Ha scritto Stiglitz che la differenza tra un’economista di destra e uno di sinistra sta in questo: il primo, se vede a una persona in povertà, pensa che non abbia voglia di lavorare, il secondo che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema.

Statistiche e retoriche

Non ha raccolto molta attenzione, ma una parte della pubblicistica sul Reddito di cittadinanza introdotto nel nostro ordinamento all’inizio del 2019 (d’ora in poi RdC) ha coltivato un approccio del tipo ‘dati’ contro ‘miti’1, grazie al quale, in particolare, è emersa l’inconsistenza dell’idea che l’istituto abbia disincentivato la partecipazione al lavoro, diffusa nel mondo imprenditoriale e ripetuta, in modo più o meno scomposto, da tanta parte del mondo politico. Senza per questo negare che esistano problemi da risolvere: sulla base di un esame ravvicinato delle statistiche disponibili, gli interventi in questione non hanno mancato di fornire indicazioni puntuali circa i difetti che la normativa, pure, ha fatto registrare, soprattutto dal punto di vista dei criteri di selezione delle persone (famiglie) beneficiarie2.

Per quanto mi riguarda, atteggiamenti del genere – informati, analitici, attenti alle evidenze empiriche – sono sempre assai apprezzabili. Ma non sempre sono sufficienti. Nella fattispecie, l’idea che il RdC dia luogo a un’indebita alterazione dei rapporti vigenti sul mercato del lavoro merita anche commenti meno ‘oggettivanti’ – un confronto più aperto con la verve ideologica che segna l’offensiva. Tanto più che una discussione più serrata riserva qualche sorpresa: colte e criticate nei loro motivi di fondo, le posizioni di parte imprenditoriale offrono più di uno spunto per mettere a fuoco le opposte ragioni di un vero e proprio reddito di base, universale e non-condizionato, che naturalmente è cosa molto diversa dal programma che ha operato in questi anni e tanto più invisa ai nemici di quest’ultimo.

In altri termini. Il RdC voluto dal Movimento 5 Stelle è molto meno di quello di cui c’è bisogno, ma questo non toglie che l’istituto abbia svolto un ruolo importante negli anni terribili seguiti alla sua introduzione, né che le istanze che bene o male stanno alla sua origine appartengano al cuore della situazione sociale ed economica nella quale ci troviamo a vivere. Aggiungo che mettere a tema i ‘fondamentali’ di quest’ultima, e farne emergere la prospettiva tanto più radicale di un vero e proprio reddito di base, sembra quello che soprattutto conviene fare in una congiuntura politica come quella odierna, nella quale è fin troppo facile che tutta l’attenzione si concentri sulla denuncia e sul contrasto delle scelte legislative annunciate o già compiute dal Governo3. Perché certo, queste ultime meritano di essere criticate nel modo più severo, ma anche più importante è il compito di provare a incidere sul modo nel quale le questioni del lavoro e del reddito – e del loro nesso – prendono forma nel seno della società, presso il senso comune, di certo oltre i confini del mondo imprenditoriale. In esse, infatti, è racchiusa una parte importante della possibilità di delineare l’orizzonte ideale e il ‘programma fondamentale’ di una politica all’altezza dei tempi in cui viviamo, che prima o poi riesca ad aver ragione degli attuali equilibri sul piano del consenso, e con essi del vigente quadro di governo.

I messaggi delle evidenze empiriche

Dai dati disponibili, intanto, si ricava quanto segue4:

  1. Nel periodo 2021-2022 – con la misura ormai entrata a regime, e anche trascorsa la fase più acuta dell’emergenza Covid – le persone che hanno beneficiato del RdC (nel senso che hanno ricevuto almeno una mensilità del trasferimento) sono state circa 1.800.000 in ognuno dei due anni5. Numero nettamente maggiore di quelli fatti registrare da analoghe misure del passato (in particolare il Rei e il Sia, per altro mai entrati a regime), paragonabile a quelli che si registrano nei paesi europei di welfare più consolidato.
  2. Il 46% delle persone beneficiarie è formato da occupati/e. Tenuto conto del fatto che la soglia di accesso al beneficio è inferiore alla soglia della povertà relativa (il 40% del reddito mediano), si vede bene come la misura abbia riguardato in gran parte la folta categoria dei ‘lavoratori poveri’.
  3. Del restante 54%, formato da circa 985.000 persone disoccupate o inattive, il 41% (395.000 persone) è stato convocato dai Centri per l’Impiego (CpI) in vista della sottoscrizione di un ‘Patto per il lavoro’, propedeutica all’avvio di una ‘normale’ esperienza lavorativa, il 34% dai servizi sociali dei comuni in vista di altre esperienze di inclusione, il 25% non ha ricevuto alcun ‘invito a comparire’.
  4. L’effettiva sottoscrizione di un Patto ha però riguardato soltanto il 40% delle persone convocate dai CpI, e soltanto al 50% dei Patti sottoscritti ha fatto seguito la vera e propria offerta di un posto di lavoro, ricevuta dunque da circa 78.000 persone. I casi di accettazione/rifiuto sono stati rispettivamente 44.000 e 34.000.

