Da lungo tempo la trasformazione del lavoro è prodotta, condizionata, accompagnata, giustificata dalla trasformazione digitale. Ma è negli ultimi anni che la trasformazione del lavoro ha subito una violenta accelerazione, ulteriormente intensificata dal salto tecnologico innescato dalla pandemia. Non così è stato per la cultura politica del lavoro che solo recentemente, e ancora troppo timidamente, riesce a contrastare esplicitamente il diffuso e persistente pregiudizio positivo che accompagna i processi di trasformazione digitale. Solo da poco tempo va facendosi senso comune la consapevolezza che la “digitalizzazione” del lavoro, dei servizi pubblici, delle relazioni sociali, dei processi di conoscenza non è un processo positivo “di per sé”, ma richiede una esplicita valutazione critica delle possibili conseguenze negative, sociali, lavorative, economiche e politiche.
Il diffondersi di questa consapevolezza, tuttavia, è solo il punto di partenza per costruire una effettiva capacità di contrasto e di riorientamento della trasformazione digitale. Che domanda la messa a fuoco di due questioni intrinsecamente e politicamente complementari.
La prima questione è la sproporzione tra la capacità di individuare criticità e pericoli della trasformazione digitale e la possibilità di porvi rimedio, sproporzione che è il riflesso inevitabile del divario di potere tra i padroni attuali della trasformazione digitale e gli interessi di chi ne subisce le conseguenze, consapevolmente o inconsapevolmente.
La seconda questione è la difficoltà di immaginare, progettare, sperimentare e realizzare usi della trasformazione digitale finalizzati agli obiettivi di contrasto dello sfruttamento, di difesa dei diritti del lavoro, di aumento della giustizia sociale.
Le due necessità, quella del contrasto e quella della progettazione/realizzazione, sono reciprocamente interdipendenti. Non ci può essere un uso socialmente utile della potenza del digitale senza una effettiva forza di contrasto dei suoi usi negativi oggi prevalenti, così come non si può esercitare una efficace azione di contrasto senza essere in grado, o almeno indicare la possibilità, di progettare e realizzare ‘altro’.
Come riuscire dunque a intervenire efficacemente su questa interdipendenza? Che è un altro modo per chiedersi: come riuscire a riorientare la trasformazione digitale? Come riuscire a farlo oggi, dopo che si è forse un poco attenuata la fascinazione futurista di massa e si sono moltiplicate, persino tra i non specialisti, le voci critiche sulla traiettoria della trasformazione digitale?
Abbiamo verificato che una capacità effettiva di riorientamento non può avvenire dall’alto, da think tank illuminati, da centri di ricerca più socialmente consapevoli, meno che mai dalle attuali organizzazioni politiche, che hanno tuttora difficoltà a considerare la trasformazione digitale come una questione ‘politica’.
Non può avvenire neanche dall’esterno, da una regolamentazione nazionale e europea, già effettiva o in corso di attuazione, che è una condizione necessaria per mitigare almeno parzialmente la sproporzione delle forze in campo ma non è sufficiente, e non solo per evidenti problemi di effettiva attuazione, come la capacità di controllo e l’efficacia delle sanzioni comminate.
Occorre che a entrare in gioco siano gli attori sociali coinvolti. Ciò che serve, e ciò che oggi manca, è un effettivo, ampio e consapevole coinvolgimento delle organizzazioni che rappresentano il lavoro, di chi lavora con e per le tecnologie digitali, di chi, anche non direttamente coinvolto, ne subisce le conseguenze (ad esempio gli utenti di servizi pubblici erogati mediante l’uso di sistemi di intelligenza artificiale).
Un diretto coinvolgimento degli attori sociali comincia a emergere oggi sotto forma di possibili “class action” in grado di contrastare alcune conseguenze negative che abbiano colpito insiemi significativi di lavoratori. Si tratta in questi casi però di un intervento successivo alla realizzazione del sistema digitale e al suo utilizzo, laddove sarebbe necessario che gli attori sociali coinvolti intervengano già prima della progettazione del sistema, nella fase iniziale di definizione delle finalità, degli obiettivi, delle tecnologie da utilizzare e/o da produrre e, successivamente, in tutta la fase di progettazione e realizzazione.
Non si tratta di una generica “partecipazione degli utenti” alla progettazione, ma della possibilità di trasferire potere agli utilizzatori durante il tutto il processo di produzione dell’innovazione digitale intesa come sistema socio-tecnico (tecnologico, organizzativo e sociale), con l’obiettivo di rendere “contendibile”a loro favore l’intero processo.
La partecipazione degli attori sociali è il principale snodo che rende complementari il fronte del contrasto e quello della progettazione/realizzazione. È prevedibile che un coinvolgimento molto più largo di quello attuale, avverrà dapprima sotto forma di rifiuto dei danni prodotti dalla trasformazione. Ma proprio i “quadri” che emergono nelle fiammate di rifiuto, possono e devono diventare protagonisti della contro-progettazione.
Quali caratteristiche deve avere il processo produttivo dell’innovazione digitale per essere effettivamente “contendibile”? Quali metodi e strumenti devono essere utilizzati? Come può essere organizzata l’espressione di auspicabili conflitti rispetto alle caratteristiche indesiderate della trasformazione digitale? Un possibile riferimento per iniziare a percorrere questo campo di ricerca è quello della scuola scandinava che negli anni ‘70 del secolo scorso ha studiato e praticato metodi e strumenti di “progettazione partecipata” dei sistemi informativi. I tentativi di regolamentazione nazionale ed europea dovrebbero essere riorientati in questa luce: si tratterebbe non solo di normare rispetto alle caratteristiche finali dei sistemi, ma di regolare l’intero processo di produzione per rendere possibile la partecipazione e il potere effettivo di intervento per gli utilizzatori.
Un esempio possibile per mostrare la differenza tra la redistribuzione di potere qui auspicata e l’attenzione alla user experience che è parte così significativa della attuale progettazione di applicazioni digitali può essere il seguente: l’attenzione alla user experience è volta a rendere l’interazione con i sistemi digitali sempre più facile e seducente, la possibilità di intervenire degli attori sociali può al contrario portare alla introduzione di “difficoltà” d’uso (gli “attriti”), per diminuire gli effetti negativi dell’uso dei dispositivi.
È evidente che l’obiettivo di una contro-progettazione partecipata, che sia in grado di rendere ‘contendibile’ la trasformazione digitale del lavoro, può definire i suoi strumenti, le sue regole e le sue pratiche solo confrontandosi con sperimentazioni sul campo, dove effettivo sia il coinvolgimento degli attori sociali coinvolti, nonché possibile l’organizzazione e l’esperienza del conflitto.
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