Nel suo ultimo libro “Il mestiere della sinistra” (ed. Castelvecchi, Roma 2022) Fassina rielabora l’insieme delle sue posizioni alla luce – livida – di quest’ultima fase della crisi globale. Posizioni che ruotano, anche in quest’opera, intorno a un impianto concettuale fondato sulla centralità del lavoro e del suo rapporto col capitale. Questo impianto, un tempo tradizionale per la sinistra, ora viene riproposto da Fassina innestandovi altre linee di pensiero spesso originali e talvolta problematiche, dunque assai utili nella discussione che si è avviata dopo la sconfitta elettorale.
Prima di entrare nel merito, sia consentita una notazione sull’approccio seguito dall’autore nel metodo, ovvero l’interazione dialettica tra le dinamiche dell’economia e quelle della politica, tra gli interessi materiali, oggettivi, e gli atteggiamenti soggettivi della cultura politica e del senso comune. Nella migliore tradizione del pensiero critico di questo Paese, da Gramsci in poi, contrapponendosi all’assunzione dell’economia nella sfera superiore delle “scienze” perché fondata su leggi oggettive per cui there is no alternative, l’economista Fassina rilancia il ruolo della politica a partire dalla centralità del lavoro, non solo come policy da perseguire, ma come connotazione fondamentale della persona umana e perciò grande soggetto collettivo della vita economica e sociale.
Questo tema è stato già affrontato da Fassina nell’opera “Il lavoro prima di tutto” (ed. Donzelli, Roma 2013) dopo la prima, grande recessione del nuovo millennio. Lì cita Warren Buffett, miliardario statunitense, per il quale “c’è stata una guerra di classe negli ultimi venti anni e la mia classe ha vinto”. Qui lo riprende, sottolineando che le condizioni della classe lavoratrice sono ancora peggiorate, dopo la pandemia e lo scoppio della guerra.
La vittoria del capitale finanziario è nata dall’intreccio tra la globalizzazione – ovvero la liberalizzazione dei flussi di capitali, persone, merci e servizi al di là dei confini tra le nazioni – e lo sviluppo delle tecnologie informatiche, regolate solo dai capitali di controllo e dai mercati, con un gigantesco impatto su tutti i processi di produzione. Questa vittoria, secondo Fassina, è diventata cultura anche a sinistra. L’egemonia liberista ha affermato come interesse generale l’ampliamento dei mercati, le privatizzazioni, la crescita dei profitti, mettendo in ombra le persone in carne e ossa che producono merci, servizi, valore. Sostenendo che non c’è più la “classe lavoratrice”, mentre in Italia – ricorda Fassina – i lavoratori dipendenti sono comunque il 77% degli occupati, al quale occorre aggiungere gli autonomi parasubordinati e tutti i piccoli lavoratori autonomi che non controllano le condizioni della propria attività lavorativa, affidate al “mercato”. Un insieme certo disarticolato e frastagliato, in ogni caso direttamente o indirettamente produttivo di valore economico per i padroni del vapore. Questa fondamentale contraddizione tra capitale e lavoro è rimasta sostanzialmente la stessa, sia pure con sviluppi e ramificazioni in forme diverse, comunque aggravanti lo sbilanciamento del rapporto a danno del lavoro. Di fronte ai gravi squilibri che ne sono derivati la cultura liberista è riuscita a spostare su alcuni di questi l’attenzione della politica e dell’opinione pubblica, mettendo in ombra la contraddizione di fondo. Per cui, ad esempio, il PNRR si propone di affrontare le disuguaglianze di genere, territoriali, di età, ma non di riequilibrare la distribuzione del valore prodotto tra capitale e lavoro. Oppure, più in particolare, di porre la salvaguardia dell’occupazione come obiettivo dei processi della transizione digitale.