Indubbiamente, dunque, il numero dei rapporti di lavoro attivati per il tramite del RdC è molto piccolo – in effetti, la differenza tra 985.000 e 44.000 fa impressione. Come spiegarla? Le ragioni principali sono leggibili in controluce nei punti c) e d).

Intanto, sulla scorta del primo, conviene fare mente locale sulla limitata entità del numero di persone risultate ‘di competenza’ dei CpI, responsabile, da sola, del passaggio da 985.000 a 395.000 unità. Si tratta di un riflesso dell’accentuata ‘lontananza dal mercato del lavoro’ che caratterizza la maggior parte di coloro che hanno accesso al beneficio – ovvero della diffusa mancanza di profili professionali coerenti con la possibilità di un rapido ingresso nella workforce di un’impresa. Questo stesso dato di ‘marginalità’ lavorativa è leggibile nell’elevata percentuale delle persone indirizzate ai servizi sociali dei comuni, e ancora, in modo conclusivo, è confermato da tutte le analisi dirette delle caratteristiche prevalenti presso la generalità dei/delle beneficiari/ie. In breve, come la componente delle persone occupate è formata (tutta) da lavoratori poveri, quella delle persone disoccupate o inattive è formata (in massima parte) da rappresentanti delle fasce più deboli dell’offerta di lavoro (ammesso che si manifesti come tale).

Il resto, vale a dire l’esiguità del numero di coloro che hanno sottoscritto un Patto e ricevuto l’offerta di un posto di lavoro, ha certamente a che fare con le modeste capacità operative dei CpI. Qui si sconta il fatto di aver varato il RdC prima di averli riformati, o comunque seriamente rafforzati: scelta anche comprensibile, e perfino provvida, con il senno di poi, dal momento che ha consentito di contare sulla misura negli anni più duri della pandemia, ma non per questo priva dei vistosi effetti negativi che in materia di ‘attivazione’ si leggono nei numeri. A proposito dei quali, però, c’è anche da dire che la stessa pandemia ha reso tanto più difficile il lavoro dei (già inadeguati) CpI, al punto da consigliare una temporanea sospensione delle procedure di sottoscrizione dei Patti, durata da metà marzo a metà luglio del 2020.

Sulle questioni che riguardano le politiche di attivazione tornerò tra poco. Intanto, i dati appena confrontati consento di escludere che il ‘fallimento occupazionale’ del RdC – appunto i pochi rapporti di lavoro che ne sono nati – sia imputabile a comportamenti ‘opportunistici’ da parte di coloro che hanno beneficiato dei trasferimenti. Ma in effetti c’è molto di più, perché se è vero che i rapporti di lavoro attivati grazie alla misura sono stati pochi, ben diverso è il caso di quelli attivati in presenza della misura. Dai dati, infatti, risulta anche che il 30% delle 1.800.000 persone beneficiarie ha cercato e trovato un lavoro mentre fruiva del trasferimento: in valore assoluto 550.000 unità, cioè un numero largamente superiore a quello di tutti i contatti che i CpI hanno stabilito con le persone disoccupate o inattive (395.000), spiegabile soltanto con un discreto livello di attivazione anche presso beneficiari/e lontani/e dal mercato del lavoro (così è stato in 143.000 casi). E ancora, a proposito di propensione al lavoro, c’è da dire che il 63% dei contratti così attivati è stato a tempo determinato – oltretutto per periodi brevi, fino a 3 mesi nel 70% dei casi e soltanto fino a uno nel 30% –, sicché infine sembra appropriata la seguente sintesi: “l’ingresso in misura non sembra aver portato i beneficiari ad abbandonare la ricerca di un lavoro e, soprattutto, non sembra ne abbia innalzato il relativo salario di riserva a tal punto da portarli a rifiutare occupazioni a termine anche se di breve o brevissima durata”6. Aggiungerei soltanto che se il RdC ha consentito a qualcuno di rifiutare impieghi offerti a condizioni indecenti, c’è soltanto da rallegrarsene e ascrivere la cosa a merito dell’istituto. Ma il dato complessivo, purtroppo, è di diverso genere: parla appunto di necessità stringenti che obbligano a essere molto poco choosy e di lavoratori destinati a rimanere poveri.

