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Il lago e la foresta. Lotte di donne in Africa

Mentre i paesi ricchi del Nord si accaparrano crescenti quantità di terre nel Sud globale, la crisi ecologica prosegue il proprio corso rivelandosi al tempo stesso una crisi migratoria, economica e di genere. La sua portata non può essere compresa in modo appropriato senza conoscere – insieme ai numeri – le storie e i vissuti delle persone che la sopportano sulla propria pelle. Le donne africane sanno bene che fenomeni come il traffico di spose bambine e l’abbandono scolastico delle più giovani sono collegati al cambiamento climatico: le famiglie impoverite dalla desertificazione e dalla mancanza di risorse idriche sono spinte a prendere decisioni estreme.

Lo sfondo globale

Una vasta documentazione attesta il divario di ricchezza tra le nazioni responsabili delle emissioni di CO2 e quelle che ne affrontano gli effetti deleteri, evidenziando gli esiti che il cambiamento climatico provoca sul sistema globale della giustizia sociale. Il dibattito sul clima è stato per lungo tempo dominato dalle popolazioni bianche del Nord del mondo, ignorando le condizioni e le richieste delle popolazioni del Sud del mondo, soprattutto delle donne e delle comunità indigene. In effetti, “solo nel 2016 in tutto il mondo sono stati uccisi 200 contadini e attivisti, spesso donne, che hanno perso la vita, per evitare che i loro campi […] venissero venduti o dati in affitto a imprese, spesso multinazionali con sedi in piccoli stati che operano come piattaforme per le operazioni delle multinazionali e di società finanziarie” [1].

Il fenomeno della sottrazione di terre a comunità indigene senza il loro consenso da parte di aziende o governi, denominato land grabbing, dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008 è cresciuto del 1000%. Anche se le operazioni di accaparramento rispettano le normative internazionali, prevedendo consultazioni e compensazioni delle comunità locali, gli investimenti sono realizzati secondo modelli agroindustriali o speculativi, orientati al mercato internazionale piuttosto che a soddisfare il diritto al cibo delle popolazioni locali. Questo fenomeno geopolitico – che minaccia la sovranità dei paesi in via di sviluppo e la sopravvivenza di comunità locali soprattutto in Africa, Asia e America Latina per lo sviluppo di monocolture o per l’estrazione di risorse – è dunque una forma di colonialismo contemporaneo.

La Federazione di Volontari nel mondo, Focsiv, basandosi sulle informazioni raccolte dalla banca dati Land Matrix, pone il Perù al primo posto come Paese più coinvolto dal land grabbing; a seguire altri stati latinoamericani (Brasile e Argentina), asiatici (Indonesia e Papua Nuova Guinea soprattutto), dell’Europa orientale (Ucraina) e africani (Sud Sudan, Mozambico, Liberia e Madagascar). I principali accaparratori sono soprattutto iPaesi occidentali più ricchi. Dal Canada (quasi 11milioni di ettari) allaGran Bretagna, passando per gli Stati Uniti (quasi 9 milioni di ettari), la Svizzera e il Giappone. Seguono le nuove grandi economie come la Cina (5,2 milioni di ettari) e l’India. Assieme alla Malesia (4,2 milioni di ettari) e alle sedi di imprese multinazionali come Singapore (3 milioni di ettari) [2].

A facilitare le operazioni di accaparramento delle terre contribuiscono la digitalizzazione del land grabbing e il ruolo opaco delle banche. In un mercato globale dominato dal paradigma sviluppista/estrattivista, la terra, soprattutto quella fertile, e l’acquasalubresono risorse che si stanno esaurendo e che acquisiscono sempre più valore in un quadro di finanziarizzazione globale dell’intero ecosistema [3]. Inoltre, a oggi, le stesse azioni intraprese per compensare le emissioni di carbonio rischiano di rendere più ampia la forbice della diseguaglianza tra i super-ricchi del pianeta e i più poveri.

