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Superga, l’imponente basilica settecentesca che svetta sopra Torino, è stata ferita due volte: nel 1949 dall’aereo della sfortunata squadra di calcio che la colpì sul retro; nel 2024 dalla tumulazione nella basilica di Vittorio Emanuele, ultimo e indegno erede di tale onore.

La famiglia Savoia è la più antica d’Europa. Ha regnato continuativamente dal 1003 fino al 1945 con oltre 40 monarchi (prima conti, poi duchi e infine re). Basterebbe questo primato storico a suscitare rispetto, se non fosse per i fatti e i misfatti che hanno caratterizzato le sette ultime generazioni della dinastia. Oggi dovremmo interrogarci: quanto è costata all’Italia la monarchia sabauda negli ultimi due secoli?

Nel 1815 il Congresso di Vienna aveva elargito in dono ai Savoia la ex Repubblica di Genova, con il suo porto attrezzato, industrie nascenti e una borghesia ligure aperta ai commerci dopo l’epopea napoleonica. Ma il re sabaudo d’allora, Vittorio Emanuele I°, invece di sfruttare quel colpo di fortuna per ammodernare il regno, si accanì a riesumare il sistema di governo del Settecento. Nel 1821, impaurito dai primi moti liberali, abdicò a favore del fratello Carlo Felice, che era ancor più reazionario, tanto da meritarsi l’epiteto di Carlo Feroce. Nel 1831 la successione passò a Carlo Alberto: da giovane aveva simpatizzato con il liberalismo, per rinchiudersi poi in una soffocante autarchia. Il regno stava perdendo la sfida con la modernità e con la nuova borghesia europea.

La corte sabauda era militaresca di natura: pochi libri e tante caserme. Oltretutto era guidata da una logica militare antiquata. Se ne rese conto troppo tardi lo stesso Carlo Alberto, allorché decise nel 1848 di affrontare da solo la potenza austriaca per annettersi la Lombardia. Coraggioso sul campo ma intestardito a condurre lui stesso l’esercito, fu sconfitto due volte, interpretò la disfatta come “un segno dell’ira divina per l’empietà parlamentare verso gli ordini religiosi” (sic) e finì per abdicare. Di lui resta memorabile solo lo Statuto Albertino, promulgato obtorto collo sotto la spinta delle rivoluzioni del ’48.

Il nuovo re, Vittorio Emanuele II°, si fece notare subito. Nel marzo del 1849 Genova era insorta e il re affidò ad Alfonso Lamarmora il compito di schiacciare la rivolta. I suoi bersaglieri si distinsero per i saccheggi e i massacri contro cittadini inermi, tuttora ricordati da una lapide in Piazza Corvetto. Il re scrisse a Lamarmora (in francese): “Mio caro Generale, non potevate fare di meglio e meritate ogni genere di complimenti”. Comunque, la vera vocazione del nuovo re era altra: tirare ai camosci sulle Alpi e attirare popolane nel suo talamo. La sua fortuna fu di avere al fianco un primo ministro geniale come Cavour; la sua sfortuna fu di perderlo troppo presto, nel 1861. All’unificazione della penisola mancavano ancora il Veneto e il Lazio. Da sempre i re sabaudi controllavano di persona il dicastero della Guerra, nominando i più alti gradi in piena discrezione. Solo così si spiega come nel 1866 gli austriaci, pur inferiori di numero, sconfissero il nostro esercito a Custoza e la nostra flotta a Lissa. Il Veneto non fu conquistato, bensì regalato a noi dalla Prussia, che nel frattempo aveva battuto l’Austria. L’onta per Vittorio Emanuele fu tale da pretendere, tre anni dopo, di “riscattare l’onore” partecipando all’appena iniziato conflitto franco-prussiano; ma lui intendeva entrare in guerra a fianco della Francia, non della Prussia! E i suoi consiglieri faticarono a convincerlo che probabilmente sarebbe stata la Prussia a vincere, come infatti avvenne.