Al di là dei numeri

Fin dall’inizio, il RdC è stato presentato sia come uno strumento di lotta contro la povertà, sia come uno strumento di politica attiva del lavoro, nella convinzione, si capisce, che le due intenzioni go together well. Quello che abbiamo appena visto e che la seconda, dopo quattro anni di applicazione delle norme, è rimasta al palo. I non pochi processi di ‘attivazione’ che in effetti si sono verificati – smentendo le accuse di parte imprenditoriale – l’hanno fatto al di fuori dei canali previsti dalla misura. Sicché facilmente può venir in mente che il futuro di quest’ultima, se mai vi fossero le condizioni per ragionarne positivamente, dovrebbe prevedere massicci investimenti istituzionali e organizzativi, destinati appunto a rafforzare il suo secondo corno.

Che le politiche attive del lavoro meritino un livello di impegno nettamente superiore a quello finora fatto registrare è fuori discussione. A patto, però, di intendersi meglio sul loro tenore e sulle loro possibilità.

Al riguardo, la prima cosa da dire è che i percorsi che le concretano non devono affatto, per forza di cose, essere collegati all’obbligo di accettare infine l’offerta di questo o quel posto di lavoro, pena uscire dal sistema degli aiuti. Così è in molte esperienze, ma non si tratta affatto, ripeto, di una necessità iscritta nelle cose. Servizi di formazione, riqualificazione, orientamento, ricerca, accompagnamento, ecc. possono benissimo essere concepiti e offerti alla stregua di supporti che i destinatari utilizzeranno come meglio credono – ricevendo nel frattempo, se versano in condizioni di povertà, un trasferimento legato al loro stato di bisogno. E meglio ancora, come vedremo, un reddito di base.

In effetti, almeno in un’occasione, la prospettiva di un tale ‘disaccoppiamento’ si è affacciata nel dibattito. Merito di Massimo De Minicis, che in un intervento del giugno 2020, sull’onda dell’emergenza Covid, ha proposto di trasformare (definitivamente) il RdC in un ‘Reddito di base parziale’ sul modello dell’esperienza finlandese. Dunque un trasferimento pur sempre riservato a persone che attestino situazioni di sofferenza sul piano dei redditi (per questo ‘parziale’), ma appunto non-condizionato, affatto slegato da richieste di comportamenti ‘attivi’. Infatti – questa la giustificazione della proposta – “molti studi pilota sul reddito di base incondizionato (parziale o universale), condotti finora in varie parti del mondo, hanno dimostrato che grazie a questo dispositivo le persone si sentono maggiormente stimolate a cercare lavoro, perché più fiduciose, attive e meno angosciate sul loro futuro. Il ricorso all’ausilio dei servizi al lavoro potrebbe così essere esclusivamente volontario all’interno di autonomi percorsi di ricerca lavorativa”7.

Il punto è coerente con i dati riportati alla fine della sezione precedente; e in più, dagli studi citati da De Minicis, risulta che gli ‘stimoli’ (brutta parola) non generano effetti positivi soltanto sul piano del lavoro, ma anche, per esempio, su quello delle relazioni familiari, della salute, della partecipazione alla vita civile. A quanto pare, insomma, vi è motivo di guardare con fiducia agli esiti di una politica che offra basi reddituali e sponde di servizio invece di benefici soggetti a vincoli – e chiaramente un argomento del genere sta proprio al capo opposto dell’antropologia negativa, della presunzione di una cattiva volontà diffusa, che si legge nell’accusa mossa al RdC di alimentare atteggiamenti opportunistici, passivi, rinunciatari, ecc. Anche per questo però, conviene fare un passo avanti.

