Articolo pubblicato su “Il Riformista” del 01.06.2022.

Una lezione di alta politica da un grande del pensiero politico: Mario Tronti. Il padre dell’operaismo ha insegnato per trent’anni all’Università di Siena Filosofia morale e poi Filosofia politica. È stato eletto in Senato nel 1992 nelle fila del Partito democratico della sinistra e nel 2013 nelle fila del Partito democratico. È stato presidente della Fondazione CRS (Centro per la Riforma dello Stato) – Archivio Pietro Ingrao.

Il 25 maggio è stato il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. Oggi nella sinistra, nel Pd, c’è ancora traccia del suo pensiero?
Ce n’è una debole traccia a sinistra del Pd. Nessuna traccia nel Pd, se non un retorico richiamo a una certa nobiltà e serietà della politica. Enrico Berlinguer è stato l’ultimo politico di razza della tradizione comunista “italiana”. Su questa tradizione, bisognerebbe tornare a riflettere, ora con il necessario distacco, sulle molte luci, su alcune ombre. Ma non c’è più chi pensa. E in questi giorni abbiamo letto non certo indimenticabili ricordi e giudizi. Una cosa è certa. Nell’imponente funerale dell’84, il popolo comunista ha accompagnato alla tomba, insieme al suo segretario, lo stesso Pci, che infatti, dopo la breve parentesi di Natta, verrà seppellito sotto le macerie di un Muro. Berlinguer non era Togliatti, per storia personale, per spessore politico. Ma correttamente si è sempre mosso su quella linea, innovandola nelle diverse contingenze attraversate: il Pci non come socialdemocrazia all’italiana, e il Pci, con le sue peculiari caratteristiche dentro l’orizzonte del movimento comunista internazionale. Il famoso “strappo” rispetto all’URSS, comunemente considerato tardivo, in realtà avviene al limite ultimo, quando non se ne poteva più fare a meno. E questo perché Enrico sapeva, a differenza di autorevoli iscritti al Pci che diranno di mai essere stati comunisti, che il suo popolo non voleva strappare proprio niente. Oggi assistiamo a una contraffazione insopportabile. L’infelice frase di Berlinguer, di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato, è venuta comoda per schierare anche i soldatini della ex-sinistra sulla linea del fronte euroatlantico, al seguito della crociata per redimere i nuovi barbari delle pianure sarmatiche, infedeli alla religione democratica.

”Letta e Conte firmano il patto. Sinistra addio. Il Pd è passato con i qualunquisti”. Così questo giornale ha titolato un editoriale di Piero Sansonetti. Scrive tra l’altro Sansonetti: “La formale sottomissione del Pd al partito di Conte pone fine a una storia lunghissima, che ha le radici profonde nelle complesse e ricche vicende del Pci, della sinistra cattolica e di altre forze – modeste ma importanti – del liberalsocialismo”. È una riflessione impietosa?
Non so se impietosa. Certo una riflessione. Il problema è che, di fronte allo scontro di civiltà di nuovo in atto, è difficile tornare a parlare delle baruffe nostrane. Scontro di civiltà, con soggetti in parte cambiati, perché ce n’è uno fisso, l’Occidente al comando dell’anglosfera, mondo anglosassone e derivati, che si sente in diritto e in dovere, non si capisce a che titolo, di gestire i destini del pianeta, dal Mar Nero all’Indo Pacifico, o per dire, dal Brasile al Sudafrica, e dall’altro il resto del mondo, che vedono gli sta sfuggendo di mano, di qui la reazione rabbiosa non contro chi li attacca ma contro chi si difende. È un discorso realistico e complesso, che al momento non ha l’agibilità politica per essere svolto e che quindi va rimandato a tempi opportuni. Ma ci sarà necessità di farlo. Quando l’eccezione del tragico, come la guerra, irrompe e spezza il corso normale della storia, è il tempo di porre mano al pensiero, non solo per deprecare ma per comprendere. Venendo appunto alle nostre baruffe, si fanno quattro conti, questo più quello, Pd più Cinque Stelle, si guadagna l’amministrazione di qualche comune, magari di qualche regione, non credo si arrivi mai al governo della nazione, e se ci si dovesse arrivare povero governo, con tali alleati che più inaffidabili non potrebbero essere. Non è qui che finisce la storia della sinistra in Italia. Questa storia si è consumata, gradualmente e inesorabilmente, nel percorso a scendere dal Pds, Ds, Pd. L’anticomunismo degli ex comunisti ha accompagnato, e guidato, la vorticosa discesa. La stessa vicenda mondo di queste settimane, nella passionale chiacchiera che la segue da vicino, ci dice questo: il comunismo è certo morto e sepolto, ma l’anticomunismo è vivo e vegeto. Hanno fatto tanta paura ai capitalisti i comunisti, che, ad esempio in Russia o in Cina, tra l’altro senza alcuna ragione empirica, sembra loro di scorgere, nell’inconscio dei loro incubi, l’aggirarsi ancora di quel famoso spettro.

