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A portare per la prima volta alla guida di una grande democrazia dell’Europa occidentale un partito dichiaratamente erede dell’esperienza storica del fascismo è solo in parte l’avanzata elettorale di Fratelli d’Italia. Sia sulla base delle impressioni tratte da un primo approccio ai numeri di queste elezioni sia sulla base dell’analisi dei flussi elaborata dall’Istituto Cattaneo, infatti, si può dire che la forza politica guidata da Giorgia Meloni è riuscita soprattutto a egemonizzare il campo del fu centro-destra, che però complessivamente – ottenendo come coalizione il 43,8% dei consensi espressi, con un tasso di partecipazione al voto del 63,9% e in assenza di competitor alla sua destra – resta ben al di sotto dei suoi migliori risultati. Nel 2008 infatti, con un tasso di partecipazione al voto dell’80,5%, la coalizione allora guidata da Silvio Berlusconi ottenne il 46,8% dei consensi espressi a cui va sommato il 2,4% ottenuto dalla formazione di estrema destra guidata da Daniela Santanché e Francesco Storace e, almeno in parte, il 5,6% dell’Unione di Centro guidata dall’attuale senatore di Bologna Pierferdinando Casini, che, incredibile dictu, del centro-destra a guida berlusconiana era stato fino a poco prima uno dei pilastri.

Anche rispetto ai consensi ottenuti nelle elezioni politiche di cinque anni fa, il risultato conseguito dal centro-destra nelle elezioni del 25 settembre, pure in aumento, non è eclatante. Nel 2018 infatti, con un’affluenza alle urne del 73%, il centro-destra ottenne complessivamente il 37% dei voti validi, in quanto una parte considerevole dell’elettorato tradizionalmente orientato su posizioni conservatrici era confluito – insieme a tanto elettorato democratico, progressista e di sinistra – nel 32% conseguito dal Movimento 5 Stelle. Ebbene, considerando l’odierna caratterizzazione del Movimento come forza che si autodefinisce “progressista” e che addirittura si mostra disposta a stringere accordi elettorali con le altre forze di centro-sinistra, il fatto che la coalizione di destra, senza altri competitor nel suo campo e con una affluenza in calo di quasi dieci punti percentuali, abbia recuperato poco più del 6% rispetto alle precedenti elezioni politiche risulta persino deludente.

A dispetto del racconto che se ne è fatto e se ne fa, dunque, il fenomeno che ha visto protagonista il centro-destra in questi anni non si presenta come una grandiosa avanzata, ma piuttosto come un cambio di segno culturale, politico e strategico. Fenomeno certamente di grande rilievo e gravido di importanti conseguenze, che perciò merita il massimo dell’attenzione e che sarebbe drammaticamente sbagliato non prendere sul serio sul piano dell’analisi e della battaglia politica. Ma che allo stesso tempo, numeri alla mano, non basta a spiegare la situazione politica consegnataci dalle elezioni.

La destra ha vinto queste elezioni per decisione unanime del gruppo dirigente nazionale del maggiore partito del centro-sinistra, formalizzata nella direzione nazionale del 26 luglio scorso. La decisione del Partito Democratico di chiudere a ogni possibilità di accordo con il Movimento 5 Stelle e con Giuseppe Conte ha oggettivamente reso non contendibile la gran parte dei collegi uninominali, regalandoli alla coalizione guidata da Giorgia Meloni, anche laddove la destra era nettamente minoritaria nei consensi espressi dagli elettori. La scelta compiuta dal PD è tanto radicale quanto apparentemente irrazionale. Eppure la radicalità della scelta e delle sue prevedibili conseguenze impongono di cercare, se non una razionalità, almeno delle ragioni. La campagna elettorale si è già incaricata di smontare per manifesta insostenibilità logica e fattuale la tesi ufficiale del Nazareno secondo la quale la rottura con i Cinquestelle sarebbe divenuta inevitabile in seguito alla loro mancata partecipazione a un voto di fiducia in Parlamento, che avrebbe determinato quella sorta di “lesa maestà nei confronti di Draghi” di cui efficacemente parla Ida Dominijanni in un articolo pubblicato su questo sito. È molto probabile che il PD, già prima delle vicende che hanno portato alle dimissioni di Draghi, avesse già preso la decisione di rompere con Conte. Altrimenti che senso avrebbe avuto offrire una sponda politica alla scissione di Luigi Di Maio? E perché inserire nel “decreto aiuti” la norma sulla costruzione dell’inceneritore a Roma, che, comunque la si pensi nel merito, non può che essere considerata una provocazione deliberata nei confronti del Movimento 5 Stelle? E perché, poi, accettare di stringere un accordo con chi, come Sinistra Italiana, del Governo Draghi era stato aperto oppositore? Resta difficile pensare che quella del gruppo dirigente nazionale del PD sia stata solo una clamorosa manifestazione di imperizia tattica o strategica.