In Africa

Tanto più risalto, su questo sfondo, assumono le figure di alcune delle più attive esponenti dell’ambientalismo africano – le loro storie e le loro idee, le loro vite e le loro lotte.

Vanessa Nakate

“Combattente per il Pianeta e per un futuro migliore per tutti”: così si definisce Vanessa Nakate, laureata in gestione aziendale presso l’ateneo di Kampala (capitale dell’Uganda), sua città natale. Dopo essere entrata in contatto con il movimento dei Fridays for future ha iniziato a scioperare da sola, con un cartello con la scritta «Amore verde, pace verde» e successivamente, con altri ambientalisti, ha fondato il movimento Youth for future Africa, trasformatosi poi nel Rise up movement.

Ha portato le sue istanze alla Cop 25 a Madrid, alla Desmond Tutu international peace lecture e al World economic forum di Davos in Svizzera, insieme ad altre cinque attiviste, bianche e occidentali. Qui accade un episodio significativo. L’Associated Press pubblica le foto dell’evento. Vanessa Nakate non appare e denuncia con un video di 10 minutisul suo profilo l’esclusione delle voci nere dal dibattito: “Non avete cancellato solo una foto. Avete cancellato un continente”. Riceverà il sostegno di migliaia di utenti e le scuse dell’Agenzia di stampa che dichiara che l’intento era di fare un primo piano di Greta Thunberg e non era un caso di razzismo climatico. «Nonostante questo incidente sia stato così doloroso – ha commentato Nakate – ha cambiato la storia per diversi attivisti nel Sud del mondo. Penso che ciò che mi ha davvero aiutato a diventarequella che sono oggi sia il fatto che ho parlato e che le persone hanno risposto con il supporto».

Nel 2021 è uscito un suo libro, intitolato A bigger picture: my fight to bring a new African voice to the climate crisis. Feltrinelli ne pubblica l’edizione italiana – Aprite gli occhi: la mia lotta per dare una voce alla crisi climatica – nel 2022. Nel mese di maggio scorso, al salone del libro di Torino, Nakate ripete ancora una volta che la crisi climatica è anche una crisi migratoria, economica e di genere, che la lotta ambientale non si limita alle statistiche e ai numeri, ma deve essere una lotta sociale, che per ottenere giustizia climaticanon si possono ignorare le storie di coloro che subiscono le conseguenze dell’inquinamento sulla loro pelle senza avere gli stessi privilegi degli occidentali e che è indispensabile lasciare loro la parola. Fenomeni come il traffico di spose bambinee l’abbandono scolastico delle più giovani sono collegati al cambiamento climatico: le famiglie impoverite dalla desertificazione e dalla mancanza di risorse idriche sono spinte a prendere decisioni estreme.

Oladosu Adenike Titilope

La regione nord-orientale della Nigeria confina con il Lago Ciad, che fornisce acqua a circa 30 milioni di persone tra Nigeria, Niger, Ciad e Camerun. Dagli anni ’60, però, il lago, a causa del cambiamento climatico e dell’eccessiva estrazione, si è ridotto del 90%. La quantità di pioggia è diminuita e i singoli temporali sono diventati più intensi, con un aumento delle inondazioni estreme in gran parte del paese. Tali cambiamenti hanno avuto un forte impatto sull’agricoltura, un settore che costituisce una fonte primaria di reddito per il 70% della popolazione della Nigeria, e stanno causando la morte di buona parte del bestiame. Le preesistenti diseguaglianze legate al sesso sono amplificate dai cambiamenti climatici: nelle zone rurali è in aumento il numero delle ragazze costrette ad abbandonare il percorso scolastico e usate come merce di scambio, obbligate a sposarsi quando ancora non hanno l’età minima prevista dalla legge.