Questo è il nocciolo delle tesi di Fassina sulla centralità del lavoro, ampiamente condivise. Su questo si innestano altri ragionamenti e posizioni più problematiche e più discusse, a partire da una visione antropologica della totalità della persona, vista in primo luogo come “contributore”, in rapporto con la comunità, come lavoratore e solo alla fine come consumatore. Contro il paradigma consumerista della sovranità del singolo consumatore, indotto dall’ideologia dominante dell’individualismo mercantilista. E in sintonia con la visione religiosa di Papa Francesco espressa nella “Laudato si”, con la conseguente possibilità di una forte alleanza con l’ala progressista dei cattolici sui temi del lavoro e dell’ambiente. A condizione – secondo Fassina – di superare alcune contraddizioni indotte a sinistra da una concezione libertaria dell’identità sessuale, manifestatasi nell’ideologia del gender, o del diritto alla procreazione mercatizzato dall’utero in affitto. Posizioni che Fassina ha affermato e difeso in coerenza con la sua impostazione di fondo, antiliberista e antindividualista. Si tratta di temi di grande profondità e complessità, che in questa sede ci si limita a citare per potersi concentrare su altre questioni di impatto politico più generale.
La più nota, e anch’essa controversa, riguarda le criticità del funzionamento delle istituzioni europee e della moneta unica. Questione centrale, oggi attualissima ma all’origine di buona parte dei problemi esistenti, e scarsamente analizzata ed elaborata a sinistra. In questo libro Fassina si esprime chiaramente per l’inevitabilità, a suo tempo, dell’ingresso nella moneta unica, così come si pronuncia per la permanenza dell’Italia nell’Unione dopo le scelte compiute dalla BCE sul quantitative easing e dalla Commissione sul debito comune a finanziamento del Next Generation EU. Come sintetizza efficacemente, il punto non è “se” stare in Europa, ma “come”. Al riguardo mette a fuoco con precisione le ragioni di fondo del suo atteggiamento critico verso l’Unione europea come contenitore politico del mercato unico nel quale assicurare la massima libertà di movimento ai capitali, alle persone, alle merci, ai servizi. Fin dall’inizio il processo di unificazione si qualificò in termini di Mercato comune europeo, ma è stato con l’Atto Unico del 1986 che le quattro libertà di movimento sono diventate pressoché assolute, finendo col comprimere i diritti sociali. Una norma chiave dell’Atto è l’art. 13 in base al quale, al fine di raggiungere la massima liberalizzazione possibile dei movimenti di capitali, le direttive del Consiglio relative al superamento di restrizioni in atto vengono adottate a maggioranza qualificata, mentre per quelle riguardanti l’introduzione di nuove restrizioni restano vincolate all’unanimità. Sciogliere di più è possibile, vincolare di più è (quasi) impossibile. Questo indirizzo generale si è manifestato in una serie di direttive relative alle imprese, con la libertà di stabilirsi in un paese portandosi dietro il regime giuridico e contrattuale dello Stato di provenienza mentre il regime fiscale può essere quello dello Stato di arrivo. Libertà che hanno portato a un dumping fiscale a danno degli Stati e a un dumping sociale a danno dei lavoratori, ovvero l’allineamento al ribasso sia dei salari sia delle condizioni di lavoro, perché questa estrema liberalizzazione ha investito paesi aventi sistemi di welfare e livelli di rapporti sociali ben diversi. Diversità che erano relative in una Unione limitata ai paesi fondatori e a pochi altri, con rapporti sociali e sistemi di welfare evoluti e simili, ma divenute troppo ampie e perciò insostenibili quando l’Unione, negli anni ’90, si è allargata ai Paesi dell’est postcomunista, con bassi salari e sistemi di welfare ristrutturati in senso liberista dalle condizioni imposte a questi paesi per l’ingresso nell’Unione medesima. È qui la radice primaria della forte criticità nei confronti dell’unificazione europea assunta da gran parte dell’opinione pubblica dei diversi paesi, oltre che negli egoismi nazionali in materia di finanza pubblica e privata manifestati dai paesi dell’Europa del