di Andrea Camilleri Testo pubblicato in edizione integrale su Aprileonline il 31 marzo 2008, quindi in Pietro Barcellona, Andrea Camilleri, Alberto Olivetti, Edoardo Sanguineti e Mario Tronti, “Lezioni per Pietro Ingrao”, Roma, Ediesse, 2013 Riproduciamo una fotografia con Andrea Camilleri, Pietro Ingrao e Alberto Olivetti, scattata in occasione della lezione del 2008.
Devo confessare che ogni volta che mi si chiede di tenere un incontro pubblico da altri nell’invito definito come lectio magistralis, mi vengono, come si usa dire, i sudori freddi.
In primo luogo perché non mi ritengo in grado di impartir lezioni di alcunché ad alcuno e in secondo luogo perché fortemente dubito che magistralis la presunta lectio possa definirsi per concetto e per forma.
Consentitemi perciò di parlarvi con molta semplicità, a mio e a vostro agio. E parlarvi nemmeno da scrittore, ma da cittadino qualsiasi che però, dal 1942 ad oggi ha seguito, e continua a seguire, le vicende politiche del nostro paese, a lungo militando già fin dall’ottobre del 1943, ma tenendo presente che gli Alleati sbarcarono in Sicilia nel luglio di quello stesso anno, nel Partito comunista italiano con alterne vicende.
Dirò subito che ho accettato con slancio l’invito di portare la mia testimonianza per il compleanno di Pietro Ingrao perché, nell’unica volta che l’ho incontrato di persona, in occasione della presentazione a Roma del libro di suo nonno Francesco, fui sommerso da una timidezza improvvisa e tale da non consentirmi d’esprimergli la profondissima stima, la grandissima ammirazione e tutta l’intensità dell’affetto che nutrivo, e nutro, per lui.
Perché Ingrao ha la rarissima dote di suscitare, oltre a rispetto, stima, considerazione, anche simpatia umana pure in chi personalmente non lo conosce e lo vede effigiato o in televisione.
Perciò ho colto al volo l’occasione che mi viene offerta per tentare di spiegare, anche a me stesso, le ragioni di questi sentimenti.
Ma devo scusarmi prima ancora di cominciare se sarò costretto talvolta a parlarvi di necessità anche di me, perché dovrò continuamente rapportare me stesso a lui.
Ho da fare un’altra precisazione. Quando Walter Tocci m’invitò, io pensai subito a un titolo che in qualche modo mettesse in relazione Ingrao e l’esercizio del dubbio costruttivo. Poco dopo è andata in libreria la sua conversazione con Claudio Carnieri intitolata appunto La pratica del dubbio. Mi sono sentito confortato nella scelta del mio tema che è appunto la qualità del dubbio ingraiano.
Vorrei però inizialmente dire il piacere che ho provato, leggendo alcuni suoi scritti, nello scoprire due persone ora scomparse a lui amiche che amiche furono anche per me in tempi e situazioni certamente assai diversi.
La prima è Nicolò Gallo, che ho amato per le sue sempre acute e meditate parole, ma ancor più per i suoi eloquentissimi silenzi.
È stato lui, dopo la lettura del mio primo romanzo, da me inviatogli in forma ancora dattiloscritta, a darmi preziosi consigli soprattutto nell’andare più in profondità e con maggior coraggio nell’uso del linguaggio che avevo adottato. Mi promise la pubblicazione del libro entro l’anno nella collana che allora dirigeva con Vittorio Sereni, ma la sua improvvisa scomparsa bloccò il progetto.
E nei dieci anni che seguirono, nessun editore volle pubblicarmi.
L’altra è Totò Dibenedetto.
Non sapevo chi fosse fino a quando non mi capitò fra le mani un libro edito da Feltrinelli che conteneva le testimonianze di alcuni artisti e scrittori milanesi, da Vittorini a Treccani, circa la loro adesione al Partito comunista ancora fascismo imperante.
Molti di loro facevano il nome del raffadalese Totò Dibenedetto come di colui che li aveva fermamente convinti all’idea comunista. Tornato in Sicilia, proprio per la presentazione di quel libro che avevo fatto leggere a Nicolò, finalmente edito, chiesi ad un amico di Raffadali se aveva notizie di un certo Salvatore. Il mio amico si mise a ridere.