In un certo senso, il valore degli schemi di reddito di base parziale – appunto in quanto forniscono comunque benefici non-condizionati – sta soprattutto sul piano delle idee. A pensarci bene, infatti, dovrebbe essere chiaro che la scelta ordinamentale di collegare il sollievo da una condizione di povertà all’obbligo di accettare una determinata proposta di lavoro implica di per sé la convinzione che quella, la condizione di povertà, sia una colpa. Diversamente, non si capisce perché mai si dovrebbe pagare il prezzo (subire la pena) di vedere ‘sospesa’ la propria libertà di scegliere – quella stessa che da sempre, a torto o a ragione, forma il vanto morale del mercato, tanto più rilevante quando non si tratti di scegliere, come si dice, tra pere e mele, ma i contenuti e i modi della manifestazione di capacità vitali, come propriamente bisogna intendere il lavoro. Né vale obiettare che nessuno, in verità, è costretto a nulla, visto che si può sempre rinunciare al beneficio e, così facendo, sottrarsi a qualsiasi ‘condizionalità’. Perché certo, le cose stanno in questi termini, ma proprio in questi termini tornano a dire che il bisogno del beneficio, per essere riconosciuto, deve trovare riscontro nella rinuncia alla normale condizione di essere liberi di scegliere – cosa evidentemente insensata a meno che lo stato di bisogno non sia letto come un ‘debito’, che deve essere saldato.

Così, mi sembra, si capisce meglio perché gli schemi ispirati all’idea di un Reddito di base, parziale o universale, fanno registrare il tipo di reazioni che si legge nei numeri e nelle indagini dirette: invece di un’implicita e umiliante messa sotto accusa, la mancanza di ‘condizionalità’ comunica una visione fondamentalmente positiva dei desideri e dei moventi individuali, che tende ad autoconfermarsi.

Sul piano dei principi

D’altra parte, neppure è il caso di fermarsi a questo punto, perché il nesso ideologico di povertà e colpa merita qualcosa di più della sola operazione di renderlo evidente. Non che adesso voglia metterlo a tema in chiave filosofica, per fortuna possiamo limitarci a quanto esso sia fallace in termini ‘analitici’ – e tenendoci a questi, però, generalizzare il punto. In breve, il fatto è che tanto la povertà quanto la ricchezza – ovvero i divari di reddito, così come si presentano nella società in cui viviamo8 – hanno pochissimo a che fare con i meriti e i demeriti individuali, e anche con la maggiore o minore consistenza dei ‘talenti’ personali. Piuttosto, in massima parte, dipendono da come e quanto ogni individuo si appropria dei frutti di un patrimonio di risorse comuni già presente quando egli entra in scena, come risultato del precedente svolgimento storico – del quale, oltre alle risorse naturali, fanno parte gli assetti istituzionali, lo stato delle conoscenze scientifiche, il capitale fisso già accumulato, le norme interiorizzate del vivere civile, altro ancora. A questa fonte, piuttosto che agli sforzi correnti dei suoi membri, va imputato il grosso del reddito pro capite di un’economia9, e di tale fonte, però, va detto che è tanto generosa quanto cieca: il livello di dispersione dei redditi attorno al valore pro capite mostra appunto come i suoi frutti si distribuiscano tra gli individui in modo altamente diseguale – oggi assurdamente tale – a dispetto del fatto che nessuno di essi possa affermare di averla posta in essere.

Salvo errore, qui si tocca il nucleo essenziale della mentalità leggibile nelle critiche al RdC di parte imprenditoriale (al di là, voglio dire, dell’ostilità dettata dal puro e semplice interesse di avere a che fare con lavoratori deboli). Precisamente, si tratta dell’idea che il mercato, se le carte non siano truccate, fa sì che ognuno ottenga quello che merita, ovvero che quello che ottiene dipenda da lui stesso, dalle sue capacità, dal suo impegno, ecc. Ma sappiamo anche, adesso, quanto poco una simile retorica sia plausibile. A essere ottimisti, che il nostro livello di reddito sia frutto delle nostre capacità e del nostro impegno è vero al 20%10: il resto dipende da quanto il flusso di servizi proveniente dal patrimonio di risorse comuni presenti nella società si è o non si è impigliato nelle nostre mani per motivi troppo accidentali e/o troppo legati a meri rapporti di forza per essere approvati. Sicché, si noti, l’errore non sta neppure nell’idea che il merito debba essere premiato, bensì nella valutazione di quanto esso possa mai dar conto del fatto che un individuo è ricco o povero.

