Durante il mese trascorso dalla sua morte (Parigi, 16 dicembre 2023), Toni Negri è stato ricordato e celebrato, in Italia e all’estero, come filosofo originale e teorico instancabile della rivoluzione, come militante comunista, esponente di spicco dell’operaismo e leader dell’Autonomia, come analista dell’Impero globale e bussola di riferimento dei movimenti altermondialisti d’inizio Duemila. Un caleidoscopio politico e affettivo – non privo, in Italia, di fissazioni idiosincratiche sulla memoria controversa degli anni Settanta – che restituisce la complessità della sua figura e anticipa la ricchezza della sua eredità. A questo caleidoscopio aggiungiamo qui una piccola tessera, riproponendo un’intervista che Negri mi rilasciò per il manifesto del 14 settembre 2002, nell’ambito di una serie di colloqui filosofico-politici sul primo anniversario dell’attentato alle Torri gemelle di New York (oggi ripubblicati nel mio 2001. Un archivio. L’11 Settembre, la war on terror, la caccia ai virus, manifestolibri 2021). Non è una riproposizione meramente commemorativa. Si tratta di un testo assai lungimirante, che a partire dalle tesi di Impero, il best-seller del 2000 di Negri e Michael Hardt, individuava già vent’anni fa tendenze tuttora in corso e contraddizioni tuttora vive nel tormentato scenario globale di oggi: la tensione fra la forma imperiale e le controspinte nazional-imperialiste dell’egemonia americana, la guerra come strumento fisiologico di polizia preventiva incurante del diritto internazionale e la guerra civile globale come forma fisiologica del conflitto, il rapporto fra evoluzione dell’identità ebraica, lo scenario mediorientale e l’ordine mondiale, la faglia fra onda neoliberale e onda populista-sovranista interna alle democrazie occidentali, le potenzialità disattese della costruzione europea, le risorse e le impasse dei movimenti antagonisti.

Aggiungo un piccolo ricordo personale. L’intervista si svolse nella casa romana di Toni a Trastevere, mentre lui stava scontando in semilibertà la pena a cui era stato condannato dopo il suo rientro dagli anni di fuga a Parigi. Eravamo amici e discutevamo spesso di quello che accadeva nel mondo: avrebbe potuto affidare quel colloquio all’informalità e all’improvvisazione, invece mi accolse con un quaderno pieno di appunti che aveva vergato scrupolosamente nei giorni precedenti, compulsando una gran quantità di fonti internazionali. Era il suo modo, sempre rigorosissimo, di lavorare. (i.d.)

Dal febbraio 2000, quando uscì per Harvard l’edizione americana, a oggi, Empire di Toni Negri e Michael Hardt è stato tradotto in spagnolo, tedesco, francese, cinese, italiano, turco, arabo e ha venduto mezzo milione di copie in giro per il mondo (oltre 40.000 in Italia per Rizzoli, una cifra normalmente impensabile per la saggistica di qualità). Il successo di mercato dice quante risonanze trovi nella realtà del presente la proposta interpretativa del libro. Che infatti è diventata, nell’accordo o nel disaccordo, un punto di riferimento obbligato del dibattito sul mondo globale. L’11 settembre la intercetta, ne è interrogato e la interroga: soprattutto sul rapporto fra la forma della sovranità imperiale che il libro delinea e l’attuale politica americana. Quest’ultima sembra infatti rispondere più alle caratteristiche di uno Stato imperialista tradizionale che pretende di ridisegnare i confini geopolitici del pianeta mobilitando l’identità nazionale, che non al profilo di un impero globale decentrato e deterritorializzato, che amministra identità ibride e gerarchie flessibili senza fare ricorso a tradizioni e valori etnico-nazionali.

Impero è uscito negli Stati uniti all’inizio del 2000, qui in Italia all’inizio del 2002. In mezzo, sono crollate le Torri. Ci si poteva aspettare nell’edizione italiana l’aggiunta di un capitolo sull’11 settembre, com’è accaduto in molti saggi politici usciti quest’anno. Non l’avete aggiunto: perché l’evento non era epocale, o perché non costituiva una sorpresa per le vostre tesi?