“Il senatore? Ma è il nostro sindaco! Che vuoi sapere da lui?”
“Mi piacerebbe conoscerlo. Un giorno di questi ti vengo a trovare a Raffadali e me lo fai incontrare”.
Invece il giorno appresso, prima che iniziasse la presentazione, mi venne incontro un signore elegante, dalla faccia devastata per l’esplosione, come seppi dopo, di una granata durante un’azione partigiana.
“Mi voleva conoscere?” – domandò – “Eccomi qua. Sono Dibenedetto”.
Da allora, tutte le volte che tornavo al mio paese, ci incontravamo. E parlavamo a lungo, col rincrescimento evidente e reciproco di non esserci incontrati prima. Fui suo ospite nella bella casa di Raffadali e anche in quella marina che Albe Steiner ritrasse più volte. Mi regalò due suoi libri che lessi con avidità e che conservo gelosamente.
Ingrao, lo ha scritto e detto, tante volte, nasce poeta, amante della letteratura del suo tempo e, in seguito, si avvicina al cinema iscrivendosi con l’amico fraterno Gianni Puccini all’appena nato Centro sperimentale di cinematografia dove, tra parentesi, insegnava anche il russo Pietro Sharov al quale, dagli anni Cinquanta e fino alla sua morte, mi legherà una profonda amicizia.
Ingrao ci racconta del suo entusiasmo giovanile per le scoperte di Chaplin e dei grandi registi russi, del valore dell’insegnamento di un Umberto Barbaro e degli incontri formativi con un Rudolf Arnheim. Insomma, pare avviato a una brillante carriera nel cinema quando, del tutto improvvisamente, abbandona il Centro sperimentale.
Che abbia già abbandonato gli studi universitari in giurisprudenza (ma si laureerà qualche anno dopo), intrapresi forse solo per compiacere la famiglia è cosa che può essere capita, ma la rinunzia volontaria allo studio di una materia dalla quale si sentiva così attratto appare assai più sorprendente.
Ingrao ne fornisce una sua spiegazione. Scrive che l’abbandono del Centro sperimentale fu motivato in sostanza dal contraccolpo provato per l’inizio della guerra di Spagna. Considero questo un punto assolutamente nodale del suo percorso, ma Ingrao mi pare che si limiti sempre a farne breve cenno. Forse per un alto senso di pudore.
Perché penso che la guerra di Spagna invece sia stata per lui qualcosa di più di un tragico impatto, sia stato un autentico, squassante cortocircuito. Tutti gli altri suoi compagni e amici, antifascisti come lui, ad esempio, non interruppero certo gli studi o le attività intraprese per il golpe di Franco. Ingrao, sì.
Penso che Ingrao ebbe in quel momento la lucida percezione di quello che in realtà veniva a significare la guerra di Spagna e ne ebbe esistenziale sgomento. Su di lui, sulla sua sensibilità, gravavano già da tempo quelli che Vittorini avrebbe chiamato “i dolori del mondo offeso” e la guerra di Spagna consisteva in un insopportabile aggravio dell’offesa.
Inoltre veniva a costituirsi come un nitido spartiacque tra fascismo e antifascismo, tanto che gli intellettuali di tutto il mondo vennero strattonati dalla Storia e scelsero l’antifascismo, comprendendo che si trattava non di una guerra locale, ma di uno scontro frontale che coinvolgeva il mondo intero. Scriveva Hemingway:
“Se vinciamo qui, vinceremo dappertutto”.
Già, ma se si perdeva? Vide giusto Gustav Regler, quando cominciava a delinearsi la sconfitta: “Ora che una guerra finiva, credetti di sentir passare nel vento l’odore di cadavere delle prossime ecatombi”.
