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Il midollo del leone, di Alfredo Reichlin

Recensione di Mario Tronti de Il midollo del leone, di Alfredo Reichlin. Il Manifesto del 12 giugno 2010
Pubblicato il 12 Giugno 2010
Materiali, Officine Tronti, Scritti
Il midollo del leone, recita il titolo di questo libro di Alfredo Reichlin ( Laterza, 2010 ). Poi, vedremo in che senso. Il sottotitolo precisa: Riflessioni sulla crisi della politica. E vedremo da quale punto di vista. Ma intanto, anche per me, come già sottolineato da altri, la scrittura. C’è la mano del giornalista di razza, per di più intellettuale coltivato, che ti dispone a leggere, prima ancora che per ciò che racconta, per come sceglie di raccontare. Esempio: l’incipit. Non c’è Introduzione, Premessa, Avvertenza. Subito il primo capitolo: “Il tempo lungo che ho vissuto”. << Se parlare della mia vita ha un senso è per la ragione che ho vissuto dentro un tempo molto lungo, più lungo degli anni del calendario. Sono nato nell’altro secolo che non fu “breve”, perché non cominciò con la rivoluzione russa e non finì col crollo del comunismo. E sono ancora qui a ragionare insieme con gli amici e i compagni in un altro millennio. Ed è questo che mi colpisce. Ho pensato, agito, lottato in epoche profondamente diverse. E ho voglia di lottare ancora >>.
Ci sono due tipi di libri: quelli che chiudi dopo aver letto la prima frase e quelli che dalla prima frase ti portano all’ultima senza smettere di leggere. Eccola l’ultima frase: << Di questo “midollo del leone” c’è un gran bisogno. Se Vittorio Foa fosse ancora vivo e mi rivolgesse di nuovo la domanda ( “Credevate nella rivoluzione?” ) io risponderei con questi pensieri >>. Vediamoli allora questi pensieri. Li troviamo tutti collocati, e quasi sospesi, e comunque interrogati, tra due mondi, quello di ieri e quello di oggi, e più precisamente, cioè più politicamente, tra l’Italia di ieri e quella di oggi. Perché il tema di Reichlin, il leitmotiv delle sue riflessioni e dei suoi interventi, è il destino della nazione, destino storico, da assumere a livello di produzione culturale e da interpretare a livello di agire pratico. Alfredo Reichlin è la figura classica, espressiva e riassuntiva, del comunista italiano. Indelebile il segno della formazione togliattiana. Quando, da ingraiano, subirà qualche disavventura interna, quando, da berlinguerfiano, salirà a posti di alta responsabilità e anche dopo e ancora oggi, nella sua posizione di Cassandra positiva dentro il partito democratico, si è sempre portato e si porta ancora dietro, con a volte un pizzico di giusto orgoglio, questa personale eredità. << Perciò sono inquieto – scrive infatti qui -. Perché chi come viene dalla sinistra storica non può sentirsi innocente se il nuovo soggetto politico in cui siamo confluiti sembra così incerto, quasi senza un’anima e privo di un pensiero lungo sul futuro >>. Vero. Verissimo. Non c’è pensiero politico del futuro senza coscienza storica del passato.
E qui, un punto decisivo, che voglio subito mettere in evidenza. Il cruccio, l’assillo, il rimpianto, direi addirittura il turbamento – appunto, l’inquietudine – non sono per la fine di una storia, ma per non aver saputo traghettare quella storia in un’altra. La colpa che grava sulla generazione di sopravvissuti alla “gloriosa” – io la aggettivo così – tragedia novecentesca della nostra parte, è di non aver saputo superarla dialetticamente, malgrado l’impianto storicista della cultura, e cioè negandola nell’azione ma conservandola nel pensiero. La colpa complessiva, che riguarda allora anche il resto di quelle generazioni, compresa la mia, che maneggiavano altre culture, è di non essere riusciti a zittire il chiacchiericcio di questi pierini innovatori, quando narravano – quella, sì, una narrazione ideologica! – le magnifiche sorti e progressive di questo tempo miserabile, nascondendo sotto il tappeto la polvere di tutte le miserie, le storture, le derive, e le ambiguità, e le volgarità, che, dopo la fine di quella storia, ci sono cascate addosso. Per cui, non c’è stata più, in campo, un forza politica di denuncia del degrado, di organizzazione delle lotte, di critica del presente, di alternativa per il futuro. In una persona come Reichlin potrebbe del tutto naturalmente esserci – abbiamo festeggiato da poco i suoi ottantacinque anni – nostalgia per il passato. Eppure con c’è. “ Il mio intento non è la difesa delle memorie”. Arriva a dire, non solo che quella del Pci è storia conclusa, ma – in palese contrasto con ricostruzioni recenti, di Magri, di Liguori e di altri – che quel progetto politico non era realizzabile, era insostenibile: necessario, ma insufficiente. La via nazionale al socialismo diventava sempre più improbabile in un mondo che andava globalizzandosi. E la grande intuizione di Togliatti, – fare sintesi di classe e nazione – risultava sempre meno credibile in un mondo dove le classi si disfacevano e le nazioni si superavano. Reichlin è politico molto attento e molto sensibile al mutamento. Fu tra gli ingraiani che registrarono la mutazione profonda, mentre avveniva, degli anni Sessanta e Settanta. Oggi parla del “mondo nuovo in cui siamo immersi”, coglie la fine dell’occidentalizzazione del mondo, spinge a farsi ogni volta carico di ciò che cambia, ma, ecco, raccomandando di approntare sempre un partito reale e non virtuale, con una missione riconoscibile e riconosciuta per questo paese qui, anche quando sta, e deve stare, in Europa, anche quando è parte, e deve essere parte attiva, di un poderoso processo di globalizzazione.