D’altra parte la guerra non lascia mai il tempo che trova e quella iniziata il 24 febbraio è come un terremoto che porta alla luce faglie solo apparentemente nuove, ma che ora si scoprono decisive per il destino dell’Europa. Attorno a quelle faglie va riorganizzandosi la politica grande e piccola, nei rapporti inter e infra-statali. L’Italia non fa eccezione. Enrico Letta e il PD non hanno esitato un minuto a indossare l’elmetto della NATO, rinnegando decenni di tradizione cattolico-democratica e socialcomunista prima, ulivista poi; decenni in cui l’Italia è stata per lo più capace di pensarsi come crocevia euromediterraneo che – da Occidente, certo – costruisce ponti con l’Oriente giocandosi in quella direzione ogni possibile margine di manovra concesso dalle condizioni date e dai rapporti di forza; tradizione di cui peraltro lo stesso Letta era stato a suo modo interprete durante la breve stagione del Governo da lui presieduto, poco prima di essere sostituito dal giovane Renzi. Tradizione sepolta, nel volgere di poche ore, dalla professione di “atlantismo”. Lo stesso termine che aveva utilizzato Mario Draghi chiedendo la fiducia del Parlamento per dare vita a un governo che non si limitava a ribadire, come da cerimoniale, la “collocazione dell’Italia nell’Alleanza atlantica”, ma che si definiva direttamente “atlantista”. Era il febbraio 2021, un mese dopo l’insediamento di un nuovo inquilino alla Casa Bianca e, si parva licet, poche settimane prima dell’insediamento di un nuovo segretario al Nazareno in seguito alle dimissioni, ancora oggi rimaste politicamente inspiegate, di Nicola Zingaretti. Catena di eventi che, su scale diverse, segna un passaggio di fase.

L’esperienza del Governo “dei migliori” è stata tante cose. Tra queste, anche il tentativo di rimuovere l’anomalia rappresentata dal Movimento 5 Stelle, dal suo nuovo capo Giuseppe Conte, dal fastidioso odore di popolo che continuano a portarsi dietro, da posizioni non sufficientemente allineate sui temi della pace, della guerra, del rapporto tra Europa e NATO. Mentre dal Governo, con il controcanto di una stampa conformista, si costringevano i Cinquestelle a una postura meramente difensiva dei provvedimenti simbolo della loro irruzione a palazzo Chigi dopo il trionfo del 2018, la nuova segreteria del PD provvedeva a smantellare le condizioni in base alle quali era stata fino ad allora costruita la possibilità di una collaborazione strategica con il Movimento. Su tutte, l’accordo sulla riforma in senso proporzionale della legge elettorale, che Enrico Letta si è premurato quasi subito di rinnegare, garantendo, seduto accanto a Giorgia Meloni sul palco della festa nazionale di Fratelli d’Italia, che non avrebbe mai messo in discussione il sistema maggioritario. Sistema in virtù del quale, pure in assenza di una reale avanzata in termini di consensi nel paese, la destra può oggi godere di una maggioranza più che solida in parlamento, sfiorando il 60% in entrambe le Camere. Tutto prevedibile e previsto.

Non prevista era solo la sostanziale tenuta del consenso espresso al Movimento 5 Stelle, garantita per lo più dalla capacità del suo capo di capitalizzare, contro tutto e tutti, da solo e senza vere strutture territoriali, prima e durante la campagna elettorale, la connessione sentimentale che in questi anni è riuscito a costruire con un pezzo largo di popolo lavoratore, precario, disoccupato, periferico, emarginato e povero. Soprattutto, come è stato ampiamente sottolineato, nelle aree più disagiate del Paese. Il voto di popolo al Movimento 5 Stelle e a Giuseppe Conte ha sconfitto la strategia del voto utile e della inesistente contrapposizione bipolare che il PD ha artificiosamente cercato di imporre a una campagna elettorale che invece avrebbe dovuto riflettere la ben più complessa realtà del Paese. Si scopre oggi, quando è troppo tardi, che lontano da quel popolo non c’è futuro. Per la sinistra e per la democrazia.

Il Movimento 5 Stelle e Giuseppe Conte hanno il merito di avere impedito che quel popolo perduto, irrecuperabile da un centro-sinistra strutturalmente e culturalmente inadeguato a rappresentarlo, ingrossasse le fila o di un astensionismo già su livelli drammatici o di una destra regressiva ma evidentemente più credibile di chi le ha spianato la strada verso il governo. Se Giuseppe Conte – mettendosi alla guida di un’opposizione che tenga alte le parole d’ordine della sua campagna elettorale e le coniughi con un progetto di modernizzazione del paese – consoliderà quel consenso di popolo per allargarlo alla maggioranza sociale che da nord a sud ha bisogno di pace, salario e modernizzazione, potrà seriamente contendere l’egemonia alle destre. Per farlo, avrà bisogno di culture e strutture che al Movimento 5 Stelle oggi mancano. Ma, davanti all’ennesimo bivio e all’ennesimo “che fare” che ci interroga, dovremo tutti ricordare che non c’è nulla di significativo e di utile, a sinistra, che possa ricostruirsi in laboratorio, a partire da astratti enunciati di principio, dichiarazioni di intenti o vacue operazioni di restyling; non c’è nulla che possa avere un futuro, a sinistra, se resta lontano da quel popolo che è l’unica base reale su cui sia pensabile una rifondazione.

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7 commenti a “L’harakiri del PD, un errore calcolato”

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