Ecco, sono convinto che Ingrao venne allora preso da un dubbio che indirizzò diversamente la sua vita: il dubbio cioè che l’arte da sola e in sé, e in quel momento specifico, fosse assolutamente inadeguata a far barriera contro il fascismo. Io non so se all’epoca le maglie della censura fascista sull’informazione giornalistica avessero permesso, sia pure tra le righe, di lasciar capire quale vasta mobilitazione era in atto e quindi se lui era a conoscenza di quanti artisti e intellettuali fossero andati a combattere in prima linea, col fucile prima ancora che con la penna, da Hemingway a Orwell a Malraux a Saint Exupery e a tantissimi altri, certo è che egli in quei mesi, oltre a leggere testi che potessero fornirgli le armi della conoscenza, da Salvemini a Rigola, Trockij, Rosenberg, sente sempre più un’urgenza nuova. Scrive infatti: “Intanto dentro di me si compie una decisione nemmeno dichiarata. Muta il ‘che fare’: come domanda interna, prima ancora che essa diventi azione esplicita. Cominciò per me un nuovo rapporto con la politica. Mi strappò all’Arcadia e alle passioni che segnavano quei miei primi amori con la scrittura letteraria, e mi preparava alle avventure terribili che presto avrebbero percorso il mio tempo”.
Quindi dal dubbio nasce un meditato agire.
Personalmente, provo profondo disagio davanti a chi crede di avere in sé solo certezze assolute.
Ai miei occhi, appare come un arroccarsi in una immobilità che nega il movimento. Le certezze assolute, a mio avviso, attengono alla fede, non all’esercizio della ragione che è tutto un cercare, un tentare, un interrogare, un dubitare su se stessi e gli altri.
E poi siamo così sicuri che chi non dubita mai lo faccia perché inglobato nella sfericità di una sua verità o perché invece l’esercizio del dubbio, in sé estremamente impegnativo e problematico, può sfociare in una revisione che non potrebbe apparire come una contraddizione?
Contraddirsi, a molti, sembra espressione di malferma personalità e invece così non è, è tutto l’opposto.
Per inciso, vorrei ricordare che Leonardo Sciascia in un primo momento voleva che sulla sua pietra tombale fosse scritto “Visse e si contraddisse”, ma poi anche lui ci ripensò, contraddicendosi.
A questo proposito, c’è un pensiero esemplare nel libro secondo dei Saggi di Montaigne:
“Mi sembra che la madre nutrice delle opinioni più false e pubbliche e private sia la troppa certezza, la troppa buona opinione dell’uomo in sé …”.
Per quel che mi riguarda io mi sconfesso continuamente.
Il dubitare di Ingrao è sempre, come dire, la messa in moto di un motore che attivamente elabora il che fare più attinente al fine proposto.
In altri termini, non è mai la messa in dubbio del perché, ma del come.
Certe altre volte il dubbio è inespresso, soprattutto quando Ingrao avverte una fortissima disparità tra la pochezza dei mezzi a disposizione per affrontare un obiettivo che appare impari. Questo dubbio, per esempio, traspare in tutte le pagine che in Volevo la luna si riferiscono al gruppo dei giovani antifascisti romani, e si condensa in un solo aggettivo più e più volte ripetuto: ‘gracile’.
Ma il dubbio sulla gracilità del gruppo non significa mai la possibilità dell’ipotesi dell’abbandono della lotta, significa semmai la lucida presa d’atto di una situazione secondo la quale sviluppare l’agire.
Ma c’è un altro punto nodale nella vita politica di Ingrao che, ai miei occhi, ha la stessa valenza di quello del 1936. È la richiesta da lui fatta, nel 1966, nel corso dell’XI congresso del partito, di libertà del dissenso. Com’è logico supporre, una tale ardita richiesta all’interno di una struttura rigida, gerarchica e centralista non può essere che la disperata, e ormai non più cancellabile somma finale di un innumerevole dubitare accumulato nel corso degli anni. E questa somma finale ha una precisa definizione: dissenso.
Perché questo dissenso? Scrive Ingrao: “In quella mia rivendicazione di libertà del dissenso c’era non solo il drammatico stimolo che era venuto dalla rivelazione dei delitti di Stalin, ma una convinzione più profonda che aveva anche a che fare con una riflessione sull’esistere. Mi muoveva non solo la tutela della libertà d’opinione, ma ancor più la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l’incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto”.
“Un farsi del molteplice”. È in sostanza, anche questa, una crisi esistenziale e politica che nasce dalla crisi di una certa concezione ristretta della politica e postula una sua rifondazione nel recupero di quella che Hanna Arendt chiamava la politica perduta, vale a dire quella messa in rapporto diretto tra gli uomini, attraverso un’azione che corrisponda alla condizione umana della pluralità, della molteplicità.
“Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, – scrive la Arendt – questa pluralità è specificamente ‘la’ condizione – non solo la conditio sine qua non, ma la conditio par quam – di ogni vita politica”.
Ancora nel ’66, data la posizione che Ingrao occupava nel partito, ci voleva molto coraggio per proclamare pubblicamente la necessità del dubbio, del dissenso.
Coraggio politico, certo. E infatti, come egli stesso racconta, le reazioni all’interno del partito contro di lui e contro coloro che ne condividevano le posizioni, fu durissimo. Sorsero perfino sospetti di un tentativo di sostituzione del segretario del partito.
E non c’è dubbio alcuno che lui quella reazione non l’avesse messa in conto.
Ma a me appare anche e soprattutto un atto di coraggio umano.
Perché è notorio che l’uomo comune nutra una forte diffidenza verso chi dubita, non è un caso che sia stata popolarescamente coniata l’espressione “cacadubbi”.
L’uomo comune, se a scuola ha studiato l’importanza del dubbio, da Aristotele in giù, se ne è presto dimenticato.
E per fortuna, sia detto tra parentesi, si è anche dimenticato della filosofia positivistica che considerava il dubbio addirittura come una malattia che portava ad una continua ruminazione psicologica, come la chiamò sprezzantemente Legrand du Saulle, e che sfociava inevitabilmente in una sorta di paralisi del fare.
Allora, qual è la funzione positiva del dubbio secondo Ingrao? Sentiamo le sue parole:
“Mi appassionava la ricerca. E il dubbio mi scuoteva, vorrei dire: mi attraeva. Vedevo in esso un’apertura alla complessità della vita. Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare: aprirsi al “molteplice” del mondo…”.
E ancora:
“Il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio. E avvertivo anche una ricchezza per quell’interrogarsi, cercando.
Come se il mondo – nella sua problematicità – si dilatasse intorno a me.”
“Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare”, afferma Ingrao.
Molti di voi ricorderanno l’incipit delle “Meditazioni metafisiche” di Cartesio.
Già da qualche tempo mi ero accorto che, sin dai primi anni, avevo accolto per vere molte opinioni false e che ciò che avevo poi costruito su principi tanto malfermi, non poteva essere che assai dubbio e incerto. Mi ero proposto quindi di cercare seriamente, almeno una volta nella vita, di disfarmi di tutte le opinioni a cui avevo sino ad allora prestato fede, e di ricostruire ogni cosa dalle fondamenta, se pure volevo stabilire qualcosa di certo”.
Il punto di partenza dal quale Ingrao muove ha una diversità di non poco peso, vale a dire che le opinioni da lui accolte all’inizio non si erano in seguito rivelate del tutto false e ingannevoli, ma continuavano ad essere sostanzialmente vere.
Il dubbio allora nasceva non dall’opportunità ma dalla necessità di accogliere o meno le inevitabili modificazioni che quelle basilari opinioni via via subivano nel convulso procedere della Storia, senza che però ne intaccassero la verità di fondo.
È stato il secolo che ha avuto, rispetto a quelli che l’hanno preceduto, una massa, proprio nel senso che vien dato in fisica a questo termine, di gran lunga superiore.
La qualità del dubbio di Ingrao perciò non attiene alla sfera del sistematicismo o se volete dello scetticismo, ma assume il carattere di un procedimento metodico di volta in volta tendente a un fine, a uno scopo: e cioè la verifica del fondamento di una ulteriore certezza.
Ingrao non dubita di tutto ciò che è dubitabile, forse questa posizione è più di un filosofo che di un politico, Ingrao limita il suo dubbio a quando scopre che su un dato argomento, su una precisa posizione, si può della possibilità del dubbio.
È un dubitare a posteriori. Una postulazione di verifica.
Ma pur entro questi limiti, l’esercizio del dubbio produce in lui, come egli stesso ha affermato, una sorta di dilatazione del mondo.
Il dubbio quindi come mezzo di conoscenza, cioè un dubbio di marca cartesiana per il quale ogni dubbio doveva risolversi nella scoperta di un nuovo territorio su cui avventurarsi.
E su questi nuovi territori di conoscenza Ingrao si è sempre inoltrato non per il gusto dell’avventura intellettuale in sé, ma quasi per assolvere a un dovere politico e umano.