L’evento era rilevantissimo, ma confermava una delle tesi di fondo del libro, cioè la fine dell’insularità americana e della differenza fra nazioni telluriche e nazioni marittime. Che New York potesse essere bombardata come Londra, Berlino, Tokyo, confermava che il processo di formazione del nuovo ordine globale era pienamente dispiegato. E che i simboli del potere economico americano fossero attaccati da al-Qaida era un segno della «guerra civile» in atto per la leadership imperiale. Di assolutamente nuovo, rispetto all’impianto del libro, c’è ora il fatto che la reazione americana si sta configurando come un colpo di reni contrario e regressivo rispetto alla tendenza imperiale. Una controspinta, un backlash imperialista dentro e contro l’Impero, legato a vecchie strutture di potere, a vecchi metodi di comando, a una concezione monocratica e sostanzialista della sovranità che va a sua volta in controtendenza rispetto ai caratteri molecolari e relazionali del biopotere imperiale che noi avevamo analizzato. La gravità della situazione di oggi sta in questa contraddizione.

Come te la spieghi?

L’11 settembre è capitato nel momento in cui il polo conservatore stava riprendendo piede negli Stati Uniti, col programma di salvaguardare gli interessi nazionali penalizzati dal processo politico, economico e sociale di costruzione dell’Impero. Il gruppo che è andato al potere con Bush è un gruppo squisitamente reazionario, legato a un’ideologia populista più che ultraliberista, e al mantenimento di alcune megastrutture del potere americano come il controllo dell’energia e lo sviluppo del sistema militare industriale. È gente che è rimasta a lato della terza rivoluzione industriale e non la porta avanti, anzi la guarda con ostilità visto che la new economy è andata pure in crisi, e non ha altra ipotesi in testa che quella di tornare a puntare sulla tradizione.

Non è una contraddizione da poco, questa che dici. Rende il processo di costruzione dell’Impero molto più accidentato di come lo avevate descritto…

È una contraddizione gravissima: ricorda la reazione dei nazionalismi al mutamento di scenario degli anni Trenta. Può succedere di tutto, la tensione fra la crescita del mercato-mondo e queste pulsazioni regressive dell’amministrazione americana porta la situazione a un limite estremo.

Con la guerra come strumento fisiologico di intervento e di autolegittimazione. Anche questo, Impero l’aveva detto.

Sì. La guerra che diventa operazione di polizia preventiva, il che, bada, non significa che sia più soft delle guerre tradizionali: per la prima volta dopo il containment gli Stati Uniti fanno balenare la possibilità di usare l’atomica. E le organizzazioni internazionali bistrattate senza il minimo decoro, sul protocollo di Kyoto come sul tribunale penale internazionale come sulla guerra all’Iraq.

Ce la farà l’amministrazione Bush a portare avanti questo suo progetto? Se la controspinta imperialista è così in contraddizione con il trend imperiale, così anacronistica, non si può sperare che incontrerà a sua volta ostacoli e resistenze?

È difficile valutarlo: oltretutto c’è una quota di bluff, nel comportamento di Bush, che è il corrispettivo perfetto del bluff di Bin Laden. Sul piano politico internazionale, ci sono segnali di rifiuto radicale della posizione americana, sia in Europa sia – e malgrado l’adesione alla coalizione antiterrorista – in Russia e in Cina; ma senza gruppi dirigenti in grado di esprimerlo e farlo valere. L’ostacolo vero a Bush può venire piuttosto dai mercati. I mercati alla guerra non ci stanno.

Sei convinto di questo? La guerra non servirebbe a rilanciare l’economia?

No. Per far riprendere l’economia americana ci vorrebbe la seconda guerra mondiale, non l’operazione di polizia contro l’Iraq, che può solo avere effetti negativi sul risparmio negli Stati Uniti e portare confusione nel mercato islamico. Per di più, contrariamente a quello che si dice la revolution in military affairs dei primi anni ’90 non contiene forti elementi di innovazione tecnologica: prevede investimenti bellici di tipo tradizionale, malgrado la struttura dell’esercito sia cambiata, nel frattempo, in senso opposto, «imperiale». Anche sul piano militare dunque siamo in piena regressione: non è un caso che vasti settori dell’apparato militare siano contrari all’intervento in Iraq.

E sul piano sociale? Quante chance ha l’ennesima chiamata alle armi di ottenere il consenso che le è necessario?

