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Il Monumento ai Caduti a Ginostra

Si parla, nel testo che qui presentiamo, del mare di Sicilia, delle Eolie, di Stromboli e della sua Ginostra, in particolare. E allora può venir fatto di pensare che non lontano da questi luoghi si trova lo stretto di Messina, ancora e sempre esposto al progetto di costruirvi un ponte. Ecco, questa specie di libera associazione può forse aiutare a cogliere – per contrasto, si capisce – il senso ‘ecologico’ del testo di Olivetti, riposto, ma proprio per questo tanto più intrigante. La delicatezza dei luoghi, appunto, e dei sentimenti che a essi si connettono, contro l’idea di spazi disponibili a ogni manipolazione, meglio se macroscopica. D’altra parte, a proposito di delicatezza, come evitare che la mente – compiendo un’altra associazione, stavolta meno libera – corra al 25 maggio e al 12 agosto scorsi, quando fiamme e acqua misero violentemente a nudo la fragilità di Stromboli e le colpe della sua mancata cura? È quasi un emblema, Stromboli, degli ecosistemi fragili: la pubblicazione del testo che segue vuole essere anche un omaggio all’isola e a quanti lavorano per istituire, in essa, un rapporto di umana complicità con la natura e le sue ragioni.
Pubblicato il 26 Ottobre 2022
Ambiente, Cultura, Materiali, Scritti, Temi, Materiali

Sull’isola di Stromboli, chi sbarchi a Ginostra, per raggiungere le sparse case che si dispongono più fitte solo intorno all’edificio, alto sul mare, della chiesa dedicata a san Vincenzo Ferreri, dovrà dal molo salire i tornanti di una scalinata che si inerpica dalla scogliera, e giunge ad una breve piazzetta. Qui sorge, in un gioco di quinte disposte ad emiciclo, un monumento eretto in memoria degli abitanti di Ginostra caduti nella prima guerra mondiale. La lapide marmorea che trascrivo ne riporta i nomi:

1915 1918.

La Sezione [cancellatura] di Ginostra

in perenne ricordo dei martiri

della guera [sic] europea

Costa Francesco fu G.ppe.

Lo Schiavo Gaetano di G.ppe.

Cincotta Gaetano di G.ppe.

Lo Schiavo Antonino fu G.ppe.

Lo Giudice Domenico di G.ppe.

Lo Schiavo Antonino di G.ppe.

Lo Schiavo Bartolo di G.ppe.

Cincotta Antonino di G.ppe.

Pettorino Vincenzo fu G.mo.

Fert

In alto, tra le date, un sobrio tondo in bassorilievo disegna la testa d’un fante con l’elmetto. A sigillo, in calce, un pugnale e quel Fert, motto di casa Savoia, esortazione e monito, a sopportare (il latino fert: «sopporta») la sorte con virile coraggio. E l’elenco di quei nove nomi serrato in una scatola di silenzio impenetrabile alle brezze e alle bufere, all’impietoso raggio del sole e al raggio pietoso della luna.

Memoriale a suo modo austero, composto di schermi verticali dai volumi rigidi che inducono quel certo qual senso di stabilità proprio degli edifici militari. La diresti, così, quella costruzione, una fortificazione di ridotte proporzioni, uno spalto che ti si mostra sicuro, un presidio di guardia predisposto a suo tempo da comandi lontani e quartier generali forse obsoleti.

Come avviene per le case, anche qui le pareti sono tirate su con pietre vulcaniche, i combusti lapilli, spugnosi e leggeri, che si raccolgono agevolmente nelle pietraie tra i contrafforti del formidabile monte. Una copertura di malta e cemento uniforma le scabre superfici di queste pareti a cielo aperto con la stesura regolare di un intonaco chiaro, tenace e compatto, che ha retto bene al passare degli anni. Negli ultimi tempi, qua e là, certe cadute dello scialbo scoprono tuttavia l’interno, ovvero quell’opus incertum di lapilli che dicevo. E di lastre di pietra vulcanica, che sembra bruciata tanto fino al punto di farsi nera nera, sono gli squadrati sedili e le cornici di coronamento che sottolineano gli orli superiori, quasi a contenere il verticale slancio verso l’alto di quei muri.