Dovere che non gli mai impedito di godere nel contempo del piacere stesso del dubbio e della sua risoluzione.
Direttore dell’Unità dal 1947 al 1956; deputato dal 1948 per dieci legislature fino a quando, nel 1992, chiede di non essere rieletto; nella segreteria del partito dal 1956 al 1966; nel 1968 presidente del gruppo parlamentare comunista alla Camera; presidente della Camera dei deputati dal 5 Luglio 1976 fino al 1979, quando chiederà al partito di non essere ancora ricandidato e al suo posto subentrerà Nilde Jotti.
Mi sbaglierò, ma io sono convinto che del suo impegno politico egli sia rimasto maggiormente legato al periodo 1944-1945, quando, in una grigia Milano con il piede straniero sopra il cuore, lavorava all’edizione clandestina dell’Unità, quando il vivere e l’agire quotidiani erano un azzardo, quando la possibilità dello scacco era dietro ogni angolo, quando si era uomini e no.
In quei giorni la lotta era passione, impegno di tutto se stesso, “fatale come una necessità biologica”, e chi era uomo, per il solo fatto di esserlo, era anche potenzialmente un eroe.
Non vi sembri una parola eccessiva.
Cercherò di spiegarne il significato e la ragione per cui mi sento di adoperarla attraverso una frase, della quale vogliate perdonare la lunghezza, tratta da “L’eroe e l’uomo”, un saggio compreso nel volume intitolato “Senso e non Senso” di Maurice Merleau-Ponty.
Dopo aver lungamente esaminato i protagonisti di “Per chi suona la campana” di Hemingway, della “Condizione umana” di Malraux e di “Pilota di guerra” di Saint- Exupery, Merleau-Ponty così conclude:
“L’eroe dei contemporanei non è scettico, né dilettante, né decadente. Sennonché, ha l’esperienza del caso, del disordine e del fallimento, del ’36, della Guerra di Spagna, del giugno del ’40. È in un tempo in cui i doveri e i compiti sono oscuri. Prova meglio di quanto non si sia mai fatto la contingenza del futuro e la libertà dell’uomo. Considerando bene le cose, niente è sicuro: né la vittoria, ancora tanto lontana, né gli altri, che hanno spesso tradito. Mai gli uomini hanno verificato meglio che il corso delle cose è sinuoso, che molto è richiesto all’audacia, che sono soli al mondo e soli l’uno di fronte all’altro. Talvolta però nell’amore, nell’azione, s’accordano fra di loro e le vicende corrispondono alla loro volontà.
Fuori dai tempi della fede, in cui l’uomo crede di trovare nelle cose la trama di un destino già tracciato, chi può evitare questi interrogativi e chi può fornire un’altra risposta? O piuttosto: la fede, spogliata delle sue illusioni, non consiste proprio in questo, nel movimento per cui riunendoci agli altri e riunendo il nostro presente al nostro passato, facciamo in modo che tutto abbia un senso, cioè concludiamo con una parola precisa il discorso confuso del mondo? I santi del cristianesimo, gli eroi delle rivoluzioni passate non hanno mai fatto altro. Semplicemente cercavano di credere che lo loro battaglia fosse già vinta nel cielo o nella storia. Gli uomini d’oggi però non hanno più questa risorsa.
L’eroe dei contemporanei non è Lucifero, non è nemmeno Prometeo, ma è l’uomo. L’uomo comune, l’uomo che puoi incontrare all’angolo della strada.”
E in questo senso, con il viatico di Merleau-Ponty e totalmente spoglio di ogni esaltazione retorica, mi sento di considerare Ingrao un perfetto eroe dei nostri anni.
“Volevo la luna”, ha intitolato Ingrao il suo più recente libro autobiografico. E pare d’avvertire, nel titolo, come una certa disillusione per non essere riuscito ad ottenerla.
È vero, la luna non è diventata né sua né nostra, se la sono presa gli americani.
Ma Ingrao sulla sua personale luna ci è sbarcato, eccome se ci è sbarcato, non ci ha messo nessuna bandiera, s’è l’è esplorata tutta e ne ha fornito una meravigliosa, unica e irripetibile relazione di viaggio attraverso la sua stessa vita.
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