Sotto il significativo titolo “L’oscena passione per la guerra” si è svolto a Roma il 24 e 25 febbraio un incontro nazionale di femministe promosso da Alessandra Bocchetti e Franca Chiaromonte. Un confronto libero, fuori dalle polarizzazioni che infestano il dibattito mediatico. Qui di seguito l’intervento di Fulvia Bandoli.

Finalmente una sede nella quale discutere di guerra e di pace sforzandosi di ascoltare tutte le ragioni o i torti e comunque tutte le posizioni per quanto diverse possano essere.

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina e la guerra è diventata argomento quotidiano, e ancora di più da quando si è aggiunto il brutale attentato di Hamas contro 1.400 civili e la sicurezza di Israele e a questo è seguita la risposta spropositata e inaccettabile del governo israeliano che ha spazzato via 30.000 esseri umani e raso al suolo due terzi di Gaza in 5 mesi, mi sono riletta spesso, per sollevarmi dallo sconforto, un libro significativo e profondo della storica femminista Anna Bravo, che si intitola “La Conta dei salvati”. Scrive Bravo: “È un’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no. Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato. Si parla e si scrive molto di guerre, di eccidi e di violenze. È il racconto del sangue versato. Ma non saremmo qui se qualcuno non avesse lavorato per risparmiare il sangue. Come quei soldati della Grande guerra che concordavano tregue fra le trincee opposte. Popoli che misero in salvo i loro concittadini ebrei o che nascosero e protessero migliaia di militari sbandati o di prigionieri di guerra. Diplomazie e governi che hanno tramato la pace, non sempre la guerra”. In queste poche righe c’è la sostanza di ciò che io penso di ogni guerra scoppiata dopo la Seconda guerra mondiale e dopo che molti paesi sono entrati in possesso dell’arma atomica. Elemento quest’ultimo che ha cambiato in radice la natura di ogni conflitto armato, perché ogni guerra può diventare micidiale e distruttiva per il mondo intero.

Se non si è stati capaci di impedire che scoppi una guerra, per come la vedo io, si dovrebbe, subito dopo, fare di tutto perché finisca al più presto. Questo non significa negare il diritto di difesa agli aggrediti, le due cose possono stare insieme. Difendersi, ma cercare anche strade che aprano spiragli e trattative su come far cessare il fuoco e terminare una guerra. Dovrebbero farlo le sedi internazionali di mediazione, i paesi più potenti ma soprattutto gli altri popoli. Venti anni fa il “popolo della pace” era diventato una grande potenza e un interlocutore mondiale. Così come il grande movimento contro l’apartheid contribuì alla liberazione di Mandela e del Sudafrica, aprendo un percorso di riconciliazione nazionale molto significativo.

Sento, vedo e leggo che molte donne e molti gruppi femministi restano ancorati a quelle pratiche, ma vedo anche che per molti le parole pace, disarmo, trattativa, diplomazia, obiezione di coscienza, diserzione sono diventate impronunciabili quando non addirittura un modo di “intendersela con il nemico”. Queste parole sono usate da gruppi di donne in Russia, dalle madri dei soldati, o dalle donne ucraine, e dai gruppi pacifisti che ancora provano a far sentire la loro voce sia in Israele sia in Palestina. Per dirlo ancora più chiaramente le guerre in corso, per molti, non vanno fermate come io penso, ma combattute sino all’annientamento totale del nemico di turno, mettendo in secondo piano le decine di migliaia di vite umane perse, di civili e militari, i territori devastati per decenni, i tanti animali uccisi.

So bene che è difficile vedere i torti ma anche le ragioni di ogni contendente. E uscire fuori dagli schemi della guerra fredda che molte e molti ancora utilizzano. Eppure io credo che questo vada fatto. La domanda è semplice: possiamo dividerci su una strage di essere umani? Sia stata in passato a Beslan o a Sebrenica o come l’anno scorso a Bucha e Mariupol, o a Gaza come negli ultimi 5 mesi? Il dolore è uguale per tutti. Nominarne solo una parte mi pare impossibile.

Io naturalmente come tante di voi non ho risposte definitive, piuttosto penso a pratiche da mettere in atto insieme, noi e altre e altri. Partendo da una constatazione che resta vera, decennio dopo decennio. La guerra non è, non può essere lo strumento di regolazione dei conflitti. E il riarmo generalizzato di tutti i paesi del mondo è il peggior segnale che i governi potessero decidere di dare.

Credo che si possano intanto dire alcune cose insieme, in varie forme pubbliche: che cessi ogni fuoco, che vengano liberati tutti gli ostaggi e i prigionieri e i dissidenti politici, che cessino gli stupri di donne, che ogni occupante si ritiri dalle terre occupate e non sue, che vengano ricostruiti i paesi e le case distrutte, le scuole e gli ospedali, che non si incrementino ancora le spese per armamenti. Ho letto nei giorni scorsi su alcuni giornali nazionali frasi attribuite ad alcuni esponenti politici e osservatori: “l’unica cosa che dobbiamo fare è armare l’Ucraina fino ai denti perché sconfigga definitivamente la Russia, perché l’Ucraina sta combattendo per tutti noi e sta difendendo tutti noi”. Il destino dell’Europa sarebbe dunque nelle mani di questo piccolo popolo, con un esercito neppure tanto forte? Non scherziamo. Tirando all’estremo questo ragionamento, se dopo avere armato l’Ucraina fino ai denti non dovesse farcela, cosa faremo? Ci resterebbe solo la Terza guerra mondiale. E quella coinvolgerà tutte e tutti e l’esito sarebbe un disastro per il pianeta e per tanti popoli. Una eventualità che ogni donna deve tentare di scongiurare.

2 commenti a “Il dolore è uguale per tutti”

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