli in modo grezzo.

Negli ultimi 12 mesi l’occupazione complessivamente ha continuato a crescere, raggiungendo livelli mai toccati da quando esistono tali statistiche e infrangendo la soglia apparentemente invalicabile del 60% del tasso di occupazione (il rapporto tra la popolazione in età da lavoro e gli occupati); nell’ultimo trimestre sono cresciute di più le forme stabili (a tempo indeterminato) rispetto a quelle precarie per la grande impennata delle trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti iniziati con una scadenza temporale; l’occupazione femminile, storico handicap italiano rispetto ai target europei, ha raggiunto livelli mai prima toccati nonostante il calo significativo registrato negli anni della pandemia, il tasso di inattività (quanti non cercano attivamente un impiego sul totale della popolazione in età da lavoro) cala al crescere congiunto dei tassi di occupazione edisoccupazione, segno di un mercato del lavoro nuovamente in movimento. Di qui il commento di molti osservatori che si tratti di “notizie positive” (su tutti Francesco Seghezzi sul Bollettino Adapt n° 9/23). Tutto bene, dunque? No, certamente, perché anche se in crescita l’occupazione femminile mostra ancora enormi ritardi rispetto ai Paesi comunitari nostri concorrenti (il 73% di occupazione femminile tedesca, a fronte del nostro “straordinario” 51,9%, con una media UE che si attesta al 64%), il che si riflette sulla distanza tuttora ampia tra il tasso di occupazione italiano e la media comunitaria (circa tredici punti percentuali). Né ha cambiato segno la differenziazione territoriale dei livelli occupazionali tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno, e ancora una volta la cifra del divario è prevalentemente femminile (si va dal 41% di occupazione femminile in Sicilia al 68%, oltre la media UE, in Emilia Romagna!).

Inoltre, la qualità dell’occupazione resta un problema: anche se la quota dei rapporti stabili è in crescita, si assiste contemporaneamente a una “stabilizzazione della precarietà”, cioè a rapporti temporanei che si susseguono senza trovare mai lo sbocco verso un impiego a tempo indeterminato: lo si evince da un parametro “nascosto” nel rapporto trimestrale del Ministero del Lavoro sulle Comunicazioni obbligatorie. Lì si trova il numero di rapporti di lavoro attivati nel trimestre per singola persona e il risultato è sempre superiore all’unità, con valori per le donne sempre superiori ai corrispondenti maschili. Come si comprende, un valore superiore all’unità per singola persona calcolato su base trimestrale significa una proiezione di 4-5 rapporti di lavoro all’anno (sempre che si riesca a lavorare per 12 mesi…), che equivale a un mercato del lavoro molto “dinamico” come direbbe un economista neoclassico, o drammaticamente precario come si dovrebbe invece concludere se a contribuire alla “dinamicità” fossero in prevalenza gli stessi soggetti sociali e/o gli stessi territori. E qui va aperta un piccola parentesi sul fenomeno delle dimissioni, anzi sulla Great Resignation, come pare si debba nominare questo fenomeno (perché è noto che se non si usano termini inglesi la cogenza delle asserzioni cala…): tra gli apologeti della “ritrovata libertà” consistente nel lasciare un lavoro (anche se a tempo indeterminato) e i negatori del fenomeno, credo si debba prendere le mosse dai brevi accenni di cui sopra. Il dato che sembra emergere dall’uscita dalla pandemia mi pare consista nell’accentuazione delle polarità nel mercato del lavoro, con quote che effettivamente transitano da una condizione di precarietà all’impiego stabile (lo si vede dalla notevole crescita già menzionata delle trasformazioni dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, che rappresenta la quasi totalità dei “nuovi” contratti censiti a tempo indeterminato), e contemporaneamente con la “stabilizzazione della precarietà” sopra accennata. Di qui la possibile spiegazione dell’aumento delle dimissioni, che restano pur sempre segno di una mobilità nel mercato del lavoro senza che ciò significhi necessariamente l’aprirsi di una stagione di “mercato del venditore” a favore dei lavoratori, salvo per le notissime eccezioni di qualifiche di difficile reperimento (ma che riguardano non solo i mitici profili ipertecnologici, ma assai più prosaicamente tornitori, cuochi, autisti, camerieri, ecc., secondo le stesse indagini Excelsior, spesso di eccessivo pessimismo riguardo alle carenze di personale). Si aggiunga a quanto appena detto il peso dell’inflazione degli ultimi due anni – cui non ha corrisposto un adeguato aumento salariale – e la spinta a cercare di meglio si spiega abbastanza facilmente, sia per chi lo faccia partendo da una condizione di stabilità, sia per chi, pur precario, cerca qualcosa di meglio, anche restando precario.