Ci sono nel libro, ben raccontati, sapidi ricordi di vita politica vissuta. L’esperienza all’Unità, dalla cronaca alla politica, dalla collaborazione alla direzione, quando Togliatti raccomandava di fare dell’organo del Pci il Corriere della sera del proletariato. L’esperienza nel Laboratorio Puglia, in rapporto quotidiano con un popolo di braccianti e di operai e in diretto contatto con un prestigioso gruppo di intellettuali: due finestre, di società e di cultura, che segneranno il dirigente nazionale futuro. Questi erano i dirigenti comunisti, spediti dal centro del partito nel paese reale a farsi le ossa, e se ne venivano fuori cresciuti, bene, se no, a casa. Erano uomini, e donne, ad esistenza intera, organizzatori di popolo e protagonisti di egemonia. Per questo, non bisogna concedere nulla a chi vuole costruirci sopra un santino, vedi Scalfari con Reichlin: bravi questi dirigenti comunisti, dovevano tener conto del fatto che i militanti avevano il cuore in URSS, ma nella loro testa c’era l’America. Non era così. Se fosse stato così, quel nesso di nazione e classe non si sarebbe mai saldato e il grande partito comunista, di massa, sarebbe stata un piccolo partito d’azione, e quindi di élite. Alfredo concede qualcosa a questa leggenda di postuma legittimazione. << Guardavamo all’America di Vittorini e non a Mosca >>. E, << non era Stalin ma la Patria che ci chiamava >>. Sì, ma quella pupilla dei nostri occhi che erano i militanti di base del Pci, quella forza di popolo che viveva e soffriva e lottava in quei pezzi di paese reale dove venivano giustamente inviati gli “specialisti + politici”, a orientarli, a dirigerli, be’ quelli guardavano a Mosca ed era Stalin che li chiamava. E’ passato abbastanza tempo, già più di quanto fosse necessario. Credo sia giunto il momento di mettere via certi pruriginosi complessi di colpa e di cominciare a dire, a spiegare, e a spiegarci, perché e come guardavamo a Mosca, e cioè che cosa rappresentava il paese del socialismo per chi non aveva da perdere altro che le proprie catene. Reichlin a un certo punto dice: il Pci, malgrado il suo nome, tutto sommato utopico, svolgeva una funzione pratica nazionale positiva. La stessa cosa si può dire dell’Unione Sovietica: malgrado l’usurpazione del nome di socialismo realizzato, svolgeva una incalcolabile potente funzione internazionale di liberazione da quelle catene che opprimevano milioni e milioni di uomini e donne, padri e figli, madri e figlie. Che il sol dell’avvenire non fosse più soltanto il simbolo dipinto su una bandiera ma un enorme paese del mondo che costruiva una nuova società, è stato un mito di mobilitazione alla lotta e quindi di generale avanzamento umano che se lo sognano tutte le chiacchiere dei filosofi
“Per un nuovo umanesimo” è una formula che Alfredo usa spesso in questo periodo. Intende sottolineare, mi pare, che l’attuale fase della formazione economico-sociale capitalistica, sia che produca sviluppo sia che produca crisi, si esprime attraverso un “disagio di civiltà”. Esattamente quello che una forza di alternativa dovrebbe intercettare, leggere, far capire e magari utilizzare per mettere in campo un progetto di trasformazione. Sta fondamentalmente dietro le nostre spalle la << fine di quella grande conquista del Novecento che abbiamo chiamato “civiltà del lavoro” >>. E’ da qui che bisogna ripartire per “cercare ancora”. Non a caso Reichlin sceglie qui come referente quella personalità eccezionale che è stato Claudio Napoleoni. E indica alla fine, come modello, quel Giaime Pintor che in un momento tragico della vita delle nazioni seppe uscire da sé per gettarsi e di qui per perdersi nel mondo grande e terribile. E’ in lui che Italo Calvino vide “un midollo di leone”, come “nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia”. Non è questione di “nuovi capi”. Ci vuole una nuova idea di uomo e di mondo. << Bisogna parlare più forte >>.