Dedicato ai caduti, ammantato d’una sua severa retorica civile, è questo l’unico luogo ‘statuale’, a Ginostra, ovvero ‘pubblico’ (oltre la chiesa, se pubblica mai la chiesa si può dire). Dico luogo che al pubblico conforto, per quanto sia, almeno può risultare adatto, con quei sedili a semicerchio, un’esedra da guardarci i tramonti, da farci conversazioni gli uomini e magari anche le donne.

Ricordo al mio primo arrivo a Ginostra, nel 1968, come mi apparve il monumento. Lo sentii circonfuso della medesima aura che annettevo alle coeve architetture degli anni Trenta a Roma: piazze, edifici, stadi, le scuole dove avevo studiato. Non solo e non tanto dalle linee d’un riconoscibile stile emanava per me l’impressione, quanto da una vicenda storica recente ch’io non avevo vissuta, ma che segnava gli adulti intorno a me. Sicché recepivo uno stato d’animo che mi pareva in essi contenuto come ne fossero quegli edifici intrisi. Un tono di lutto, di sterminato dolore che si manifestava intatto quale l’effetto d’una foto d’epoca. Non mancava il sole di Roma a illuminare i travertini di quei palazzi, fermo su quegli stipiti, sulle scalinate e ad attraversare con la sua luce le finestre alte per posarsi nelle ampie sale di marmo, nelle nostre aule. Ma quel sole vi stingeva ai miei occhi un piombo, un bigio, un che di cielo coperto ch’era la guerra, la Seconda dopo la Prima, recente più negli animi che per gli anni trascorsi.

Messo piede a Ginostra, il monumento fu l’unica datazione certa, dunque il solo fomite di storia, ché tutto, intorno, quanto mi si porgeva per la prima volta allo sguardo, o era immemoriale o senz’anno.

C’è un chiodo posto sotto la lapide che segna quei nomi dei morti in guerra. A quel chiodo arrugginito dall’alito del mare nessuno appende più un lume, una lampada votiva, nemmeno nel giorno dei morti, il 2 novembre. Io stesso, somma ingiuria, vi ho certe volte, calata la sera, per farla in barba ai gatti, agganciato una sacchetta con le provviste che avevo allor all’ora acquistate. Poche cose: pomodori, un peperone, patate, o olive, uno spicchio di formaggio, pane coi semi di sesamo. Sapevo che, di notte, nessuno avrebbe notato l’irriguardosa e provvisoria offerta ai caduti.

Dal monumento si passa, ma i turisti d’agosto e di luglio appena si soffermano. Un tempo, invece, il monumento accoglieva i nottambuli agostani e i loro amori. Amori di parole in faccia al mare, accosto alle pietre color ferro dei sedili. Oppure amori rapidi, veloci, effettuati con destrezza, ché il monumento offre una quinta di copertura, e chi si avvicina si accorge appena se nel cono d’ombra di quel muro a paravento si allacciano due amanti dalla parte del mare o sul retro, che vorrebbe esser poi un tratto della strada che transita, dalla scalinata del porto, verso la chiesa. E allora, per non disturbare, ti ritrai o a tua volta cerchi la tua intimità nell’opportuno gioco degli spalti, con la loro triplice feritoia da fortilizio costiero, si diceva, a picco sulla marina.

Dal monumento si gode una vista sul mare che contempla tutte le isole dell’arcipelago eoliano, le maggiori e le minime, Dattilo e Lisca Bianca che galleggiano intorno a Basiluzzo. Puoi scorgere l’imponente acrocoro della Calabria che incombe sulla lingua sottile di Cariddi prima che essa s’innalzi nei Peloritani, su con l’Antenna a Mare e, poi, trascorrere il frastaglio dei Nebrodi e percepire capo Milae, e intuire Tindari, oltre Vulcano e Lipari. Chiare qui innanzi hai Basiluzzo e Panarea e Salina, allineate in un gioco di repliche, di doppi: il profilo di Panarea che ripete quello di Basiluzzo; le due vette in cui Salina si scinde. Laggiù, alla tua destra, Filicudi che precede Alicudi, approssimate nel prospetto, entrambe perse in una lontananza che le inoltra nel mare vasto, esteso, senza riscontro di terre ulteriori, a disfarsi, immane. Angolazione ove cala nei mesi estivi il sole e ogni giorno, tutto l’anno, il cielo intero.

L’umana condizione effimera che transita nei secoli i sentieri sassosi di Ginostra sulla spalla infuocata dello Stromboli in mezzo al mare. Un andare su e giù tra una natura intatta e immemoriale. Il monumento ai caduti, una scaglia di memoria che si consuma.

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