A me pare che Bush si esponga alla guerra con un consenso debole, che non sarà il richiamo patriottico a rendere solido. Negli Stati Uniti sta emergendo una crisi sociale che il Governo fa finta di non vedere. L’amministrazione Bush si è insediata nel momento in cui l’onda neoliberista aveva preso tutto quello che c’era da prendere. Poi è arrivata la crisi del mercato borsistico, e in una società di redditi come quella americana, in cui la redistribuzione della ricchezza avviene largamente attraverso il mercato finanziario, una crisi del mercato finanziario tocca i redditi bassi e diventa una crisi dell’intera comunità. Naturalmente, in una situazione di potenziale crisi sociale come questa, emerge la debolezza politica del sistema americano, incardinato ai media e al controllo dell’opinione pubblica: e nei media non si vedono controtendenze rispetto al trend di governo.

Di questo non sarei così certa. I media agiscono sul piano linguistico-simbolico, e sul piano linguistico-simbolico gli spostamenti possono essere più imprevisti e veloci che sul piano politico.

Non so, non vedo passaggi significativi fra semiotico e sociale. Il sistema dei media americano è troppo chiuso e autoreferenziale.

E sul piano elettorale, non può accadere nulla? A novembre negli Stati uniti si vota per il congresso. Che Bush vinca o perda non è secondario.

Ovviamente ci auguriamo tutti che vincano i democratici, per quanto debole e minima sia l’alternativa di cui sarebbero capaci. Ma ho l’impressione che sul piano elettorale l’essenziale sia già avvenuto, e consista in una importante modificazione del corpo elettorale stesso. Ci sono settori importanti della società americana che si sono spostati a destra, la componente ebraica per prima, con conseguente spiazzamento del ceto politico democratico che le era tradizionalmente legato. Bush s’è preso l’alleanza fra questa destra ebraica e l’estrema destra cristiana, nonché gli ispanici.

Non credo che queste frontiere etnico-elettorali siano rigide di per sé, ma finché continua a irrigidirle la politica di Israele c’è poco da fare.

Perché questo spostamento a destra della componente ebraica? Per ragioni di arroccamento identitario?

Perché la diaspora ha perso. La figura della diaspora, che significava la differenza di essere sempre altro e perciò ci piaceva, è stata sconfitta. E questo pesa enormemente sulla questione mediorientale, che oggi si presenta davvero come il residuo ottocentesco nel mondo globale. Anche questo l’avevamo scritto, in Impero: la fine della rivoluzione socialista comporta processi di rifeudalizzazione, più o meno come avvenne dopo la Riforma. Un altro backlash. Il problema è capire se si stabilizza.

Riassumo. L’11 settembre ha rivelato, per così dire, la globalizzazione avvenuta e il processo di costituzione imperiale in corso. La risposta politica e militare americana è reazionaria in senso stretto, porta indietro quel processo riesumando forme e metodi nazionalisti e imperialisti, cioè anti-imperiali, o almeno ci prova anche se non sappiamo quanto ci riuscirà. Mi pare di capire che gli anticorpi progressisti, le forze che invece possono spingere verso l’impero, tu le veda nei mercati e nelle multinazionali più che nella politica, quella istituzionale almeno…

E anche in altre contraddizioni che si aprono. La militarizzazione del potere, ad esempio: se la guerra diventa un elemento costante di legittimazione politica, i generali diventano i veri governanti, come già adesso si vede dall’amministrazione Bush che di generali è piena, e poiché gli eserciti evolvono verso il mercenariato, il processo di corruzione delle strategie imperiali può correre velocissimo. Crisi e corruzione sono elementi potenti di erosione del potere. E aprono a strategie di opposizione e di esodo, tipo il rifiuto di pagare le tasse per finanziare le spese di guerra.

Dalla politica istituzionale, la debole alternanza destra-sinistra delle democrazie occidentali, c’è da aspettarsi poco. E da quello che tu e Hardt chiamate il contro-impero, la moltitudine? Dopo l’11 settembre il movimento dei movimenti è fermo, soprattutto negli Stati Uniti. Quali carte ha in mano?

