Tutti, in ogni contesto, applichiamo o subiamo tecniche di management, cioè di guida, di indirizzo, di governo eteronomo delle vite altrui, compresa la nostra. Per capire come questo avvenga possiamo leggere testi di management, certo; ma anche – e molto meglio – il Foucault di Sicurezza, territorio, popolazione o di Nascita della biopolitica, tenendo però ben aperto il fondamentale Sorvegliare e punire, senza il quale non si comprende nulla di management. Ma potremmo/dovremmo anche rileggere gli altrettanto fondamentali Marcuse de L’uomo a una dimensione e Horkheimer di Eclisse della ragione. Per non parlare di Marx.
Ma cos’è il management? Da dove nasce, con quali scopi, quali tecniche psicologiche incorpora e utilizza per guidare un popolo di fabbrica o fuori da una fabbrica (pensiamo al populismo, ma non solo)? Da poco è uscito un libro importante e insieme inquietante che ci permette di riflettere su cosa sia il management. Libro di cui non diciamo ancora il titolo né il contenuto.
Prima ricapitoliamo dicendo che il management è molte cose, anche riuscire a pagare zero tasse pur generando 315 miliardi di profitti (pari al 75% del Pil) come Microsoft in Irlanda (notizia della settimana scorsa).
Ma qui lo intendiamo come la tecnica – o se si preferisce la forma e la norma – con cui si organizza, integra e sincronizza il lavoro di uomini e macchine dentro a un’impresa, ma anche fuori dall’impresa classica e pensiamo a quelle fabbriche virtuali che sono le piattaforme e i social; tecniche psicologiche con cui l’impresa comanda su questo lavoro e con cui sorveglia e controlla e valuta/misura come viene eseguito il lavoro e la produttività dei singoli lavoratori. Perché il management ha come obiettivo quello di ottenere il massimo di efficienza (e quindi di profitto) per l’organizzazione. Ed era management l’Organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, lo era il modello Toyota, lo è il World class manufacturing, lo sono gli algoritmi di oggi.
Obiettivo del management è infatti quello di portare/indurre chi lavora (uomini e macchine ibridate con gli uomini, uomini organizzati/comandati/controllati da un algoritmo) a un sempre di più in termini di produttività/efficienza, accrescendo (ma nascondendolo) il pluslavoro dell’uomo per accrescere (nascondendolo) il plusvalore/profitto dell’impresa. E questo obiettivo lo ottiene in vari modi, diversi ma tutti basati sulla logica dello stimolo/risposta (anche la dopamina che si attiva ad ogni like – lavorando in un social producendo dati su se stessi – è basata sullo stimolo/risposta) e di creazione di automatismi comportamentali, sempre in nome dell’efficienza. In più – e sempre più – condividendo la mission dell’impresa o della piattaforma, identificandosi con l’impresa/piattaforma-social.
Il management serve quindi a creare un soggetto produttivo di beni e servizi, di consumi, di dati attraverso i social, sempre più veloce, sempre meno consapevole della propria alienazione, quindi sempre più efficiente e a tempi ciclo (grazie alle nuove tecnologie), sempre più accelerati e intensificati. Perché la tecnologia non è solo macchine, ma le macchine incorporano in sé e determinano forme specifiche di organizzazione e di management (oggi, appunto, anche algoritmico).
E se quello di Taylor era un management basato sul condizionamento mediante un comando esplicito e una rigida disciplina dei lavoratori (per un lavorare other directed, tra mansionari e controllo dei tempi e dei metodi), sempre più oggi il management si basa sulla motivazione e sul consenso del lavoratore e quindi sulla attivazione di una sua auto-motivazione-comando-implicito/interiorizzato (un lavorare inner directed), portato cioè a introiettare l’organizzazione, il comando e la sorveglianza e a credersi quindi un collaboratore dell’impresa, semmai aiutato da un manager che non è un capo che impone, ma un leader che motiva.
Ovvero: dal management al self-management. Di una persona diventata capitale umano e impresa di se stesso, anche se è comunque sub-ordinato all’organizzazione, al comando e al controllo – erano e sono le funzioni specifiche del capitalismo, secondo Marx – da parte dell’impresa/fabbrica anche quando è una piattaforma. Ed è quindi evidente che anche i comportamenti motivati/auto-motiva(n)ti, apparentemente autonomi e liberi, sono in realtà frutto di una azione di condizionamento e di eterodirezione sul lavoratore. Appunto e sempre, di management.