Ma per non chiudere con una exhortatio, vorrei sollevare un tema, come si diceva una volta, di linea politica: il “ricordando” di un’occasione mancata, che non sono sicuro non si possa ancora recuperare. C’è nel libro un piccolo scoop: la pubblicazione di un nota che Reichlin scrive per D’Alema, agosto 1994, un mese dopo la sua elezione a segretario del Pds. E’ un discorso articolato, argomentato, impegnativo. Questo è il Reichlin che mi piace di più: quando parla di politica da politico, un esercizio oggi sempre più raro. Chi si azzarda a farlo, viene azzannato alla gola da agit-prop di televisione e di rete, da giornali che puntano ad essere il Corriere dei piccoli del ceto medio, oltre che da popoli variopinti, arancione, verde, viola. Perché vedi, Alfredo, non è che non va più di moda, come tu dici, la sinistra, non va più di moda una sinistra politica. Qui tutti parlano altre lingue e nella Babele tutti parlano d’altro. Allora, l’occasione, forse la prima e l’ultima, che vedeva quella Cosa che era il Pds nella condizione opportuna di mettere a frutto tutto il dopo-Pci. Andava innescata un’operazione di grande politica, cioè di respiro strategico e di sapienza tattica. C’era finalmente l’uomo giusto al posto giusto. C’era ancora la risorsa di una militanza di autentico sentire ancora in campo. C’era un consenso di massa, appena sfuggito, ma da riacchiappare e da rimotivare, presto, subito. Un’operazione di segno mitterandiano: prendere il partito, ricostruirlo, disegnarlo su un nuovo progetto, tornare a radicarlo nel paese e nelle istituzioni, con una nuova leva di dirigenti centrali e intermedi, e portarlo come tale, in prima persona, a misurarsi con la sfida di governo, in coalizione, sì, ma senza papa straniero. Era un percorso più lungo, ma più solido che la rapida illusione della vittoria con gli Ulivi ha contraddetto. Si trattava invece di chiudere presto il dopo Ottantanove e, prima che si consolidassero nuove appartenenze, riunificare le forze della sinistra. E poi: cancellare la sciagurata stagione referendaria; sopprimere, sul nascere, le pulsioni giustizialiste. E siccome sono queste due cose qui che fondamentalmente hanno prodotto e riprodotto, con la scelta dell’antipolitica, il berlusconismo, questo non si sarebbe risollevato dalla sua crisi del ’96.
Non se ne fece nulla. E non si è capito perché. Ci fu un promettente inizio alla Certosa di Pontignano, che presto lasciò la scena a staff di improbabili comunicatori, che, come accade spesso a questa categoria, non avevano proprio niente da comunicare. In seguito, da Firenze in poi venne fuori la Cosa due, quando era proprio l’idea di Cosa che non era andata e non poteva andare. Perché non va l’idea del partito-coalizione, del partito elettorale, qualcosa che non esiste in sé ma solo in funzione della raccolta di un consenso di opinione, qualcosa di necessariamente generico, leggero, liquido, virtuale, per dirla con le parole che oggi vanno, esse sì, di moda e dunque necessariamente – ripeto le parole di Reichlin – qualcosa “senz’anima e privo di un pensiero lungo sul futuro”.
Si, lo so, col senno del poi non si fa la storia: La storia, magari, no. Ma la politica, sì. Perché “ dove ho sbagliato?” è la prima domanda che ti devi porre quando ti trovi sconfitto. E’ la domanda politicamente scorretta che questo libro autorizza a fare. Ma a che serve un libro se non ti fa pensare, oltre il libro stesso? Sono sicurissimo che Alfredo, con il quale è nata negli ultimi tempi un’amicizia politica, capirà e, forse, spero, apprezzerà.

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