L’annuncio del distacco della Russia da internet, poi smentito, e successivamente ancora confermato, ci dà la misura degli sconquassi che la guerra, insieme al suo terribile carico di vittime e devastazioni, sta producendo anche nella dimensione virtuale.
Probabilmente Putin non desiderava altro che avere il pretesto per calare la sua cortina zarista sul web, isolando i circa 100 milioni di utenti che si alternano online, che ai suoi occhi, mostrano una financo eccessiva capacità di connessione, ricostruendo proprio sulla rete quelle forme di associazione e di comunicazione che il regime sta sradicando dal paese, con le leggi liberticide.
Non a caso Anonymus nella sua azione di contrasto che ormai svolge meticolosamente contro gli apparati del Cremlino ha divulgato un documento che mostra come fin da due anni fa l’amministrazione russa aveva predisposto una separazione da internet.
L’iniziativa delle piattaforme americane di procedere al boicottaggio della Russia in effetti ha solo dato il pretesto per rendere perfetto l’isolamento di quei cittadini che cercavano di forzare il blocco delle notizie.
Ma in realtà oltre la contingenza della guerra digitale, quanto sta avvenendo al fronte, sul versante delle forme e linguaggi dell’informazione, è già la dimostrazione di come questa guerra, così come la pandemia prima, stia accelerando vertiginosamente i processi di evoluzione dell’intero sistema comunicativo.
In pochi giorni, seguendo le cronache televisive e dei giornali, abbiamo constatato come il profilo del giornalismo artigianale, dove la relazione diretta fra professionista e notizia era la base della catena di produzione, sia definitivamente e universalmente tramontato.
Qualche mese fa era stato pubblicato uno straordinario e ponderoso saggio di Jill Abramson, l’ex direttrice del New York Times, Mercanti di verità (Sellerio), che descriveva l’evoluzione della specie giornalistica negli Usa, compilando un minuzioso quanto documentatissimo diario di bordo degli ultimi 15 anni di quattro testate guida: New York Times, Washington Post, Buzzfeed, Vice.
Due quotidiani storici della tradizione cartacea e due realtà trionfanti del nuovo mercato online. Lungo questo racconto si poteva cogliere il tratto caratteristico del nuovo ciclo produttivo in quella convergenza fra video e intelligenza artificiale, intermediate dai big data.
Spiegava Abramson, facendo la cronaca quotidiana di queste trasformazioni, come i quotidiani siano diventati veri e propri centri servizi che spostando sul web il baricentro del proprio mercato, in cui i lettori sono sostituiti dagli utenti unici, inevitabilmente erano costretti a proporre a questa folla di utenti digitali insieme alle notizie, ormai vere e proprie commodities, una gamma di servizi e opportunità che rendevano più profittevole e redditizio il singolo frequentatore degli spazi digitali della testata. Mentre, dal versante opposto, quanto accadeva a Buzzfeed e a Vice, faceva intendere come i siti che accumulano utenti e attenzione poi devono nobilitare la propria offerta con pacchetti di informazione pregiata, che comunque viene composta con le regole e le cadenze dell’ottimizzazione dei click.
Questa ineccepibile fotografia di quanto è accaduto sullo scacchiere più avanzato del giornalismo finalmente archivia quella estenuante e ridondante sequenza di convegni su dove andrà l’informazione, che ha occupato prevalentemente la stragrande maggioranza dei giornalisti, i quali, travestiti da aruspici e indovini, si accalcavano a guardare nella palla di vetro e a contendersi l’ultima previsione, a partire dal sottoscritto. E ha fissato l’orizzonte in cui comincia a muoversi anche il sistema europeo, dai grandi giornali inglesi e tedeschi, alle emittenti televisive fino agli stessi apparati italiani.
I dati del Corriere della sera e de la Repubblica, che parlano, alternativamente, di una media fra i 25 e i 30 milioni di utenti unici mese, a fronte di un ridimensionamento del venduto in edicola calato a circa un terzo di quanto fatturato solo sei anni fa, ci parla di un vorticoso processo di trasformazione che non solo sposta il centro gravitazionale del giornale sulla rete, ma soprattutto modifica copernicanamente sia le procedure decisionali che i profili delle competenze e dei saperi professionali.
Già da alcuni anni, almeno 5 direi, assistiamo a una automatizzazione delle redazioni, sull’onda di una faticosa ma inesorabile unificazione dei desk digitali al corpo centrale che si occupava della versione cartacea. Come scrive la Abramson, questo processo si realizza completamente negli Usa attorno al 2010, e comporta una riduzione di circa il 40 % degli addetti ai desk. Le linee di produzioni vengono automatizzate, con le gestione di sistemisti e informatici che entrano in redazione affiancando i vecchi capo desk. I flussi delle informazioni vengono prima raccolte, e poi catalogate e smistate, mediante dei nuovi software di impaginazione e di pubblicazione che diversificano ogni singola azione a seconda del contenuto, del destinatario e della tipologia di social che si vuole usare. Il verbo chiave che usa la Abramson per indicare il salto della specie, lo spillover per rimanere alla metafora virale, del modello editoriale, è to match, abbinare. Oggi, spiega l’ex direttrice del New York Times, il redattore ha come funzione primaria quella di abbinare ogni singolo contenuto a ogni singolo utente. Entrando nell’ordine di milioni e milioni di abbonati, come possono vantare i grandi quotidiani americani, significa avere una potenza tecnologica nel profilare gli utenti e tipicizzare i contenuti che è assolutamente fuori da ogni portata umana.