Nord, che pure hanno pesato e continuano a pesare. Questa contraddizione di fondo si è tradotta sul piano giuridico in contrasti tra norme comunitarie, anche dei Trattati, e norme espresse dalle Costituzioni dei vari Stati, perché queste sono improntate da un principio di socialità che nelle prime, quando c’è, è comunque subordinato a quello del libero mercato. Come s’è detto, infatti, i Trattati e le normative conseguenti si pongono come obiettivo fondamentale la piena libertà dei flussi di capitali, persone, merci e servizi. Numerose pronunce della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti umani hanno affermato il primato, nell’ordinamento europeo, delle libertà economiche e della proprietà privata sui diritti sociali, anche se protetti dalle Costituzioni nazionali. Per contro, la nostra Corte costituzionale, come anche altre, si è riconosciuta il potere di sindacare la normativa europea quando questa viola i diritti della persona previsti dalla Carta. Il che, in termini di diritto costituzionale, è più che comprensibile, come dimostrano le numerose citazioni di autorevoli costituzionalisti riportate da Fassina. L’Unione europea non è un’entità statale, sia pure federale, dotata di una propria Costituzione sovraordinata a quelle nazionali così come la Costituzione italiana è sovraordinata allo Statuto di una Regione. Perciò, in assenza di una Costituzione europea la nostra Carta rimane il punto di riferimento più alto per tutte le norme che si applicano nel nostro Paese. E i Trattati – pur se richiamati dalla Costituzione per quanto riguarda il loro rispetto – stanno un gradino sotto, giuridicamente e istituzionalmente. Politicamente è un problema serio, risolvibile solo nella misura in cui si ritenga che il principio sociale sia anch’esso alla base dei Trattati, come accennato da alcune norme di questi e ripreso in alcune direttive. Ma per rendere effettivo questo orientamento, anche nella sfera della giurisdizione, occorre che le istituzioni europee operino una svolta. In quali termini? La proposta al riguardo appare meditata e articolata. Da un lato, considerando le difficoltà di una modifica strutturale dei Trattati a partire dalla necessaria unanimità delle deliberazioni relative, Fassina consiglia di intervenire negli spazi di interpretazione dei medesimi, con direttive che spostino la regolazione, quando possibile, in senso sociale. Ovvero, di una limitazione del primato della concorrenza alla concorrenza tra le imprese, evitando per quanto possibile che diventi concorrenza al ribasso tra sistemi nazionali di welfare, o di tutela ambientale. Si tratta di un punto politico fondamentale, e dunque è questione di volontà politica. Gli spazi ci sono: Fassina elenca una serie di Direttive importanti, alcune già parzialmente migliorate, suscettibili di modifiche anche forti in senso sociale: la Direttiva “posted workers” (96/71/CE), la Direttiva sul riconoscimento delle qualifiche professionali (2005/36/CE), la Direttiva “mobility package” (UE/2020/1057) e, naturalmente, la famosa Direttiva Bolkenstein (2006/123/CE). V’è, poi, la questione della tassazione, per superare lo scandalo dei paradisi fiscali all’interno della UE.
Infine, vanno regolati diversamente i quattro flussi tra la UE e le altre regioni del mondo, intervenendo politicamente sui mercati come appena fatto per le sanzioni alla Russia, innanzitutto per evitare il “dumping” ambientale, ovvero l’importazione di merci da Stati che hanno standard ambientali meno rigorosi di quelli vigenti nell’Unione per quelle stesse merci. Anche queste modifiche cruciali possono realizzarsi nell’ambito dei Trattati esistenti, ma va ricordato che in materia fiscale occorre comunque l’unanimità, non per caso. Al riguardo, per mettere in atto una strategia coordinata ed efficace occorre una iniziativa politica forte ed esplicita, con un movimento unitario nei diversi Paesi che coinvolga sindacati, associazioni ambientaliste e di consumatori, intellettuali, forze politiche progressiste, creando convergenze con altre forze politiche aventi sensibilità sociali ed ambientali. E questo è l’aspetto politicamente più interessante della proposta.
