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Il sistema penitenziario italiano sembra precipitato in una crisi senza vie d’uscita: le presenze in carcere aumentano costantemente e quindi, conseguentemente, il sovraffollamento, l’indegnità delle condizioni di detenzione e la sofferenza dei detenuti, l’insufficienza e la frustrazione del personale, le proteste, gli atti di autolesionismo e i suicidi. Il Governo ignora o sottovaluta quello che sta accadendo, che è ormai sotto gli occhi di tutti, perché è parte del suo programma: “garantisti nel processo, giustizialisti nella pena” dicevano in campagna elettorale, e il giustizialismo nella pena oscilla tra la sua “certezza” detentiva e il “buttare via la chiave”, con buona pace dei progetti di rieducazione e reinserimento attraverso il lavoro che il capo dell’Amministrazione penitenziaria ha messo allo studio con il Cnel.

Se il carcere è programmaticamente il contenitore della marginalità sociale, neanche i campi di lavoro forzato saranno in grado di disciplinare e, forse, rendere produttivo un esercito di tossici, malati di mente, senza fissa dimora e manovalanza criminale, privi di una prospettiva di reinserimento sociale in condizioni di autonomia e legalità.

Certo, la crisi del carcere viene da lontano, forse addirittura dall’originaria ipocrisia che ha da sempre confuso contenimento, disciplina e “rieducazione”. Ma c’è una crisi che viene da più vicino, e che si inscrive in quella del modello europeo di Stato sociale all’interno dei regimi di democrazia costituzionale. L’articolo 27 della Costituzione, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e la finalità rieducativa della pena, sono indissolubili dall’universalità dei diritti fondamentali della persona, quale che sia la sua origine, la sua contingente condizione sociale o economica, quali che siano state le sue biasimevoli condotte, anche penalmente sanzionate. È l’idea di uno Stato sociale, e quindi di servizi pubblici, che entrano fin dentro il carcere a rimuovere quelle condizioni di svantaggio sociale che impediscono la piena autonomia e libertà della persona; era l’idea che mosse la riforma del 1975, subito travolta dalla “emergenza terrorismo” e poi dalla crisi dello Stato sociale novecentesco. Se quella idea universalistica della dignità si perde e si alzano i muri nella meritevolezza dei diritti, garantiti per nascita (“prima gli italiani!”) o per accettabilità sociale di stili di vita e di comportamento, è inevitabile che i detenuti, persone condannate o accusate di aver violato le leggi penali, ne siano naturalmente esclusi, con piena soddisfazione dei penultimi, che si vedono tolta di mezzo una pericolosa concorrenza sul mercato della sopravvivenza, e serena indifferenza dei benestanti, che pensano che la questione non li riguardi per differenza di status e di habitat sociale.

Nonostante una consuetudine ormai trentennale, ogni volta che entro a Regina Coeli c’è qualcosa che riesce a stupirmi: lo scorso anno i pensili staccati dal muro e poggiati per terra per poter mangiare seduti o giocare a carte in cella, quest’anno la coda dei detenuti lungo le scale della I sezione con le ciotole in mano per prendere da mangiare e portarlo ai compagni. Ieri (e ancora oggi) in VII sezione mancavano sedie e tavoli nelle stanze, oggi non funziona l’ascensore che porta ai piani il cibo (e le medicine, le sedie a rotelle, il “sopravvitto”, i pacchi, la posta …). Questo stato di degrado, che si aggiunge al sovraffollamento, agli infissi rotti, alle muffe, alle perdite d’acqua, non è solo di un antico istituto fuori dal tempo, ma di un intero sistema che alcuni esponenti del Governo non vogliono neppure vedere, rifiutandosi di esercitare le proprie prerogative ispettive nelle sezioni detentive e limitandosi ad andare in carcere per incontrare la polizia penitenziaria e alimentare la guerra tra guardie e ladri che sta affliggendo la disperazione tanto delle une quanto degli altri.

Dopo l’inutile decreto-legge estivo, il Parlamento è ora impegnato a esaminare un disegno di legge, anch’esso governativo, che è un deposito dell’esibizionismo penale, in cui chiunque abbia una pulsione giustizialista può dire “più uno” e aumentare il carico della propaganda e della sofferenza dei soliti noti, quelli che sono già in carcere e a cui verrà domani accollato anche il reato di rivolta penitenziaria per non essere rientrati dall’aria, in sezione o in cella per una protesta nonviolenta contro le degradanti condizioni di detenzione o per poter incontrare il direttore, il magistrato o il garante e rappresentargli qualcosa. Non farà grandi numeri l’odiosa modifica in peius del codice penale fascista, che a suo modo tutelava la maternità e l’infanzia, impedendo di entrare in carcere alle donne incinte o madri di neonati fino al primo anno di età, ma la caccia allo scalpo delle impunite ragazzine rom invertirà il senso della pur lentissima marcia in corso verso le alternative al carcere per le detenute madri con bambini piccoli o piccolissimi. E poi la proliferazione delle armi, la criminalizzazione delle manifestazioni non autorizzate o dell’occupazione degli immobili sfitti o abbandonati: tutto passa per una norma penale, come questo Governo ci ha insegnato sin dal suo biglietto da visita, la criminalizzazione dei rave parties.

Anche quando non produce effetti diretti, questa concezione panpenalistica delle relazioni sociali informa la cultura degli operatori della giustizia e della sicurezza, orientandoli ad atteggiamenti guardinghi e a interpretazioni restrittive, se non a veri e propri abusi di fatto o di diritto. È così che le alternative al carcere, enormemente cresciute negli ultimi trent’anni, sono diventate alternative alla libertà, destinate a un assaggio di punizione per chi in carcere probabilmente non sarebbe comunque mai entrato. Crescono insieme e non contro il carcere perché rispondono allo stesso motore: l’inflessibilità della legge penale, la serietà del giudizio, una certezza della pena che vale anche per chi riesca ad accedere a un’alternativa, perché ha le risorse culturali, sociali, relazionali, legali che ne distinguono il destino dagli altri, i non abbienti, fatalmente destinati al carcere.

È quel motore che ha reso impronunciabile l’unica parola di senso e che tutti coloro che vivono il carcere ammettono come unica soluzione alla involuzione attuale: clemenza. Solo un provvedimento generalizzato di clemenza oggi potrebbe dare respiro al carcere, a chi ci vive e a chi ci lavora. Basterebbe un provvedimento di amnistia e di indulto nel limite di due anni di pena da scontare per azzerare il sovraffollamento e far ripartire il sistema in equilibrio di spazi, risorse e personale.

Altrimenti, è inevitabile che il carcere sia quel che è e che da anni denunciamo: l’ospizio dei poveri e degli indesiderati, quelli che quando commettono un reato non se la possono cavare con un’alternativa. Se si vuole che sia altro, in prospettiva bisogna tracciare una linea e tornare ai fondamentali: nel sistema penale, diritto penale minimo e minimizzazione della reazione punitiva alle violazioni della legge penale, escludendo il carcere per i reati non violenti che attualmente lo affollano per oltre la metà; nel sociale, la ricostruzione di un sistema di accoglienza e di sostegno per chi ne ha bisogno e un’idea di sviluppo per ampie aree del Paese che, nonostante i migranti discriminati all’arrivo in Italia, forniscono ancora la metà degli ospiti al sistema penitenziario italiano. Insomma: il carcere non si salva da solo, attraverso la migliore definizione e la migliore interpretazione della legge penale, ma solo se torna a essere parte di una politica nazionale contro le diseguaglianze.

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