Qualità del lavoro e lotta alla precarietà

Dunque, occupazione in crescita, qualità complessiva in leggero miglioramento, polarizzazione che tuttavia permane, per genere, territorio, qualità del lavoro. Sintesi confermata dall’ultima indagine INAPP Plus da cui traggo le seguenti parole riferite al raffronto delle condizioni contrattuali di chi era occupato sia nel 2018 che nel 2021: “Oltre la metà di chi aveva un contratto a termine registra un passaggio al lavoro permanente (51%), ma una quota consistente di lavoratori rimane imbrigliato nella precarietà (41%). Tra chi era a tempo indeterminato nel 2018, circa il 70% rimane nello stesso stato mentre quasi il 23% presenta un tragitto in discesa dal punto di vista della stabilità, essendo transitato verso un lavoro a termine”.

Quali domande pone questa situazione al sindacato, e alle forze che si richiamano alla sinistra? Credo si debba dire in primo luogo che si è in presenza di una situazione piuttosto inedita, che difficilmente si può affrontare ricorrendo agli strumenti e alle parole d’ordine del passato.

Chi non sembra essersene reso conto è invece il Governo e il dibattito politico quotidiano: basti pensare alle misure prese nell’ultima legge di bilancio (la prima del Governo Meloni), ricca di “segnali e cambiali” che si potrebbero definire “di classe”: dalla reintroduzione dei voucher, all’allargamento oltre ogni limite della flat tax per gli autonomi “ricchi”, alla crociata contro il Reddito di cittadinanza. A me ha fatto davvero specie l’affermazione della Presidente del Consiglio al congresso della CGIL che sia solo ed esclusivamente l’impresa a creare ricchezza, perché così si torna indietro non solo rispetto alla lettera e allo spirito dell’articolo 1 della Costituzione, ma addirittura ai fondamenti del pensiero neoclassico che pure riconosceva il lavoro tra i “fattori della produzione”. E a riprova dell’arretratezza culturale e al gretto classismo della maggioranza in queste settimane si è riaperto il capitolo, per ora solo annunciato, di rimozione dell’obbligo di indicare una causale giustificativa per accendere un contratto a termine superiore a 12 mesi di durata. E quindi al sindacato e alla sinistra compete ovviamente di contrastare ulteriori forme di precarizzazione: innanzitutto smentendo la motivazione esibita per le modifiche alla normativa sui contratti a termine, la meno aderente alla realtà, ossia “ridurre i lacciuoli che gravano sulle imprese”, come se non fosse noto (e basterebbe un’occhiata ai citati rapporti sulle Comunicazioni obbligatorie rielaborati congiuntamente da Inps, Istat, Banca d’Italia) che la quota di rapporti a termine la cui durata eccede i 12 mesi (e che quindi in base alla normativa vigente necessitano dell’indicazione di una causale) è pari al 1% scarso del totale, ed è oltretutto in calo; mentre quelli con durate brevi e brevissime (fino a un mese, o a tre mesi) riguardano il 50% (e di questi ben il 15% dura fino a tre giorni!).

