Bene! Ecco una significativa prova che non siamo state ininfluenti, e i semi gettati hanno fruttato, in modo imprevisto come doveva essere. Il pensiero femminista della differenza orienta il pensiero giuridico nella lettura del magistrato Filice. Sottolineo i punti più importanti del suo discorso. L’interpretazione del giudice è il cuore dell’indipendenza del potere giudiziario e, aggiungo io, la garanzia delle parti nel processo; va da sé che questo non esclude a priori né errore né pregiudizio, ma limitarla e imbrigliarla con norme di una singola legge è un rimedio peggiore. “Identità di genere” è concetto distinto da differenza sessuale e va nominato per comprendere nella tutela i soggetti trans, questo, come “sesso” e “genere”, va riferito all’uso e significato dell’autore/autrice del reato, che non è un reato di opinione ma di istigazione. Se per non essere incriminati si avrà più cura del linguaggio nei luoghi pubblici e nei rapporti sarà un guadagno collettivo. Infine, la preoccupazione di una parte del femminismo che la donna/le donne siano ricondotte a un’identità – che, ripeto, non è fine e compito della legge, volta a colpire i comportamenti che lo fanno a danno di soggetti – corre il serio rischio di sostituire al “soggetto imprevisto” della libertà femminile il soggetto identitario di sesso. Purtroppo questo rischio è presente da tempo, in particolare sulla gpa, e non a caso, ma a sproposito, c’è chi prevede che approvata la legge diventerà inarrestabile la deriva alla liceità illimitata del corpo femminile. Ma il diritto se ha una funzione positiva è proprio quella di limite, distinguendo l’area del lecito dall’illecito, non in modo arbitrario, ideologico, politico o etico, ma in base ai principi fondativi dell’ordinamento. Ovvero della Costituzione e delle Carte internazionali dei diritti. Come ha opportunamente ricordato il presidente Draghi nell’ordinamento italiano vi sono i necessari sistemi di controllo sulla costituzionalità di una legge.
Articolo pubblicato su “il manifesto” del 27.06.2021.
«Quello del Vaticano è stato un atto giuridicamente gravissimo, ha utilizzato i canali del diritto internazionale per tentare di impedire l’innalzamento per via democratica del livello di tutela dei diritti». Ne è convinto Fabrizio Filice, giudice a Milano, esperto di violenza di genere, tema di numerose sue pubblicazioni.
Dottor Filice, al di là della forma inaccettabile, nella sostanza da Oltretevere si chiede di chiarire il significato di discriminazione, concetto che il ddl Zan non definisce esplicitamente.
Il riferimento agli atti di discriminazione c’è già nella legge Mancino, sulla quale il ddl Zan si innesta. La Cassazione ha dato indicazioni su cosa sia una discriminazione penalmente rilevante: deve essere una discriminazione espressa, cioè il motivo di odio deve essere evidente, plateale e non solo ricostruibile a posteriori come si fa invece nei processi per discriminazione sul lavoro. Ad esempio: un barista che dice «io qua i gay non li voglio» e non serve una coppia gay. Inoltre l’ordinamento, italiano ed europeo nel suo complesso, è dotato di un’articolata normativa sulle discriminazioni e sarebbe problematico introdurre una definizione che valga solo per il diritto penale; molto meglio ragionare, come si è fatto per la legge Mancino, sulla soglia di rilevanza penale delle discriminazioni.
Per i critici voi giudici acquisireste troppa discrezionalità per stabilire le condotte che determinano «pericolo concreto del compimento di atti discriminatori e violenti».
È ovvio che sia il giudice a stabilire quando vi sia un «pericolo concreto» del compimento di atti, evocato nell’articolo 4 del ddl. Vale anche per il tentato omicidio: è il giudice che decide, nel caso concreto, se una condotta è una semplice lesione o un tentato omicidio e il principale criterio di distinzione tra i due reati è proprio quello del pericolo concreto che si verificasse la morte. Il potere interpretativo è l’essenza dell’indipendenza del potere giudiziario.