Queste forme di automatizzazione che investono non solo l’ottimizzazione commerciale e la finalizzazione distributiva ma proprio le attività di scrittura e di composizione delle pagine, dai desk digitali risalgono la filiera organizzativa e arrivano alle redazioni tradizionali, che integrandosi con il flusso digitale si uniformano alle tecniche di selezione dei materiali giornalistici. Fondamentale è la ormai famosa tecnica dei due titoli, che riporta proprio il libro che abbiamo citato. Ogni contributo o articolo che arriva negli spazi digitali deve essere, prima della pubblicazione vera e propria, testato con diversi titoli di prova per centrare quella forchetta di termini e suggestioni che i social veicolanti gli spazi della testata considerano redditizi e dunque privilegiano nella diffusione. Una pratica che produce una specializzazione e tecnicalità che si sta sovrapponendo a volte perfino alla direzione della testata: chi garantisce in poche ore che una notizia pubblicata dal sito di un giornale possa passare, mutando titolo e testo iniziale da 5000 mila contatti a 50 mila, diventa inevitabilmente una figura chiave della redazione.
Questa tecnicalità viene poi contesa ai software di machine learning che progressivamente si impossessano di questi trucchetti arrivando a comporre e pubblicare automaticamente ogni notizia secondo la formula vincente.
La guerra ci ha mostrato in trasparenza come su questa evoluzione possa agire lo stato di necessità. Due le direzioni che ci pare di cogliere: da una parte ormai la saldatura fra scrittura e video. Nei giornali tradizionali in pochi giorni abbiamo visto autorevoli inviati trasformarsi in efficienti cameran con il proprio telefonino, e assumere la cadenza produttiva e narrativa di un aggiornamento costante nel corso delle 24 ore della notizia principale con la pubblicazione di pacchetti di filmati. La seconda evidente trasformazione riguarda proprio l’origine di questi filmati che ormai sfugge completamente alle redazioni, le quali si vedono schiacciate sul ruolo di puro broker dei contenuti altrui.
Seguendo le cronache di questi giorni noi abbiamo visto come i direttori in video – penso all’onnipresente Maggioni del TG1 o al rodato Mentana de la 7 – che ruminano in lunghe dirette flussi inesauribili di contenuti video affiornati dalla rete, validati ed editati dagli inviati sul teatro di operazioni.
Lungo questo crinale entrano in redazione figure spurie, free lance, documentaristi, registi, semplici testimoni, oppure direttamente apparati dei due contendenti, che riprendono e trasmettono le immagini di quanto avviene ovunque.
In questa trasformazione si modifica, anche nei quotidiani oltre che nei TG, l’intera gerarchia giornalistica e soprattutto muta la fisionomia classica del giornalista, che comincia a diventare interlocutore diretto dei segmenti aziendali responsabili delle infrastrutture tecnologiche e della logistica digitale. Dall’altra parte i redattori di nome o più caratterizzati, tramite i siti web costruiscono una relazione diretta con il pubblico diventando dei veri e propri brand commerciali della propria testata. Negli Usa, ci documenta la Abramson, circa il 60 % delle firme di richiamo sono oggi diventati canali autonomi che arrivano poi a fare persino concorrenza alla stessa testata madre.
Ma tornando alla guerra, dopo la sbornia della pandemia condotta a colpi di statistici, epidemiologi e virologi, oggi ha portato nelle redazioni militari e geopolitici che si impongono come una nuova casta sacerdotale dotata di linguaggi, tecniche e saperi del tutto avulsi da quella redazionale. In questo modo si ripropone quella delega all’esperto che nella pandemia ha visto intere redazioni lottizzare gli scienziati per acquisire una capacita di lettura dei fenomeni esterni. Oggi il tema diventa ancora più bruciante per il carattere emotivo e pervasivo della questione bellica. Una redazione può appaltare a un esperto la propria capacità di interpretare la tragedia di una guerra, tanto più se ne siamo lambiti?
È una domanda che ci porta direttamente al nodo di questo ragionamento: come riproporre un controllo sociale condiviso dell’informazione in una fase in cui la torsione organizzativa porta ogni decisione e innovazione tecnica lontano dalla redazione? Come poter interferire con i processi tecnologici e le strategie di relazione con esperti e collaboratori? Proprio la Abramson ci dice che l’unico modo è quello di diventare partner e indispensabili esperti dei processi di aggiornamento tecnologico. I software che imparano devono ogni volta cogliere quelle sfumature professionali che permette di trasformare l’esperienza in istruzioni tecniche.
Questo è il segmento da presidiare costantemente: gli apparati di intelligenza artificiale devono essere addestrati e collaudati sempre dalla redazione, che deve rivendicare la possibilità di riprogrammarli, invertendo il rapporto con i tecnici operativi che affiancano prima, in attesa di sostituirli poi, i redattori artigiani. Su questo dovremo ragionare avendo gli occhi ben fissi sulla tragedia della guerra, che ci deve anche suggerire il modo in cui il pericolo è sempre quello di una militarizzazione delle culture e delle esperienze civili.
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