L’altro progetto ipotizzato da Fassina è un avanzamento selettivo del processo di unificazione delle politiche più importanti, limitato ai Paesi fondatori ed a quelli mediterranei, considerando la diversa situazione sociale e politica dei Paesi dell’Europa dell’est. In pratica un’Europa a due velocità, attraverso forme di cooperazione rafforzata nelle politiche economiche e fiscali, e anche nel campo della politica estera e di difesa comune. Una impostazione realistica che consentirebbe di superare l’idealismo improduttivo dell’Europa “a prescindere” proprio della sinistra liberale. Questo avanzamento dell’unificazione tra i Paesi fondatori dovrebbe fondarsi, secondo Fassina, su una concezione della sovranità condivisa tra le diverse democrazie nazionali che appare meritevole di approfondimento. Tuttavia Fassina esprime, alla fine di questa trattazione, una posizione pessimista sulle possibilità di realizzare effettivamente questa parziale cessione di sovranità da parte di paesi come la Francia in materia di politica estera e di difesa, o come la Germania in materia di politiche economiche. Più che “affidarsi all’astuzia della Storia”, come fa l’autore, si tratta di attivare quell’iniziativa politica comune già prospettata a proposito della modifica delle Direttive, considerando che gli interessi fondamentali del popolo francese o di quello tedesco, così come di quello italiano, vengono sempre più indirizzati dal precipitare della crisi non solo verso il riequilibrio dei diritti sociali rispetto alla libertà dei mercati, ma anche verso l’affermazione, in un mondo multipolare, dell’Europa come polo a sé stante, orientato a una politica di cooperazione con gli altri poli e potenze, più che a una politica di conflitti. Dall’Ucraina al riscaldamento globale, cosa conviene ai popoli d’Europa è sempre più evidente, ma occorre, anche qui, un salto di qualità nella consapevolezza e nell’azione politica.
In questa prospettazione delle problematiche europee si coglie, al di là delle questioni di merito, un atteggiamento di fondo che sta alla base anche degli altri ragionamenti sviluppati da Fassina, ovvero la forte considerazione dei motivi oggettivi e soggettivi, economici e culturali, del distacco delle masse popolari dalla sinistra e del loro scivolare verso posizioni di astensionismo o di consenso alla destra. Questa è l’altra grande ragione di interesse nei confronti de “Il mestiere della sinistra”, che dovrebbe essere, per l’appunto, quello di riconnettersi con le masse popolari attraverso “Il ritorno della politica”. Fassina individua, così, il vero punto di svolta, da realizzare superando l’accettazione acritica del there is no alternative, ovvero la subordinazione al liberismo e al mercatismo, sottraendosi alla crescente influenza culturale e politica delle fondazioni e delle reti portatrici degli interessi del grande capitale. Con una affermazione di piena autonomia della politica nella realizzazione degli interessi generali della comunità a partire dal lavoro, nella sua perdurante contrapposizione dialettica al capitale, considerando i bisogni e le esigenze espresse dalla maggioranza della popolazione in termini, per l’appunto, politici, e non meramente etici.
Si è detto della UE. Un’altra questione importante è l’immigrazione, ovvero il flusso di persone in entrata dal Sud del mondo, rispetto al quale, secondo Fassina, non si può non tener conto della necessità della regolazione. Come per gli altri flussi, di capitali, merci, servizi, la liberalizzazione incontrollata produce seri squilibri e forti reazioni. Per le persone la regolazione è certo più difficile, ma resta indispensabile sia per rendere possibile e sostenibile l’integrazione degli immigrati, sia per superare le ragioni dell’opposizione dei ceti popolari nei confronti dell’accoglienza. Ragioni che sono economiche, come la concorrenza sul mercato del lavoro o nella fruizione dei servizi sociali, e insieme culturali, di difesa della propria identità e della propria sicurezza. Perciò, le posizioni sul “diritto a emigrare” o l’atteggiamento “accogliamoli tutti”, pur nobili sul piano etico, appaiono scarsamente sostenibili sul piano politico. Fermo restando il dovere del salvataggio e quello della prima assistenza, e la necessità dell’integrazione dei migranti stabilizzati a partire dallo ius scholae, per Fassina la chiave del problema sta nel rilancio della cooperazione internazionale. Questa è indispensabile per ridurre il divario tra Nord e Sud, intervenendo nelle specifiche situazioni di crisi, nonché, a livello di UE, per assicurare una equa distribuzione dei nuovi arrivi. Occorre aggiungere che la cooperazione può risolvere, soprattutto attraverso l’UNHCR, il problema dell’assistenza ai migranti in attesa di partire, in centri di raccolta sottratti ai trafficanti e alle bande armate. E che potrebbe gestire il ritorno nei paesi di partenza dei migranti che scelgono di rientrare, o che comunque si trovano in situazioni di inapplicabilità dell’art. 35 della Costituzione e in eccedenza rispetto ai piani di integrazione.