Analoga preoccupazione sull’istigazione: c’è il rischio che si limiti la libertà di opinione?
L’istigazione non è un reato di opinione, punisce esclusivamente i discorsi che mirano a convincere altri a commettere violenze e discriminazioni. Di norme penali di questo tipo ce ne sono molte: l’istigazione a commettere reati, articolo 414 del codice penale, poi l’articolo 82 del testo unico sugli stupefacenti che punisce l’istigazione a usare droga. Qualcuno parla di reati di opinione? No.
E allora perché lo si fa in questo caso?
Perché spesso non ci si vuole porre il problema di misurare le proprie parole, ritenendo lecito difendere tesi anche legittime (come la prevalenza del modello di famiglia eterosessuale) attraverso discorsi che travalicano i limiti del rispetto. Gli stessi che vogliono mantenere la libertà di istigare all’odio nel nome della libertà di opinione sono i primi a invocare l’intervento repressivo quando è in gioco l’istigazione all’uso di droghe: la contraddizione è evidente.
Si potrebbe dire: aboliamo tutti i reati di istigazione, compresi quelli che già ci sono.
È una posizione che circola anche nel dibattito dottrinale. Riguarda il paradosso democratico formulato da Böckenförde: la democrazia liberale si fonda su presupposti che non è in grado di garantire, ossia non si può ricorrere alla repressione per garantire la libertà, altrimenti si nega la natura liberale dello stato. La questione è affascinante sul piano filosofico, ma va misurata con la realtà dei fatti, cioè con la realtà della violenza. Il tasso di delitti violenti contro la libertà dei soggetti che patiscono l’odio, a partire dalle donne, è molto alto. E lo stato liberaldemocratico, come sosteneva invece Simone Weil, deve avere tra i propri fondamenti anche la protezione dalla violenza: una concezione formalistica che rifiuta la repressione dei discorsi d’odio non è adeguata.
La vita dei soggetti nella loro concretezza deve essere il punto di partenza, quindi.
Sì, perché il soggetto astratto che si prende a modello per i ragionamenti giuridici tradizionali non esiste. O meglio, non è astratto, ma è un soggetto di dominio che ha precise caratteristiche: semplificando, è il maschio bianco eterosessuale che sta in alto nella scala sociale. Il diritto come codice di regolazione dei comportamenti umani nasce proprio sulla base di un soggetto di dominio: è difficile scardinare questa mentalità, ma occorre farlo. Le pensatrici femministe come Carla Lonzi spiegano molto bene la natura sessuata del soggetto di dominio, che nasce proprio per soggiogare le donne: non si può continuare a ignorare questa lezione.
Alcune giuriste femministe però criticano il ddl Zan affermando che farebbe fare un passo indietro proprio alla consapevolezza della differenza sessuale.
La controversia è legata ai concetti di sesso e genere. Io ritengo che sia giusto pretendere che la differenza sessuale non sia annullata nel concetto di genere, ma il problema non si pone: il ddl Zan cita correttamente e distintamente “sesso” e “genere”. Eliminare “identità di genere” comporterebbe invece escludere dalla protezione antidiscriminatoria le persone che vengono colpite e discriminate proprio a causa di un’espressione di genere percepita come difforme dalla norma, in particolare le persone transgender e non-binarie. Deve essere chiaro che è la percezione degli autori di violenza a generare violenza, non certo la percezione che le vittime hanno di loro stesse, la quale al massimo genera libertà. Io non vorrei che quella parte di femminismo più critica con il ddl Zan finisse paradossalmente per assumere i tratti di un altro soggetto identitario che, per affermare se stesso, ricorre a dinamiche di forza e di esclusione dell’altro da sé: il che è esattamente il contrario di quel “soggetto imprevisto” teorizzato da Lonzi, che riesce ad agire, anche come soggetto collettivo, senza mai cedere alla logica forza e dell’esclusione.
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