Commenta l’attivista nigeriana per l’uguaglianza e la costruzione della pace in Africa, eco-femminista e promotrice del movimento Fridays For Future Oladosu Adenike Titilope, in un’intervista del giugno 2022 [4]: “L’uguaglianza tra i generi può portare alla giustizia climatica e la giustizia climatica porta all’uguaglianza tra i generi ed entrambe le cose si muovono intorno allo sviluppo sostenibile. Raggiungendo uno di questi obiettivi si raggiungono anche gli altri. In definitiva, ha tutto a che fare con come il cambiamento climatico colpisce donne e ragazze […]. Credo che l’educazione sia uno strumento che dobbiamo dare a tutti: se uno non sa che c’è un problema è impossibile che lo risolva. Identificare il problema è il primo passo per trovare una soluzione. Così ho cominciato a lavorare nelle scuole […] ho cercato di attirare l’attenzione sul fatto che ci serviva un’azione più intensa. Tanti mi hanno seguito e sono felice che tanti giovani sono con noi. Penso al mio gruppo, ILeadClimate [5], che si impegna nelle crisi che ci riguardano in Africa. Siamo sempre di più, e ne sono felicissima. Quel che mi dà speranza è che il movimento ambientalista ha il volto di tanti giovani […] tutti si devono preoccupare del nostro pianeta […]. Ho letto che se eliminassimo la povertà le emissioni non subiranno conseguenze, perché le emissioni sono prodotte dai ricchi. Dobbiamo continuare a lavorare su queste disuguaglianze denunciando i ricchi che non si stanno impegnando a creare politiche adatte per compiere azioni utili.”

Wangari Maathai

Nel Kenya centro-settentrionale, la foresta Kirisia, circondata da terra arida, costituiva un’importante fonte di acqua per quasi 150.000 persone, oltre che per numerose specie di animali. L’aumento delle temperature medie, con stagioni delle piogge sempre più brevi ed eventi pluviali intensi sempre più improvvisi e frequenti, ha costretto le persone a rifugiarsi all’interno della foresta per sfuggire al caldo e alla siccità. Una volta avvenuto ciò, si è generato una sorta di circolo vizioso per cui le persone, per trovare una fonte di reddito, si dedicano a raccogliere e bruciare legno per produrre carbone, alimentando la deforestazione e la perdita della biodiversità.

Dal 1973 al 2015 la foresta ha perso circa il 21% della sua copertura arborea, con le maggiori perdite che hanno riguardato proprio le specie indigene come il sandalo e il cedro rosso, massicciamente usato sia come legna da ardere sia come materiale da costruzione. Le donne Samburu, riunite nella Community Forest Association, si occupano di tutelare la foresta seguendo rigidi protocolli delineati in un piano di gestione forestale che loro stesse hanno contribuito a redigere e che prevede, ad esempio, il divieto di abbattere alberi indigeni o di bruciare carbone. Nel contempo si è sviluppata l’apicoltura e la raccolta di gomma resina medicinale, così come la piantumazione di alberi che possano aiutare a recuperare la copertura arborea andata perduta nel corso degli anni.

L’origine dell’attenzione all’ambiente delle donne keniote è da far risalire all’attivismo della biologa ambientalista, impegnata per i diritti umani, Wangari Maathai e delle attiviste che nel 1989, al grido di no more grabbing (basta compravendita di terra), impedirono la distruzione dellaforesta di Karura, il bosco urbano di Nairobi. Attiva contro la deforestazione e lo sfruttamento del suolo, a lei va il merito di aver riconosciuto pubblicamente che la siccità e la povertà dei terreni non sono affatto un problema strutturale, ma politico [6].