Quindi, in un Paese “normale”, ci si dovrebbe interrogare sull’accettabilità sociale di un livello così elevato di rapporti brevi o brevissimi, su cosa ciò significhi per le persone coinvolte, e su quali misure introdurre per contrastare tale deriva: consolarsi invece col fatto che il peso dell’occupazione a termine sia “in linea con l’Europa” (Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera) è sviare il cuore del problema, evitando di farsi invece la domanda cruciale: è una richiesta indiscutibile e “oggettiva” di flessibilità quella il cui effetto è questa condizione, oppure ce ne si può fare carico in modo diverso? Collegata strettamente a questa domanda c’è il fatto dell’enorme crescita del part-time involontario, anch’esso in stragrande prevalenza “appannaggio” delle donne. Anche qui: anziché contemplare il fenomeno, e rinviare il tutto a ipotetici interventi sulla natalità, forse sarebbe il caso di interrogarsi su come l’organizzazione del lavoro delle imprese possa evolvere in senso “conciliativo”, il che significa non solo proporsi giustamente il tema di “lavorare quattro giorni la settimana”, cioè 32 ore pagate 40, ma articolare la sacrosanta tesi della riduzione d’orario alla luce di un mondo del lavoro fatto di persone con orari multipli (prestazioni di breve durata spesso svolte anche in luoghi fisicamente distinti), cui la riduzione secca della durata potrebbe non dire molto. Ma aldilà di questi numeri, il punto decisivo è “prendere sul serio” un’espressione che si è spesso usata come ornamento, da mettere nelle premesse per poi dimenticarsene: si tratta del principio giuridico di fonte comunitaria che la forma comune del rapporto di lavoro è quella a tempo indeterminato. Da cui discende una, e una sola, conclusione: attivare un rapporto non a tempo indeterminato è certamente possibile, ma se ne deve indicare la ragione, che potrà essere oggetto di “scrutinio giuridico”. Sottolineo questo punto perché nel dibattito attuale, anche a sinistra, ci si appaga di una proposta che punta a far costare di più il lavoro non a tempo indeterminato. Intendiamoci: un costo aggiuntivo potrebbe indirizzare le scelte dell’impresa, ma anni di esperienza dovrebbero aver convinto che non è la ricetta risolutiva. Incidono qui diversi fattori. Innanzitutto, l’entità della differenza di costo non è indifferente. La riforma targata Fornero (legge 92/2012) determinò un aggravio di costo del 10% rispetto al lavoro a tempo indeterminato, e il Pacchetto Treu introdusse un aggravio del 5 (poi ridotto all’attuale 4%) per il ricorso alla somministrazione (entrambi tuttora vigenti), ma proprio gli andamenti del mercato del lavoro di questi anni dovrebbero aver dimostrato l’inadeguatezza di queste misure a mitigare il ricorso a forme precarie, perché non si calcola l’enorme vantaggio per l’impresa costituito dal potersi “liberare” della manodopera ritenuta superflua senza rischi sostanziali di contenzioso (né tantomeno di reintegro), il che sopravanza infinitamente ogni eventuale aggravio di costo. Se non fosse malizia, si direbbe che le imprese hanno imparato la lezione di Marx ed Engels meglio dei loro epigoni (“la storia di ogni società fin qui esistita è una storia di lotte di classe”); meno perfidamente, aver introiettato lo schema neoclassico di funzionamento dell’economia (“se rendo più costosa una merce, i consumatori si orienteranno verso quella più a basso costo”) ha portato la sinistra a dimenticare le ragioni sociali dei comportamenti economici…

