Interventi
Prima di tutto devo spiegare la curiosa definizione data a questo mio inusuale discorso. Il termine “discipularis”, aggettivo di “discipulus”, è attestato in un codice medievale, nel Carme di un monaco dell’abbazia di San Salvatore telesino, e ricorre due volte nella Patristica latina, ma non si trova affatto nei dizionari. E quando manca la parola, vuol dire che manca anche la cosa. Invece il termine “magistralis” si trova sempre, segno che di maestri ce ne sono tanti, e c’è sempre qualcuno che fa una “lectio magistralis”. Ciò vuol dire che la nostra società, benché dicasi cristiana, ha del tutto dimenticato o rimosso la parola evangelica che dice: “non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro maestro” (Matteo, 23, 10).

Stasera io vorrei dire invece la mia esperienza di discepolo; e benché io abbia avuto molti maestri, vorrei parlare di quella scuola e di quel maestro di cui soprattutto sono stato discepolo, cioè del Novecento, del “mio” Novecento, della storia che esso è stata, per me ma anche per tutti.

Il Novecento è stato un secolo grande e terribile, affascinante e tremendo, tempo di morti e di rinascite. È il secolo che ha prodotto i totalitarismi e il costituzionalismo, che ha fatto le più grandi guerre e ha dato fondamenti alla pace, che ha inventato la bomba atomica e la dottrina della nonviolenza, che ha perpetrato la shoà, ha compiuto genocidi e ha visto popoli insorgere e liberarsi.
Per fortuna non è stato un “secolo breve”, come certi storici hanno sostenuto e così io, che ne ho attraversato gran parte, ho avuto una vita più lunga.

Il fascismo
Per me, il mio Novecento è cominciato nella notte del fascismo; ma essendo un bambino non ne sono stato, all’inizio, troppo turbato. È vero che sono stato balilla, e perfino balilla moschettiere, ma non ho fatto a tempo a diventare avanguardista, prima che il fascismo cadesse.
Forse ho fatto anche qualche tema sul duce. Il Duce era un mito. Ed io ricordo il mio choc quando per la prima volta mi sono imbattuto in un atto di demitizzazione. Fu quando su un manifesto affisso per la strada, abbastanza in basso perché un bambino potesse arrivarci, vidi scritto in un angolo, piccolo piccolo, a matita: Abbasso il duce. Mi fece un’impressione straordinaria. Dunque si poteva anche essere contro il duce? Dunque nel segreto si poteva pensare male di lui? Dopo di allora, molti altri processi di demitizzazione sono entrati nella mia vita; ma quella fu la prima volta, e ancora me ne ricordo.

Il fascismo, nel quale avevo vissuto lietamente l’infanzia, cominciò a farmi soffrire quando ho smesso di essere un bambino. Ciò è accaduto all’età di otto anni, quando è morto mio padre, una firma importante del giornalismo, Renato La Valle, che però il regime da anni aveva messo a tacere. Ho smesso di essere un bambino anche perché subito dopo, nel 39, c’è stata la guerra, e la guerra non fa bene ai bambini. A Roma venne anche la fame; sicché quando toccava a me di andare a prendere il pane dal fornaio, che si chiamava Biagini, già per la strada mangiavo il panino che mi spettava, che era poi la razione di cento grammi di pane al giorno stabilita dal governo.

In ogni caso non si poteva affrontare la guerra da bambini, con una madre vedova e due sorelle, Fausta e Fidelia, anch’esse bambine. Vennero anche i bombardamenti a Roma; nella strada accanto alla nostra morì Virginio Gaida, che era direttore del “Giornale d’Italia”, e la fontana di fortuna sotto casa, attaccata alla presa per innaffiare, fu colpita mentre le donne erano in fila per prendere l’acqua. Un signore ebreo, che ci dava lezioni di francese a domicilio, fu ben presto in pericolo, sicché noi lo nascondemmo in casa nostra, anzi gli cedetti il mio letto, che aveva una coperta di damasco rosso fatta da una tenda. Seppi così che gli ebrei erano perseguitati. Una notte sparì, fuggito altrove; nel cestino della carta trovai che aveva buttato con noncuranza una cravatta ancora buona, perché era un barone. Poi abbiamo saputo che si era salvato.

Così cominciai a capire molte cose della guerra. Per esempio che cosa era una guerra mondiale. La guerra mondiale era che il Brasile, chissà perché, era nostro nemico. Ma il Brasile per noi era la fonte di sostentamento, perché mia madre lavorava col Brasile. Era infatti corrispondente di giornali brasiliani; e ciò lo si deve al fatto che alla morte di mio padre genialmente si era fatta giornalista; aveva passato una vita a battere a macchina gli articoli di suo marito, che scriveva solo a mano, e grazie a quella macchina aveva acquisito un sapere che le venne buono al momento del bisogno, permettendole di ereditare il posto di lui e di continuare il suo lavoro: ed ecco che ora la guerra separava lei dal suo lavoro, e noi dal suo stipendio.

Così lei, Mercedes, dovette inventarsi altri lavori; non poteva più scrivere articoli, però poteva fare la dattilografa; e così ancora una volta la macchina da scrivere la salvò.
Degli avvocati, che patrocinavano presso il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, le diedero da copiare dei processi; e lei ogni mattina andava al palazzo di giustizia a scrivere, e ci andavo anch’io, perché anch’io nel frattempo avevo imparato a scrivere a macchina, e perciò copiavo le carte dei processi anch’io; per fortuna allora non c’erano impedimenti al lavoro minorile.

Fu in questo modo singolare che io, senza affatto capire di che si trattasse, ho incrociato il dramma dell’antifascismo, e forse ho scritto a macchina qualche difesa di antifascisti giudicati dal Tribunale Speciale, e qualcuno magari condannato a morte. Ed è forse da questo inconscio in cui è rimasto in me sepolto il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato che oggi nasce la mia indignazione quando vedo accusare e diffamare i tribunali e i giudici della Repubblica democratica.

Il fascismo andò a finire nell’occupazione tedesca. E io ricordo i tedeschi che facevano le retate; capitò anche a me, quando a Porta Pia ci fecero scendere da un autobus, che allora non si chiamava 60, ma NT, che voleva dire Nomentano-Trastevere, e presero gli uomini; io avevo tredici anni, e perciò non corsi nessun pericolo, Nondimeno la domenica, quando andavo col mio compagno Giorgio Marino alle Messa e alla dottrina dal Cardinale Massimi, nella chiesa di San Claudio a piazza San Silvestro, il cardinale ci prendeva in macchina con sé e ci portava fino a casa sua per non farci correre rischi.

Anche il cardinale Massimi, che apparteneva a una famiglia di principi romani, era un demitizzatore. Girava sempre in tonaca nera, senza porpora, come un prete qualunque; e ricordo il mio stupore una volta che in San Pietro, nella cerimonia del concistoro, lo vidi sfilare, come usava allora, con uno strascico di tredici metri.

Faceva gesti semplici e omelie antifasciste. La domenica, prima di lasciarmi, spariva nell’androne della villa che abitava ai Parioli, e tornava, con la sua andatura caracollante, portandomi un cartoccio di farina e un sacchetto di zucchero, perché ero orfano; e siccome era uno che non cambiava abitudini – al Concilio certamente sarebbe stato tra i conservatori – continuò per molti anni ogni domenica a regalarmi sacchetti di zucchero e un chilo di farina, anche quando la guerra era finita e noi non ne avevamo più bisogno.

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