Due, l’esodo e la resistenza. E deve giocarle entrambe. L’esodo, cioè l’astensione dal gioco, il rifiuto, la dimostrazione di essere da un’altra parte rispetto alla partita in corso è il comportamento radicale che tutta la vicenda che si è annodata attorno all’11 settembre merita. Ma contemporaneamente, di fronte ai ritorni di barbarie, è necessario saper opporre resistenza, su un terreno di incontro possibile con i riformisti. Il movimento si può costruire solo sull’esodo, ma deve anche fare resistenza. Perché non è che il potere ti lasci fare esodo in santa pace, ti attacca continuamente. E dunque, o l’esodo diventa militante e combattente o è perdente. Devi esercitare forza anche quando non vorresti, soprattutto quando non vorresti: è l’avversario che te lo impone. Il problema è capire come. Come giocare l’eccedenza creativa della moltitudine nei rapporti di forza reali. Quale topologia della resistenza disegnare, quali pratiche, anche singolari, mettere in atto. Come lottare contro la guerra, quali alleanze intrecciare con le aristocrazie imperiali riformiste… tutto questo è da pensare.

C’è anche dell’altro, se posso. La moltitudine è fatta di uomini e donne. E la libertà fem minile guadagnata negli ultimi decenni del Novecento mette già in atto comportamenti di «esodo» dalla logica del potere che oggi, in società femminilizzate come le nostre, sono tutt’altro che irrilevanti nelle previsioni su come andrà a finire la partita: che venga meno il consenso femminile alla seduzione del potere o alle strategie di guerra, mi pare una buona differenza rispetto agli anni Trenta. Anche se i backlash si fanno sentire pure da questo punto di vista: come ci sono i colpi di reni dell’imperialismo sull’impero, ci sono i rigurgiti di patriarcato sulla fine del patriarcato, a Est e a Ovest, e sono, sia chiaro, rigurgiti tutt’altro che indolori. In questa situazione si tratta di scommettere: personalmente, per esempio, io mi sento di scommettere che il backlash patriarcale non è vincente sulla libertà femminile…

I rigurgiti patriarcali li vedo benissimo: la posizione di Bush è patriarcale, quella di Bin Laden anche, e forse pure quella di Arafat… Ma anche l’esodo femminile devi poterlo concretizzare, raffigurare politicamente. Che la moltitudine, uomini e donne, sia carica di potenzialità lo so bene, ma la situazione è davvero molto drammatica e non sarebbe la prima volta che un processo carico di potenzialità viene bloccato o distorto.

Anche tu, come molti, per il tuo progetto fai leva sull’Europa. Ti faccio la stessa obiezione che ho già fatto ad altri: la storia europea non milita a favore di un vantaggio dell’Europa sugli Stati Uniti, nell’affrontare le sfide politiche e sociali del mondo globale. Come si legge anche in Impero, semmai è la costituzione americana, basata sulla frontiera aperta e l’inclusione delle differenze, a trovarsi in vantaggio su quella europea, fatta di frontiere e identità nazionali più rigide.

Dal punto di vista storico hai ragione, ma oggi l’Europa è lo spazio che ci è consegnato per qualsiasi progetto politico. Anche perché è uno spazio abitato da forze sociali – strati del lavoro produttivo intellettuale – interessate a una nuova organizzazione sociale. Se costruita dal basso, mobilitando le moltitudini, l’Europa unita può essere un terreno su cui esercitare una funzione sovversiva dell’ordinamento globale.

Ultima, e non ultima, questione. Impero è tutt’altro che un libro antiamericano, pur non facendo alcuno sconto al peso degli Stati Uniti nelle strategie imperiali. Non possiamo nasconderci però che oggi, complice la stupidità della strategia reazionaria di Bush, a sinistra l’antiamericanismo monta, anche fra gli stessi no-global. A me pare una posizione confusa, sbagliata e anche pericolosa. A te?

Sono del tutto d’accordo. Come mi pare di aver detto fin qui chiaramente, io sono estremamente critico nei confronti del Governo americano, e qualunque persona sensata non potrebbe non esserlo. Ma pensare che il Governo Bush sia l’America è privo di senso. Malgrado tutto quello che sta avvenendo, la società americana resta una macchina completamente aperta. E dunque, anche se il progetto di Bush è monocratico e imperialista, è sbagliato considerare monocratici o imperialisti gli Stati Uniti come tali. C’è di più. La posizione dell’antiamericanismo coincide con una posizione di rivalutazione e difesa dello Stato nazionale come trincea anti-imperialista; tentazione, quest’ultima, non estranea ad alcuni settori del movimento dei movimenti, come si è visto a Porto Alegre. E questa sarebbe davvero una postura sbagliata, che ci impedirebbe di capire com’è fatto il mondo, chi ha il comando e chi può sovvertirlo.

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