A proposito, soccorre qui la Spagna, come ci ha spiegato Yolanda Díaz – ministra del Lavoro e vicepresidente del Governo Sanchez – in un splendido intervento al congresso della CGIL, ricco di riferimenti anche culturali di altissimo valore (su tutti la citazione della “Costituente della Terra” elaborata da Luigi Ferrajoli e Raniero La Valle); perché lì si è deciso una combinazione interessante di rigore normativo e di sussidio economico. In altre parole, si sono indicate per legge le causali giustificativi per il ricorso ai contratti a termine (essenzialmente le cose di buon senso: incrementi produttivi imprevisti, sostituzioni di personale assente giustificato), e si è contestualmente resa agevole la trasformazione a tempo indeterminato, esentando le imprese che l’avessero fatto dal pagamento delle multe per utilizzo improprio del rapporto a termine, nonché si è introdotto nell’ordinamento un rapporto di lavoro “fisso discontinuo” che combina al suo interno la garanzia di continuità del rapporto con la variabilità nel tempo della prestazione, in modo da rendere conciliabili le esigenze dell’impresa (specie stagionale, ma non solo) con quelle del lavoratore. I dati dell’occupazione spagnola hanno nel tempo smentito i profeti di sventura: l’occupazione stabile è cresciuta significativamente così come il PIL! Ecco qui suggerimenti preziosi per la sinistra anche sindacale italiana riguardo al tema delle tipologie di lavoro ammissibili dall’ordinamento, con un’avvertenza metodologica importante: non si ripercorra l’errore già compiuto dai governi succedutisi dal 2003, di intervenire cioè su uno specifico rapporto di lavoro (ad esempio sul contratto a termine, come da ultimo il cosiddetto Decreto Dignità del 2018) perché il mercato del lavoro è un contesto unitario (“una totalità” avrebbe detto Hegel), per cui se non lo si affronta globalmente ciò che si restringe in un punto riesplode in un altro: prova ne siano l’esplosione dei voucher dopo i tentativi di restrizione operati dalla “riforma Fornero” o l’espandersi di tirocini e collaborazioni occasionali dopo l’intervento sui vouchers del 2017. La riforma spagnola ha il merito di aver capito questa lezione. Come scritto altrove, un piccolissimo segnale era contenuto nell’ultima legge di bilancio del Governo Draghi, in cui era previsto un sussidio economico per i mesi di sospensione dalla prestazione lavorativa per i lavoratori (quasi sempre lavoratrici) a part-time verticale ciclico (tipico caso le inservienti delle mense scolastiche, chiuse per il periodo estivo): bene, quel lumicino, possibilmente foriero di estensione se lo si fosse messo in relazione con le necessità obiettive di flessibilità dell’organizzazione del lavoro non solo delle imprese stagionali, ma con le caratteristiche ormai durature dei mercati di molte merci oltreché di molti servizi, è stato lasciato avvizzire, per colpevole sciatteria dei governi e dell’Inps, ma forse non sarebbe male rilanciarlo.

L’organizzazione digitale del lavoro

Del resto, i dati richiamati all’inizio di queste note ci portano oltre il tema delle tipologie d’impiego, e toccano un argomento troppo spesso dimenticato anche nel dibattito sindacale: l’organizzazione dell’impresa, sia interna che esterna alle mura dell’azienda. Più che dimenticato, il tema è spesso citato rispetto alle grandi trasformazioni del nostro tempo (“transizione energetica e/o rivoluzione digitale”), ma poco si conosce di quanto effettivamente in atto, di come lo si stia affrontando e di quali problemi ne scaturiscano.

Provo a fare un esempio: durante la pandemia il ricorso al lavoro da remoto si dimostrò essere “possibile” per un’enorme quantità di attività che prima avevano riguardato a quella forma di prestazione come a una cosa aliena. Da allora, molto del lavoro da remoto si è reso strutturale, spesso nelle forme ibride di prestazioni lavorative che alternano presenza in sede e lavoro da remoto. La cosa riguarda essenzialmente il lavoro impiegatizio, ma anche sezioni del lavoro operaio (specie le forme di controllo). Bene, la discussione pubblica si è soffermata soprattutto sulle condizioni giuridiche per rendere il lavoro da remoto maggiormente possibile per alcune categorie di lavoratori (i cosiddetti “fragili”), ma non è stata a mio avviso adeguatamente tematizzata la trasformazione che il passaggio al lavoro da remoto ha comportato rispetto al vissuto delle persone, nonché – cosa che è di primario interesse per un sindacato – sui riflessi di queste condizioni su istituti contrattuali consolidati: salute e sicurezza della prestazione; ma più dettagliatamente, come si declina l’orario di lavoro, come si tutela l’infortunio, come si contratta il salario per obiettivi, in assoluto come cambia la natura della prestazione se scissa dai vincoli “oggettivi” che la contraddistinguono se svolta all’esterno di un “ambiente di lavoro”.

Non voglio certo qui aprire una discussione sulle piattaforme contrattuali, segnalo però che queste forme di tecnologia, la loro pervasività (e l’implicazione in esse dei cittadini consumatori) rendono già possibili forme di controllo della prestazione lavorativa e della vita personale mai sperimentate prima. Non a caso all’espandersi del lavoro da remoto si è accompagnata la crescita enorme dei programmi di controllo della prestazione individuale. I processi di digitalizzazione determinano in larga parte del mondo del lavoro (che lavori in presenza o da remoto) un aggravamento delle condizioni lavorative in quanto i lavoratori sono e saranno sempre più guidati dalle macchine o dagli algoritmi dotati di una “intelligenza” che impara dal “fare” e dunque si accrescono i carichi di lavoro e i ritmi lavorativi, e le mansioni lavorative in qualunque settore saranno caratterizzate sempre più da sole funzioni di sorveglianza del buon funzionamento delle macchine o dei sistemi, cancellando le capacità e le competenze professionali del singolo lavoratore.