Di questioni del genere, come ho detto all’inizio, vale la pena di ragionare a dispetto del fatto che l’attuale situazione politica impedisce di intervenire positivamente sull’istituto introdotto nel marzo del 2019, già mortificato con la finanziaria di quest’anno e destinato a ulteriori peggioramenti con le nuove misure che si annunciano11. Al fondo, la discussione intorno al RdC rinvia all’interrogativo sul tipo di società che riteniamo degno di essere approvato, e in essa, dunque, conviene impegnarsi a fondo – tra l’altro proprio al fine di creare le premesse intellettuali e morali di un’inversione del corso politico oggi prevalente, visto che il tema del merito è consegnato a modi di pensare fin troppo radicati, in larga parte irriflessi, ben al di là delle posizioni che prendono corpo in forma aperta.

Perciò, ancora, va detto esplicitamente che l’idea di un reddito di base parziale, per quanto degna di apprezzamento, può essere soltanto un punto di passaggio. Svolto in modo coerente, il tema del patrimonio di risorse comuni presente nella società comporta necessariamente l’idea di un reddito di base universale, oltreché a maggior ragione incondizionato, che di quel patrimonio venga a costituire qualcosa come un ‘dividendo’. In proposito, vale la pena di ripetere l’argomento-chiave. “Noi tutti, in modi diversi, ma principalmente attraverso il reddito da lavoro, beneficiamo in misura estremamente ineguale di ciò che riceviamo gratuitamente dalla natura, dal progresso tecnologico, dall’accumulazione del capitale, dall’organizzazione sociale, dalle norme del vivere civile e così via. Il reddito di base assicura che ciascuno riceva una quota equa di questo patrimonio, che nessuno di noi ha contribuito a creare, dell’ingombrante presente incorporato nei nostri redditi in modo assai disomogeneo”12. Con il risultato, si noti, che in tal modo l’istituto viene a riposare innanzi tutto su ragioni intrinseche, di giustizia sociale, vigenti in linea di principio: anche per questo è bene che la sua bandiera sia tenuta alta in una fase come quella in corso, nella quale l’azione di governo è preclusa e si tratta piuttosto di restituire all’iniziativa politica un quadro di riferimenti ideali nel quale potersi riconoscersi.

D’altra parte, la giustificazione appena messa in luce non toglie che la prospettiva di un reddito universale e non-condizionato possieda al tempo stesso ragioni più circostanziate – un profilo di maturità storica che rende tanto più attuali gli stessi motivi di validità sul piano dei principi, e che a sua volta, naturalmente, conta moltissimo ai fini della formazione di una rinnovata identità politica.

Questo nuovo ordine di giustificazioni sarà oggetto della prossima puntata, mentre adesso, per concludere, conviene aggiungere che nel dibattito italiano non manca una proposta ‘ben specificata’ in grado di restituire appieno lo spirito di un vero e proprio reddito di base. Mi riferisco al progetto di un’Eredità universale elaborato dal Forum Diseguaglianze e Diversità, che certamente presenta il limite di prevedere un trasferimento una tantum, ma aderisce ai criteri dell’universalità e della non-condizionalità con tutta la limpidezza che può desiderarsi, e nel suo stesso titolo rinvia alle ragioni di principio già messe in evidenza13. Così, il limite accennato non pregiudica un fondamentale motivo di interesse. Se è vero che il problema è innanzi tutto quello di modificare un modo di pensare radicato nel senso comune, una rottura che avvenga con chiarezza, per quanto circoscritta, ha comunque l’alto valore di ‘far passare’ l’idea che importa – di aprire uno spiraglio che potrà essere allargato, proprio come quando si riesce a mettere un piede tra il battente e lo stipite di una porta. A maggior ragione se la rottura, come nel nostro caso, possiede tutti crismi della fattibilità. Certo, resta vero che l’attuale quadro politico vieta di immaginare qualsiasi risultato pratico; ma nessuno può sostenere che il progetto sia irrealizzabile, visto, in particolare, che le sue condizioni di sostenibilità finanziaria sono definite in termini più che ragionevoli14. Così, una battaglia di alto profilo ideale può anche precipitare in un contenuto determinato e pregnante, giovarsi di un progetto tanto operabile quanto rappresentativo: una buona notizia, se non sono fuori strada, per chi voglia cimentarsi con il compito di mettere a frutto lo spazio che recentemente, sul versante di sinistra, sembra essersi riaperto.