L’attivismo di Wangari Maathai inizia nel 1977, quando incontra le donne Kikuyu angosciate per non avere più legna da ardere, né abbastanza acqua, né varietà di cibo tali da impedire ai bambini di ammalarsi di malnutrizione, e stanche perché tutto ciò significava camminare per chilometri ogni giorno, caricandosi addosso grossi pesi. Da questo incontro – con l’appoggio del Consiglio nazionale delle donne del Kenya di cui Maathai faceva parte, e di cui poi fu presidente – nacque il Green belt movement/Movimento della cintura verde basato sulla piantumazione di alberi autoctoni, pratica ancora usata da migliaia di attiviste per combattere la deforestazione e garantire la conservazione delle riserve d’acqua in Kenya. Nel 2002, quando il presidente Daniel Arap Moi, che l’aveva perseguitata arrestandola, denigrandola in discorsi pubblici e definendola una donna “pericolosa”, viene sconfitto alle elezioni, Wangari Maathai, la “combattente resiliente”, è eletta con il 98 per cento dei voti in parlamento, dove resterà in carica fino al 2007.

Nel frattempo diventa docente in conservazione delle foreste dell’Università di Yale, e consulente al Ministero dell’ambiente, delle risorse naturali e della fauna selvatica in Kenya. Grazie al suo impegno, più di 30 mila donne hanno ricevuto una formazione per la lavorazione dei generi alimentari, nella silvicoltura e nell’apicoltura, e molte comunità keniote coinvolte nel movimento hanno potuto prevenire attivamente il deterioramento ambientale e riparare i danni già provocati da anni di politiche di sfruttamento del territorio. Per il suo attivismo a favore dei diritti delle donne e contro la deforestazione, Wangari Maathai ha ottenuto il Premio Nobel per la Pace, assieme a numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio Global 500 del programma ONU per l’ambiente, il Goldman Enviromental Award, e il premio Africa per i leader [7].

Amina Jane Mohammed

L’Unione africana (Ua) ha da poco adottato una posizione comune per integrare l’uguaglianza di genere nell’agenda di azione per il clima. Nel video messaggio (diffuso nei Ted talks [8]) nell’ottobre del 2021, Una nuova prospettiva sul percorso verso il “net zero”, Amina Jane Mohammed, ex ministra nigeriana, vice segretaria generale delle Nazioni Unite e presidente del Gruppo per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, così si è espressa: “Purtroppo, in qualsiasi parte del mondo si sentono storie sempre più tragiche di devastazioni dovute al clima. Siccità, alluvioni, incendi. Mezzi di sussistenza in pericolo, vite destinate alla catastrofe. E tuttavia, nonostante tutto questo, ho ancora fiducia nella nostra famiglia umana. Perché? direte voi. È per la capacità degli esseri umani di sopravvivere contro ogni probabilità, quella che ha dato vita alla straordinaria promessa degli accordi ONU di Parigi, e il loro potere di sostenere i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per le persone e per il pianeta. La promessa di Parigi punta a limitare il riscaldamento globale a 1.5 gradi per assicurare la sopravvivenza della famiglia umana. Per raggiungere l’obiettivo, sappiamo esattamente cosa fare: dobbiamo de-carbonizzare l’economia mondiale entro il 2050, dimezzando le emissioni durante questo decennio. Dobbiamo consegnare il carbone alla storia, eliminandolo nei paesi ricchi entro il 2030 e in altri paesi entro il 2040. Il G20 produce l′80 per cento dell’inquinamento da gas serra e quindi anche questi 20 leader mondiali devono assumersi la responsabilità e dare l’esempio. Non dobbiamo più spendere trilioni per finanziare le fonti fossili, che ostruiscono i polmoni delle persone e distruggono foreste e oceani. E dobbiamo trovare le risorse necessarie per una transizione verde e blu giusta. Sappiamo che tutti questi sono elementi essenziali per raggiungere gli obiettivi degli accordi di Parigi. […]

“La Grande Muraglia Verde [9], un’idea nata in Africa più di 10 anni fa al confine con il Sahara, punta a fermare la desertificazione e ripristinare 100 milioni di ettari di terreni degradati dal Senegal a Ovest fino al Gibuti nel Corno d’Africa. È un piano ambizioso per piantare 100 milioni di alberi, migliorare la raccolta dell’acqua e l’uso del suolo. Chiaramente, i benefici climatici saranno enormi, ma va ben oltre l’obiettivo di tenere la sabbia nel deserto. Riguarda la creazione di un corridoio economico verde per più di mezzo miliardo di persone. Uomini, donne, bambini. Un corridoio che crei catene del valore locali, rafforzi le economie e promuova una forza lavoro giovane e in rapida crescita. E con la crescita di un’opportunità economica la speranza nel futuro si fa concreta per milioni di persone. E il terrorismo e l’estremismo arretrano.