La funzione di “sorveglianza” è un lavoro povero ma di grande fatica portando di fatto il lavoratore a una condizione crescente di stress in quanto non valorizzato; in generale il tema che andrebbe quindi declinato nelle sue diverse articolazioni è la nuova dimensione della libertà delle persone, conculcata oggi non più solo dalle classiche forme di autoritarismo implicite nella natura gerarchica dell’impresa, ma da forme assai più sottili e pervasive dovute alla potenza degli algoritmi e all’opacità con cui vengono costruiti (e qui si riafferma l’importanza, ma anche l’estrema difficoltà di “contrattare l’algoritmo” secondo la felice indicazione a suo tempo lanciata da Susanna Camusso). Inoltre, per organizzazioni “collettive” quali sono i sindacati e i partiti, la condizione di isolamento personale in cui si svolge molta parte della prestazione è un potente disincentivo all’aggregazione, pur se bilanciata da bacheche sindacali virtuali, assemblee online, ecc., che però non compensano certo la vitalità del contatto umano diretto. Parallelamente a queste innovazioni, sembra non arrestarsi il processo di articolazione delle imprese, ormai sempre più “filiere” e sempre meno entità autonome e indipendenti. Appalti, cessioni di ramo d’impresa, il distacco presso i clienti, il ricorso a cooperative, l’incremento dei rapporti non a tempo indeterminato svolti da soggetti terzi (la somministrazione) conferiscono una sempre maggiore eterogeneità alle persone che pure si trovano fianco a fianco all’interno delle mura aziendali, mentre paradossalmente si stringono i legami con chi – magari in un altro Paese e tramite un monitor e una connessione Skype – ha l’ultima parola su un processo lavorativo o in un intervento di manutenzione. Giocare su queste differenze, irridere sulle difficoltà che indubbiamente questi assetti creano a chi è nato per unificare anziché contrapporre è fin troppo facile: ma per una sinistra che voglia non solo resistere è decisivo cogliere queste novità (che ormai difficilmente si possono definire tali, visto che furono oggetto esplicito degli ultimi due congressi della CGIL) e sapervi costruire una nuova capacità di unificazione. Ancora una volta, la Spagna può aiutare in un punto, la parità di costo da mantenere se si ricorre alla catena ad appalti (obbligo presente in Italia in una legge del 1960, all’epoca dei Governi centristi, poi abolita nel 2003 per effetto “modernità” del Libro bianco del 2001); il Governo invece pensa di non ostacolare la facoltà delle imprese di ricorrere al subappalto senza vincolo di parità di costi. E se non si vuole scimmiottare altri, basterebbe ricordarsi della Carta dei diritti universali delle lavoratrici e dei lavoratori elaborata nel 2016 dalla CGIL e sottoposta alla consultazione straordinaria di lavoratori e cittadini per essere poi trasformata in Proposta di legge di iniziativa popolare e da allora tristemente dimenticata nei cassetti del Parlamento; vi si troveranno significative somiglianze, segno che un’elaborazione che affronti anche i nuovi livelli di complessità del mondo del lavoro non partirebbe da zero, se solo lo si volesse.