Questa formula, cooperazione internazionale più regolazione del flusso e dei suoi effetti, può dare una risposta alle paure dei ceti popolari sul piano dei bisogni materiali e di quello, collegato, della sicurezza. Sul piano dello smarrimento identitario Fassina propone il rilancio dell’identità nazionale in versione democratica, in termini di “Patria e Costituzione”. La ripresa in positivo del termine “Patria”, vergognosamente abusato dal fascismo, è uno degli aspetti più controversi, a sinistra, del pensiero di Fassina. Al di là del termine, in ogni caso, l’affermazione di una identità nazionale, democratica e aperta, anche perché componente di una identità europea in via di costruzione, può rappresentare un importante gancio di collegamento col senso comune del Paese.
Un’altra questione che Fassina affronta in termini di considerazione delle esigenze e dei bisogni dei ceti popolari è quella che riguarda i vari segmenti del lavoro autonomo e della piccola impresa. Anche qui sono venute forti critiche sulla proposta di tollerare l’“evasione di necessità”. E tuttavia, anche qui, al di là della correttezza della proposta specifica, Fassina coglie un aspetto politico fondamentale, ovvero la necessità di considerare anche queste categorie nell’ambito del lavoro per sottrarle alla rappresentazione dominante, anche nelle medesime, che le colloca nell’area dell’impresa e dunque del capitale. Con l’illusione di essere “imprenditori” o almeno “imprenditori di sé stessi” il liberismo li ha attirati nello schieramento proprietario contro le tasse, contro lo Stato, contro gli esclusi. E infine contro i loro stessi interessi, come la crisi rende sempre più evidente.
Assai centrata, infine, appare la postfazione di Mario Tronti. Suggestiva è l’evocazione di un’Europa che non è solo Occidente ma anche Oriente, non muro ma ponte, anche verso il Sud del mondo. Visione profonda, in aperta contrapposizione con l’euroatlantismo delle classi dirigenti. Chiaro e forte, soprattutto, il richiamo alla necessità del conflitto tra classi lavoratrici e grande capitale. Tronti ricorda che lo Stato sociale si è realizzato, in Occidente, per la presenza dell’URSS a livello globale e per le iniziative di un robusto movimento operaio nei singoli Stati. Ne deduce che oggi, per contrastare il capitalismo, è necessario che torni in campo una Sinistra di popolo. Perché il riformismo, senza una prospettiva rivoluzionaria, non ottiene neppure il poco che chiede.
Anche per questo “Commento” di Tronti, una valutazione conclusiva di questo libro non può che rimarcarne l’importanza per la discussione apertasi a sinistra dopo l’ultima sconfitta elettorale. Come già rilevato, sono l’originalità e la problematicità di molte delle tesi sostenute da Fassina che possono contribuire al superamento di carenze e di atteggiamenti consolidati, alla radice delle débacles che hanno portato la destra postfascista alla direzione del Paese. Ad avviso di chi scrive, gli snodi chiave tra questo libro e la discussione in atto sono tre. Il primo è il possibile superamento della spaccatura tra il sovranismo di sinistra e l’europeismo “a prescindere” dell’acquiescenza sostanziale alla linea liberista di Bruxelles, anche mascherata da pulsioni idealiste verso una revisione generale dei Trattati. Fassina, invece, al netto di un suo scetticismo di fondo, produce elementi utili alla definizione di un indirizzo politico realistico verso la definizione di un’Europa diversa, più attenta alle esigenze dei popoli e ai diritti del lavoro e meno subalterna alle dinamiche del capitalismo finanziario.