La conquista di Roma fu un’impresa militare meno ardua. Più arduo fu costringere il riluttante Vittorio Emanuele a trasferirsi nella nuova capitale d’Italia (si diceva che il Quirinale portasse jella); e per convincerlo a trascorrere a Roma più tempo che nelle sue amate riserve di caccia in Piemonte, il frugale governo Lanza dovette acquistare per la Corona la tenuta venatoria di Castelporziano. Oggi, vie, piazze e monumenti grandiosi celebrano la figura del “Re Galantuomo”; mentre il nome di Giovanni Lanza viene ricordato solo in qualche via secondaria e in una lapide romana, in Via Bocca di Leone, in cui si loda l’onestà e l’efficienza di Giovanni Lanza che aveva trasferito il governo da Firenze a Roma senza sperpero di denaro pubblico.

Non si può dire altrettanto di Umberto I°, che succedette al padre nel 1878. Sposato con la cugina Margherita di Savoia, la coppia reale si fece notare per un train de vie dispendioso e per il coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana. In una congiuntura economica dura per il Paese, Umberto rafforzò le sue pulsioni repressive, al punto da premiare il generale Bava Beccaris per aver soffocato nel sangue una sollevazione di milanesi inermi scesi in piazza, nel 1898, a protestare per il prezzo del grano: 80 morti, centinaia di feriti e migliaia di condannati al carcere. Non finì bene neppure per lui: l’anarchico Bresci lo uccise a Monza nel luglio del 1900.

Gli successe il figlio Vittorio Emanuele III°. Nato dal coniugio di due cugini primi, crebbe poco in altezza (era alto 1,53) ma molto in spirito bellico. Non esitò mai quando doveva firmare dichiarazioni di guerra, anche se erano guerre di aggressione e non di difesa: contro la Turchia nel 1911, contro l’Austria-Ungheria nel 1915, contro l’Etiopia nel 1935, contro Francia e Gran Bretagna nel 1940. Con pari “senso del dovere” affidò nel 1922 l’incarico di governo a Mussolini, controfirmò nel 1925/26 le nuove leggi fasciste e nel 1938 le altrettanto ignobili leggi razziali. Dietro a tale condiscendenza si celava una ragione mai svelata apertamente: il timore di essere scalzato dal cugino, quel Duca d’Aosta alto quasi due metri, assai popolare e molto amato dai fascisti. L’ultimo episodio del suo lungo regno fu la fuga da Roma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando abbandonò alla furia nazista un popolo stremato e un esercito senza capi. Il figlio Umberto non ebbe il coraggio di ribellarsi al principio secondo cui “in casa Savoia si regna uno alla volta”, e così perse l’ultima chance di salvare una dinastia che aveva regnato per un millennio senza interruzione.

Anche i figli di Umberto lasciarono l’Italia. L’unico maschio dei cinque, Vittorio Emanuele, si fece conoscere presto per le sue dubbie frequentazioni, l’affiliazione alla loggia P2 e oscuri traffici commerciali, di armi in particolare. E fu proprio un’arma a rivelare la sua vera natura. Nell’agosto del 1978, l’isola corsa di Cavallo fu teatro della sparatoria in cui Vittorio Emanuele colpì gravemente un giovane tedesco, che morirà dopo una lunga agonia. Per salvare l’ex-principe dalla galera si mosse perfino il presidente francese Giscard d’Estaing (noto per essere snob in senso proprio: sine nobilitate), perciò assetato di quella aristocrazia che a lui mancava. Ma nessuno capirà mai di quale nobiltà possa fregiarsi un tiratore scelto mai pentito, che in carcere si lasciò stupidamente sfuggire una confessione plateale: «Devo dire che li ho fregati… Io ho sparato un colpo così e un colpo in giù, ma il colpo è andato in questa direzione, è andato qui e ha preso la gamba sua, che era steso, passando attraverso la carlinga».

Come è possibile ospitare nella basilica di Superga, che è demaniale, un tale personaggio?

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