Reddito di cittadinanza e politiche attive del lavoro

Lo stesso si potrebbe dire riguardo al tema di un reddito di ultima istanza: i risultati della Commissione di valutazione del reddito di cittadinanza istituita dall’allora ministro Orlando e coordinata dalla professoressa Chiara Saraceno sono lì a descrivere cosa sarebbe utile fare, a partire dalle necessarie correzioni delle misura (allora) esistente. Peccato che gran parte di quei suggerimenti siano stati lasciati cadere proprio da chi li aveva commissionati per imperscrutabili ragioni di equilibri dell’allora maggioranza, lasciando così il campo ulteriormente sgombro alla controffensiva puramente ideologica dell’attuale Governo. Pur non volendo basarci su sole anticipazioni di stampa, c’è da restare basiti dall’improntitudine con cui si pensa di definire “povera” una famiglia il cui Isee complessivo non superi €7200 annui. Se non fosse tragico si potrebbe raffigurare in questo modo un metodo sicuramente più efficace di riduzione della povertà: basta definirla se non supera una soglia incredibilmente bassa (pari a € 600 mensili di reddito famigliare), e questo viene giustificato (intervista della ministra del Lavoro Calderone a Repubblica del 9 marzo) onde avere risorse maggiori per chi avrebbe davvero bisogno (le famiglie numerose).

Ma aldilà di questi aspetti inqualificabili, c’è un punto che forse merita qualche riflessione: l’enfasi sulle politiche attive. Qui penso si debba essere chiari: nessuna politica attiva potrà mai surrogare il deficit di domanda di lavoro, vuoi in termini assoluti, vuoi in termini di sbilancio tra i profili richiesti dalle imprese e le competenze possedute dai percettori del sussidio. Anche qui: i dati ci sono, basta sfogliare i report di monitoraggio dell’Inps, e/o dell’Anpal per sapere che il 70% degli attuali percettori non solo non ha livelli d’istruzione eccedenti la licenza media, ma è stato lontano dal mercato del lavoro da più di tre anni. A queste persone (ovviamente concentrate prevalentemente nel Mezzogiorno) si pensa possa agire da stimolo per “alzarsi dal divano” la prospettiva di riduzione/soppressione del sussidio o ancora la minaccia di perdita se non si accettasse la prima offerta di lavoro, casomai situata a oltre 80 km di distanza? L’enfasi esagerata sulle politiche attive nasconde l’obiettivo di sgravare il sistema delle imprese dal farsi carico – almeno in parte – dei costi occupazionali delle transizioni occupazionali, e al contempo di preservare l’enorme quantità di risorse disponibili per un sistema della formazione in gran parte autoreferenziale.

Collegato a quanto detto finora c’è un tema istituzionale, ossia la famigerata problematica del Titolo V° della Costituzione che negli anni ha ingenerato modelli regionali di legislazione sul lavoro diversi, spesso sistemi informativi tra loro incomunicanti, e in generale una svalorizzazione dei sistemi pubblici a beneficio di quelli privati – non a caso invocati dall’attuale compagine governativa – che ovviamente ragionano in termini selettivi (privilegiare i disoccupati più “facili” da collocare), utilizzando le leve pubbliche come “scarico” per le figure fragili (e su questo imbastire ricorrenti campagne sull’“inefficienza” dei sistemi pubblici). Difficile rimettere indietro le lancette in questo campo, e in linea di principio è corretto che siano le istituzioni territoriali a favorire l’ingresso e le transizioni nel mercato del lavoro, nonché il ruolo delle politiche della formazione in tale ambito. Non vi piò invece essere l’assenza di ogni riferimento nazionale, a partire dalla comunicabilità informatica, di quanto accade ai singoli lavoratori (qualifiche possedute e acquisite nel tempo, corsi frequentati, bilanci di competenze…), al fine di definire livelli essenziali delle prestazioni davvero in grado di essere garantiti da tutte le Regioni e cui ogni soggetto, specie se privato, debba attenersi. Si disporrebbe di un sistema finalmente nazionale per impostare scelte di transizione pubblicamente discusse e decise, sottraendo almeno una parte dei poteri oligopolistici oggi in capo alle imprese e ai gruppi formativi spesso da esse promananti. Sarà interessante vedere cosa ne sarà del Programma GOL, finanziato dai fondi del Next Generation, sistema pubblico di accoglienza e personalizzazione delle politiche attive: i monitoraggi dell’Anpal – oltre a confermare che più si è lontani dal mercato del lavoro e più difficile è la semplice “ricollocazione” senza un delicato e costoso investimento sul soggetto preso in carico e sul contesto che lo circonda–mostrano plasticamente che non sarà sufficiente finanziare a pioggia le agenzie private perché i percettori attuali di RdC e futuri di MIA trovino le condizioni per la fuoriuscita definitiva dalla loro condizione.