Il secondo è la centralità del lavoro, da affermare rispetto all’egemonia del capitale che parte dall’impresa, si estende alla società, arriva allo Stato attraverso la politica, e che va riequilibrata col conflitto evocato da Tronti non solo per ragioni di giustizia sociale, ma per contrastarne le dinamiche distruttive dell’ambiente e della convivenza tra i popoli. Questione ben presente a sinistra, ma che va richiamata con forza in primo luogo rispetto al Congresso del PD e all’identità di un Partito fondato dall’origine sul “ma anche”, ovvero su una sommatoria interclassista che ha finito con l’espellerne la presenza del lavoro e delle periferie sociali. Inoltre, va rappresentata anche nei confronti del processo di trasformazione del M5S in un partito progressista, per aiutarlo a superare le ambiguità derivanti dall’originaria impostazione populista.
La terza questione è la ricostruzione di un rapporto di massa con i ceti popolari e i ceti medi in crisi, riconoscendone bisogni ed esigenze all’interno di una rappresentazione complessiva fondata sulla centralità della contraddizione tra capitale e lavoro. Così da costruire uno schieramento sociale che metta insieme lavoro dipendente, lavoro autonomo, ceti medi intellettuali, giovani disoccupati, piccola impresa. Occorre partire, tuttavia, dai bisogni materiali, oggi esacerbati dalla crisi, per arrivare alle esigenze più profonde di sicurezza e di identità. Queste, in particolare, vanno riorientate capovolgendole dalla conflittualità verso gli ultimi, alimentata dalla destra, al conflitto con le dinamiche innescate dai grandi capitali nell’economia e nella società. Soprattutto per la sinistra, il superamento di atteggiamenti elitari e il riconoscimento di queste esigenze profonde costituisce un punto decisivo per ricostruire un rapporto politico coi ceti popolari. Fassina, al riguardo, fornisce le indicazioni di cui s’è detto, cogliendo appieno l’importanza dello Stato e del suo ruolo di regolazione come primo fondamento della sicurezza dei cittadini. A questo riguardo, tuttavia, ad avviso di chi scrive viene fuori una carenza relativa al fisco, aspetto cruciale della contraddizione tra grande capitale e interessi popolari, manifestato dalla tendenza generale alla riduzione dell’imposizione fiscale sui ceti più ricchi prodotta dall’affermazione del neoliberismo. In questa situazione di crisi nel nostro Paese, tradizionalmente assai liberale in materia, una riforma fiscale che aumenti la progressività dell’imposizione sui redditi più elevati, sui grandi patrimoni, sulle grandi eredità, fino ai livelli raggiunti da altri Paesi occidentali, produrrebbe una quantità di risorse in grado di finanziare una redistribuzione del reddito verso i ceti meno abbienti senza toccare i ceti medi. Consentirebbe, inoltre, investimenti massicci nelle ristrutturazioni rese necessarie dalla crisi in atto sia nei servizi pubblici sia nelle attività produttive. Si tratta, in sostanza, di operare un grande trasferimento di risorse dal capitalismo finanziario privato allo Stato, al fine di realizzare un indirizzo politico generale di impronta neo-socialista o eco-socialista.
In ogni caso, la definizione di questo nuovo indirizzo politico verrà aiutata non poco dalle tesi esposte da Fassina, al di là di questa carenza e di altri aspetti pure controversi, a condizione che la discussione in atto a sinistra tra tutti i soggetti in campo riesca ad aprirsi, compiendo quel salto di qualità che la gravità della situazione rende ormai necessario.
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