La pandemia ha prodotto 573 nuovi miliardari, uno ogni 30 ore, mentre, quest’anno, un milione di persone ogni 33 ore potrebbe finire in condizione di povertà estrema, vale a dire 263 milioni. A denunciarlo è un recente rapporto di Oxfam. Che mondo è questo?
È una forma di mondo e una forma di vita che, insieme, non vanno accettate, vanno contestate, messe e tenute sotto l’occhio severo della critica. E non sarà certo la transizione ambientale e, tanto meno, la transizione digitale, a fare questo lavoro per noi. Tutto lascia credere che, ammesso che vadano a buon fine, chi soprattutto ne trarrà profitto sarà chi detiene le leve di comando. Allora sono queste ultime che vanno poste in discussione. Qualunque cosa accada, pace o guerra, vediamo che il rapporto di forza nell’economico e nel sociale, tra chi sta sopra e chi sta sotto, non solo resta stabile, ma peggiora a favore di chi sta sopra. È questo rapporto di forza che va attaccato, politicamente. Un rapporto di forza si cambia con la forza. Attenzione, se questa forza alternativa, antagonista, non trova la via della politica, fatalmente, per le strade più imprevedibili, trova la via della guerra. È un grande tema. Le vicende di queste settimane ce lo ripresentano quasi in modo classico. Anche la geopolitica va letta con occhio, si potrebbe dire, geosociale. C’è una drammatica questione sociale globale, che attende – XI tesi su Feuerbach – non solo di essere interpretata, ma soprattutto di essere aggredita e cambiata. Chi proviene dalla grande tradizione teorica del movimento operaio ha forse ancora gli strumenti per una lettura di questo genere. Perché non ci si mette al lavoro su questo, magari provocando una nuova leva di fresche giovani energie intellettuali di parte, di cui c’è veramente, urgentemente, bisogno? Se si vogliono fare le Agorà, le si facciano su tali temi, oltre che sulla ricerca del campo largo. Questa guerra, non a caso nata sotto il nome di operazione militare speciale, ci spinge a guardare ciò che non si vede, ciò che non ci fa vedere la stessa realtà, quando si ammanta di apparenze ideologiche. Cerchiamo di aguzzare questo sguardo.

Professor Tronti, ma c’è ancora vita a sinistra?
In un Convegno dell’Università di Bari, in ricordo di Franco Cassano, nella parte dedicata a un suo fortunato libretto del 2014, Senza il vento della storia. “La sinistra nell’era del cambiamento”, mi è venuto di fare alcune considerazioni che viene bene ripetere per rispondere alla sua domanda. Mettevo in discussione la stessa parola “sinistra”, come una sorta di ingombro che sta oggi tra i nostri piedi e praticamente impedisce di camminare, sia nel pensare sia nell’agire. Quando dal dirsi socialisti, dal dirsi comunisti, si è passati a dirsi di sinistra, si è fatto un passo indietro, non in avanti, come comunemente si crede. È come se dalla Lega dei comunisti di Marx, si fosse tornati alla Lega dei giusti di Proudhon. La conseguenza dell’arretramento sta eloquentemente sotto i nostri occhi. Se con quelle parole antiche si mobilitavano e si organizzavano le persone escluse sia dall’uso della ricchezza che dall’uso del potere, e quindi disponibili a una trasformazione di sistema, con questa parola nuova, relativamente nuova, perché proviene dalla rivoluzione francese, si associano e si contentano le persone incluse, benevolmente critiche di un sistema che non è da sostituire ma solo da migliorare. Non a caso ci si dice progressisti, democratici, cioè niente, rispetto alla messa in questione dell’ordine sociale dominante. E il popolo dei subordinati se ne va da un’altra parte. Per tornare a Berlinguer. Fino ai suoi ultimi atti, discorsi, interventi, interviste, parlava di fuoriuscita dal capitalismo, usava tranquillamente la parola rivoluzione, arrivando profeticamente ad associarla alla parola conservazione. Perché questo è oggi il parlare più avanzato e appropriato, per tornare a parlare ai lavoratori salariati, ai lavoratori precari, ai lavoratori disoccupati, ai lavoratori autonomi, a tutte, le tante, periferie del paese, prima che ai ceti medi riflessivi che, come le intendenze, poi seguiranno. L’ultimo Berlinguer radicalizza la sua posizione. La politica di alternativa, la lotta contro il taglio della scala mobile, suo “eccoci” davanti alle porte di Mirafiori. Arrivavano gli anni Ottanta, aveva drammaticamente capito che occorreva trattenere quel nuovo che avanzava, non per impedirlo, non si poteva, ma per condizionarlo e quindi per modificarlo. Questo è il primato della politica. Dopo, ci si mise sull’onda e si venne naturalmente travolti. Solo il rivoluzionario può capire il senso della tradizione. Il riformista sarà sempre subalterno all’innovazione. Adesso bisogna rimettere insieme due cose che insieme stanno bene: realismo e utopia. Realismo disincantato nell’analisi, utopia concreta nella visione. La parte del sotto deve rinominarsi. E così puntare a creare nuova appartenenza. Non guasterebbe, non tanto, non troppo, ma almeno un po’, di secolare messianismo.

Un commento a “Il comunismo non c’è più ma mette ancora paura”

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