Salario minimo

Un ultimo punto: il salario minimo e la rappresentanza degli attori sociali. Anche qui si richiederebbe uno sforzo di aggiornamento anche rispetto al recente passato. Perché – ancora una volta – questa maggioranza ha mostrato la modalità più reazionaria di risposta al recepimento della Direttiva comunitaria in materia, approvando una Risoluzione parlamentare il 30 novembre 2022 che testualmente afferma: “Con la definizione per legge di un salario minimo si metterebbe a rischio il sistema della contrattazione collettiva, con il serio pericolo di favorire la tendenza alla diminuzione delle ore lavorate, l’aumento del lavoro nero, l’incremento della disoccupazione e l’aumento dei contratti di lavoro irregolare e dei contratti «pirata»; occorre sottolineare come l’introduzione di una retribuzione minima potrebbe avere un effetto inflazionistico sul mercato dal momento che le imprese potrebbero riversare i maggiori costi del lavoro sui consumatori finali, determinando così un ulteriore aumento dei prezzi dei prodotti dalle stesse commercializzati; piuttosto che intervenire sui salari si ritiene che la contrattazione collettiva andrebbe implementata puntando a quella di prossimità. Quest’ultima, in particolare, rappresenta uno strumento utile proprio per la propria flessibilità, in un mercato del lavoro oggi più che mai dinamico, dal momento che offre alle imprese la possibilità di adeguare alcuni istituti normativi e contrattuali, entro limiti prestabiliti, alle condizioni e alle specifiche esigenze delle diverse realtà aziendali”. Risuonano qui sia echi di pura destra conservatrice (salari troppo alti determinano crescita di lavoro nero), sia di continuità con versioni che sono andate per la maggiore negli anni dei governi degli anni 2008-2012 in cui si è contrapposta la contrattazione aziendale al ruolo di autorità salariale e normativa dei CCNL (il famigerato articolo 8 del 2012, a copertura della rottura operata dalla FCA di Marchionne rispetto al CCNL unitario dei metalmeccanici).

Ciò detto, occorre però trarne le conseguenze: fin quando ci sarà questa maggioranza e questo Governo difficilmente vedrà la luce una forma di salario minimo legale, nonostante l’auspicata convergenza sul tema di tutta l’opposizione. Che fare, quindi? Non mi pare che resti che il secondo corno del problema: spingere per una legislazione sulla rappresentanza degli attori sociali, che conferisca a quanti di essi siano maggiormente rappresentativi la facoltà di sottoscrivere contratti collettivi a efficacia generale (tema volutamente tenuto nascosto nell’intervento di Meloni al congresso CGIL). Si darebbe così attuazione sia alle disposizioni dei commi 2-4 dell’articolo 39 della Costituzione, e al contempo al secondo filone della direttiva comunitaria che riconosce l’esenzione dall’applicazione del salario minimo legale a quei Paesi i cui salari siano determinati da pattuizioni aventi valore generale. Giova ricordare che tale argomento è stato utilizzato dalla Corte Europea di Giustizia per ammettere pratiche di evidente dumping avvenute in Paesi (i casi più noti furono la Svezia, la Finlandia e la Germania) dove i salari nazionali, anche se di fatto di generalizzata applicazione, non erano legalmente obbliganti perché frutto di contratti tra soggetti privati; esattamente come accade da noi.

Avendo il Parlamento sbarrato la strada per la definizione di un salario minimo legale, non resta che battersi perché lo diventino i salari definiti da attori riconosciuti per legge come maggiormente rappresentativi. Vittorio Foa l’avrebbe definita una “mossa del cavallo”, e credo sia venuto il tempo di muovere un po’ la scacchiera.

Riferimenti pubblicazioni citate

  • Istat: Occupati e disoccupati (Dati provvisori), Gennaio 2023
  • Istat, Banca d’Italia, Inps, Ministero del lavoro: Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione
  • Ministero del Lavoro: Sistema delle comunicazioni obbligatorie – IV Nota trimestrale 2022
  • ANPAL: Monitoraggio Programma GOL, gennaio 2023
  • INAPP: Bergamante & Mandrone (a cura di) Rapporto Plus 2022

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Un commento a “La mossa del cavallo per riformare le politiche del lavoro”

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