“La Grande Muraglia Verde mi ispira perché rappresenta il potenziale umano. Un potenziale per amplificare la conoscenza profonda degli indigeni che sopravvivono e fioriscono in armonia con la natura. Un potenziale per sfruttare la tecnologia, per connettere e colmare il divario delle energie rinnovabili, in particolare per donne e ragazze. Un potenziale per trasformare i sistemi alimentari in modi che rendono le persone e il pianeta più sani”.

Conclusione, ancora in Africa

Dal 6 al 18 novembre 2022, l’Egitto ospiterà la prossima COP27, un’occasione per l’Africa di essere al centro degli sforzi globali per arginare gli effetti dei cambiamenti climatici, prendere nuovi impegni vincolanti di fuoriuscita dalle fonti fossili ed evitare il riproporsi di pratiche neo-coloniali. Tuttavia, secondo Cristiana Fiamingo, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università Statale di Milano, “si ha la sensazione che non si parta proprio col piede giusto, soprattutto a causa delle crisi globali che stanno concatenandosi senza soluzione di continuità. […]È giusto che l’Africa aiuti se stessa, reinvestendo nei diversi settori per garantire una qualità di vita dignitosa a tutti i propri abitanti, riducendo al possibile, sul fronte esterno, la dipendenza dagli aiuti internazionali”. Tuttavia è necessario “che tra le restituzioni dovute a questo continente, per lo sfruttamento continuo che subisce senza soluzione di continuità e per il salvagente che garantisce al Nord globale, anche nella crisi corrente, vi sia una condivisione di responsabilità nel cooperare” in modo tale che “[…] dove sono maggiori i rischi […] si intervenga con il rafforzamento tecnologico necessario e relativo know-how che permetta l’adattamento e un rallentamento degli effetti del cambiamento climatico» [10]. Come già segnalato, la crescita demografica del continente porterà a un incremento della competizione per risorse sempre più scarse e provocherà un ulteriore aumento delle migrazioni; esiste, inoltre, il rischio che le enormi risorse di gas naturale al largo delle coste africane vengano sfruttate a fini commerciali.

Infine un dato di carattere generale. Secondo un sondaggio svolto dal Women’s forum nel 2021 [11], su quasi diecimila persone nei paesi del G20, le donne hanno cambiato le proprie abitudini più degli uomini per contrastare i cambiamenti climatici e più facilmente degli uomini sono motivabili a farlo, anche se, malgrado ciò, rimangono sottorappresentate negli organi decisionali [12]. La natura politica del cambiamento climatico, oltre a far riflettere su quali vite pagheranno il costo dell’adattamento a un pianeta surriscaldato [13], rende necessaria una rivoluzione culturale, che consenta di superare la logica della dominazione radicata nell’antropocentrismo del pensiero occidentale. Nel tempo che verrà si potrà scegliere tra una sovranità planetaria di stampo dittatoriale, non democratica, che garantisca la sicurezza a discapito della libertà, o un paradigma politico radicalmente nuovo [14], [15].

Note e riferimenti

[1] https://piazzadivittorio.it/index.php/2018/05/06/il-land-grabbing-gli-stati-ricchi-depredano-i-contadini/.

[2] per approfondire si vedano ad esempio: https://www.focsiv.it/tag/land-grabbing/; https://www.focsiv.it/primo-capitolo-del-rapporto-un-anno-di-land-grabbing/; https://valori.it/land-grabbing-focsiv-padroni-della-terra/; https://resoilfoundation.org/inchieste/land-grabbing-accaparramento-terre-dati-2022/; https://www.huffingtonpost.it/dossier/terra/2022/06/28/news/il_land_grabbing_vola_spinto_dalla_crisi_alimentare_ed_energetica-9718880/ (siti consultati nel settembre 2022).