Note

1 La contrapposizione tra ‘dati’ e ‘miti’ è ripresa da F. Bergamante, M. De Angelis, M. De Minicis e E. Mandrone, Reddito di cittadinanza tra mito e misura, lavoce.info, 15 aprile 2022, che a loro volta la riprendono da D. Card e A. Krueger, Myth and Measurement. The New Economics of the Minimum Wage, Princeton University Press, 2015.

2 Un elenco puntuale dei problemi aperti è contenuto F. Di Nicola, Reddito di cittadinanza e povertà, legame da migliorare, lavoce.info, 20 novembre 2020.

3 Com’è noto, a parte alcuni casi di maggiore fragilità, la Legge di bilancio 2023 ha ridotto da 18 a 7 i mesi di possibile fruizione del beneficio e da una a nessuna, eliminando anche ogni vincolo di congruità, le proposte di lavoro che possono essere rifiutate senza perdere diritto ai trasferimenti. Al tempo stesso, ha previsto l’obbligo di percorsi formativi di 6 mesi, della cui sensatezza non esiste alcuna condizione. Il tutto in vista di una nuova disciplina che dovrà entrare in vigore nel 2024, della quale ha cominciato a circolare qualche anticipazione. Inutile qui entrare nel merito di misure ancora incerte, ma il regime in gestazione, da quello che si capisce, non manca di confermare o accentuare gli orientamenti restrittivi, vessatori e discriminanti già manifesti nelle modifiche introdotte per quest’anno.

4 Tutti i dati che seguono sono tratti da ANPAL – Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, Beneficiari del Reddito di cittadinanza al 30 settembre 2021. Focus sulla condizione occupazionale, Nota 7 dicembre 2021. L’impiego di questa unica fonte istituzionale dipende dalla sua particolare pertinenza agli argomenti oggetto di questo contributo e dalle molteplici difformità che si rilevano nelle altre basi statistiche disponibili quanto ai periodi e ai criteri di rilevazione (INPS, Ministero del lavoro, Corte dei conti, INAPP–Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche). In ogni caso, a confrontare dati di diversa origine, gli ordini di grandezza dei fenomeni restano confermati.

5 ‘Rappresentative’ di altrettanti nuclei familiari, formati in tutto da circa 4 milioni di persone.

6 ANPAL, op. cit., p. 13.

7 M. De Minicis, È l’ora del reddito di base, lavoce.info, 4 maggio 2020.

8 Inutile dire che povertà e ricchezza non si misurano soltanto sul piano dei redditi monetari; altrettanto ovviamente, però, questa non è una buona ragione per non fare tutto quello che sembra sensato per quanto li riguarda.

9 Come in particolare risulta evidente dal confronto tra il reddito pro capite di un paese ricco e quello di un paese povero, visto che la differenza non è certamente dovuta a un diverso livello di intelligenza o di impegno delle rispettive popolazioni. L’argomento è tratto da H. Simon, UBI and the Flat Tax, in J. Cohen e J, Rogers J (ed.), What’s wrong with a free lunch?, Beacon Press, Boston, 2001.

10 Questa valutazione è una correzione al rialzo di quella proposta dal già citato Simon, che suggerisce piuttosto il 10%. Entro limiti abbastanza ampi, eventuali divergenze sul valore più appropriato (probabili e giustificate) non pregiudicano il senso del discorso.

11 Cfr. nota 3.

12 P. Van Parijs e Y. Vanderborght Y, Il reddito di base. Una proposta radicale, Il Mulino, 2017, p. 173.

13 Il progetto è contenuto nel documento 15 proposte per la giustizia sociale (marzo 2019). In estrema sintesi si tratta dell’idea che ogni giovane, al compimento del diciottesimo anno di età, riceva un trasferimento pari a 15.000 euro, del quale disporrà come meglio crede.

14 Il costo dello schema è coperto da una nuova tassazione progressiva sulla somma di tutte le eredità e donazioni ricevute da un singolo individuo nell’arco di tutta la sua di vita (al di sopra di una soglia di esenzione di 500.000 euro).

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Un commento a “Il bambino e l’acqua sporca del Reddito di cittadinanza/1”

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