E veniamo al libro del francese Johann Chapoutot, dal titolo Nazismo e management. Liberi di obbedire, recentemente pubblicato da Einaudi (pag. 125, € 15,50).
Un libro che è la storia della via nazista al management e che trova una sua particolare incarnazione in Reinhard Höhn (1904-2000), tecnocrate nazista al servizio del Terzo Reich e che dopo alcuni anni dalla fine della guerra fonda un istituto di formazione al management, a Bad Harzburg e per la quale transiterà (si formerà) poi la gran parte del management d’impresa della Germania e dove Höhn trasferisce, insegnandole, le tecniche di management definite durante il nazismo. E in decine di opere e in migliaia di seminari Höhn trasforma l’Auftragstaktik in un management per delega, apparentemente antiautoritario e democratico. Ma cos’è l’Auftragstaktik? Serviva, ricorda Chapoutot,“per far assaporare ai sottufficiali e ai soldati un po’ di ebbrezza di autonomia; [cioè] gli ordini dovevano essere vaghi e generali, limitarsi a fissare obiettivi (prendere la tal collina prima dell’imbrunire, ad esempio): a chi li riceveva, la libertà di scegliere la via, il mezzo e il metodo adatti per raggiungerlo”. Liberi di obbedire, appunto.
Una forma di management valido non solo per l’esercito ma anche per l’industria: perché (scrive sempre Chapoutot) anche “la produzione tedesca aveva bisogno di operai e impiegati convinti della necessità del loro compito e capaci di lavorare con entusiasmo. La Menschenführung (direzione degli uomini) nazista doveva prendere il posto della Verwaltung (amministrazione) rigida e autoritaria dei tempi passati, poiché la forza lavoro, vale a dire il capitale o materiale umano (Menschenmaterial), poteva essere pienamente efficace e redditizia solo se libera e felice, autonoma e piena di iniziativa – o quanto meno se aveva l’illusione di esserlo”.
“Essere redditizi/efficienti/produttivi […]” – continua Chapoutot – “e affermarsi […] in un universo concorrenziale […] per trionfare […] nella lotta per la vita […]: questi vocaboli tipici del pensiero nazista furono i vocaboli di Höhn dopo il 1945, così come oggi sono troppo spesso anche i nostri. […] Non dobbiamo forse, macchine tra le macchine, indurirci come acciaio dentro a veri e propri sportifici? Non dobbiamo lottare ed essere dei veri combattenti? Non dobbiamo forse gestire le nostre vite, i nostri affetti e le nostre emozioni e dimostrarci efficienti nella guerra economica? Sono idee che comportano la reificazione di sé, dell’altro e del mondo – la trasformazione generalizzata di ogni esistenza, di ogni essere, in oggetti, in fattori (di produzione), fino all’esaurimento e alla devastazione”. Ma se questo è vero (ed è vero) dovremmo allora porci la domanda, con Chapoutot: come è stato possibile che non vi sia stata discontinuità tra le tecniche del management nazista e quelle del post-1945, semmai anche oggi replicando nella sostanza quelle stesse tecniche? E perché, alla morte di Höhn, “i necrologi delle grandi testate della stampa tedesca salutarono il manager di genio, l’insegnante di talento e l’infaticabile ricercatore”?
Diciamo allora che nel libro di Chapoutot troviamo la conferma che il (tecno)capitalismo ha l’incredibile capacità di presentarsi sempre nuovo anche quando produce per sé solo delle narrazioni che potremmo definire di new-washing, per un se stesso offerto cioè come sempre nuovo (da ultimo le retoriche su un cambio di paradigma prodotto dalla digitalizzazione), in realtà sempre uguale. Anche nel management. Management che è poi la forma e la norma con cui si realizza (si ingegnerizza negli uomini) l’adattamento continuo a una irrazionale razionalità strumentale/calcolante-industriale-capitalista produttrice però di alti profitti.
E dunque – Chapoutot in conclusione del libro: “Spingendo a estremi inediti la distruzione della natura e lo sfruttamento della forza vitale, i nazisti appaiono ai nostri occhi come l’immagine deformata e rivelatrice di una modernità divenuta folle – sostenuta da illusioni (la vittoria finale [per i nazisti]), o la ripresa della crescita [per i neoliberali e il tecno-capitalismo], o da menzogne (libertà, autonomia) – di cui alcuni teorici del management come Reinhard Höhn sono stati gli abili artefici”.
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