[3] J.B.Foster.Nature as a Mode of Accumulation: capitalism and the Financialization of the Earth12.Montly Review, 73(10) 2022, https://monthlyreview.org/2022/03/01/.

[4] https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/ecofemminismo-adenike-oladosu-m848bgjs.

[5] Movimento di giovani per diffondere conoscenza dei temi ambientali.

[6] https://www.ingenere.it/articoli/pioniere-wangari-maathai-e-le-guardiane-dei-boschi.

[7] Dal marzo 2012 l’associazione A Sud, in collaborazione con la Casa Internazionale delle Donne di Roma e con il contributo e il patrocinio della Commissione delle Elette del Comune di Roma, promuove il premio “Donne, pace e ambiente Wangari Maathai”. In occasione dell’iniziativa, che si tiene annualmente nelle giornate attorno all’8 marzo, presso la sede della Casa Internazionale delle Donne a Roma, viene consegnato un riconoscimento ad attiviste italiane che lottano per la difesa dei diritti di cittadini/e, dei territori e degli animali.

[8] TED è un’organizzazione no profit che condivide idee e riflessioni che spaziano dalla scienza alla società, dall’uguaglianza all’innovazione, dall’arte alle differenze culturali con discorsi brevichiamati “TED talks”.

[9] Per approfondire: https://greenreport.it/news/aree-protette-e-biodiversita/la-grande-muraglia-verde-del-sahel-e-economicamente-vantaggiosa/; https://www.cinemafricabo.it/?page_id=416; https://www.youtube.com/watch?v=ML_4hf3wUg8; https://www.geopolitica.info/grande-muraglia-verde-sfida-ecologica-nostro-tempo/ (siti consultati nel settembre 2022).

[10] https://www.ohga.it/alla-african-cop-egiziana-di-sharm-el-sheikh-sara-in-gioco-il-futuro-del-continente-tra-giustizia-climatica-e-nuovo-colonialismo/.

[11] https://www.womens-forum.com/wp-content/uploads/2020/06/WF_General-Presentation_050221_compressed.pdf; https://alumni.polimi.it/2021/10/13/womens-forum-g20-levento-internazionale-ospitato-al-politecnico/

[12] Può essere d’interesse la lettura del libro Spigolatrici di ambiente. Il contributo delle donne ai cambiamenti climatici (Libreria Editrice Fiorentina,2021), a cura di Pinuccia Montanari (coordinatrice scientifica Ecoistituto REGE, Ecoistituto Reggio Emilia-Genova Centro di Diritto Ambientale) che contiene un’analisi della molteplicità dei percorsi teorici, dall’ecofemminismo – che si fonda sull’incontro tra femminismo ed ecologia per combattere la comune oppressione delle donne e della natura – fino a indirizzi di pensiero e pratica di azione, quali la coscienza del limite e il principio di precauzione, che pervengono a un’etica ecologica della cura, superando la prospettiva individualistica, per divenire responsabili del destino dell’aria, dell’acqua, della terra, schiudendo una nuova idea di cittadinanza fondata sull’etica della sostenibilità, dove la cura è centrale non solo per le donne, ma per l’umanità intera e gli ecosistemi.

[13] https://www.infoaut.org/approfondimenti/fermarli-per-una-giusta-transizione-finanziamento-dei-combustibili-fossili-in-africa.

[14] Geoff Mann, Joel Wainwright, Il Nuovo leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico, trad. it di Fabio Deotto, Roma, Treccani, 2020; https://www.aiccre.it/.

[15] https://www.greeneuropeanjournal.eu/hannah-arendt-lanimale-politico-nel-ventunesimo-secolo/

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