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È impossibile essere sorpresi degli esiti del voto del 25 settembre. Si tratta di una sconfitta che viene da lontano.

Ha senza dubbio anche ragioni contingenti, prima fra tutte la divisione operata sul piano elettorale nel campo progressista e l’incapacità di costruire anche soltanto un’alleanza tecnica tra le forze democratiche. Fa amaramente sorridere il fatto che la scelta assunta prima del voto all’unanimità dagli organismi dirigenti del Partito Democratico sia stata nei giorni scorsi largamente disconosciuta, come se la responsabilità fosse del solo Enrico Letta. Lo ha scritto bene Marco Montelisciani su questo stesso sito.

Ma la sconfitta ha soprattutto ragioni che affondano le radici in quel processo di lunga durata, più volte analizzato, che ha visto il centro-sinistra italiano abbandonare progressivamente la propria ragione sociale, cioè l’insediamento nel mondo del lavoro e la capacità di rappresentare le pieghe della società più esposte ai venti della globalizzazione e delle crisi strutturali che hanno eroso in questi anni diritti e potere d’acquisto delle classi popolari. Parliamoci chiaro: prima ancora che il 19% del PD, è il 36,1% di astensione che si spiega così, con l’assenza di una proposta politica in grado di offrire una realistica prospettiva di riscatto e di partecipazione a vasti settori popolari impoveriti e delusi dalle politiche praticate al governo in questi anni.

Le prime analisi sui dati aggregati del voto di domenica scorsa ci confermano allora ciò che conosciamo da anni. Il Partito Democratico, e le forze a esso alleate, ancora una volta ottengono un voto più istruito, più protetto sul piano contrattuale, benestante, nei centri storici e nelle città più grandi. Confermano di non abitare nelle periferie, nella provincia profonda, soprattutto nel Mezzogiorno, e in particolare nell’area estesa del non lavoro e del lavoro precario, non soltanto giovanile e femminile.

A contendere l’egemonia della destra in questi settori popolari è stato il solo Movimento Cinque Stelle. Una rilevazione di Tecné indica che il Movimento di Conte ha raccolto il voto del 40% dei precari che si sono recati alle urne e il 59% di quello dei disoccupati (il PD rispettivamente il 10% e il 6%). Un altro lavoro di Ixè sul rapporto tra voto e reddito afferma che tra chi ha condizioni economiche «appena accettabili» il PD è una forza del 15%, tra chi ha condizioni «inadeguate» crolla all’8%. Viceversa il Movimento Cinque Stelle tra i primi è al 20%, tra i secondi quasi al 30%. Non vi è dubbio che il Movimento Cinque Stelle sia riuscito a offrire risposte di protezione alle paure e alle profonde incertezze di una parte importante del nostro Paese, alla vigilia di un tornante economico e politico (la destra al governo, la prospettiva della flat tax e dell’abolizione del reddito di cittadinanza, le inevitabili ricadute industriali e occupazionali della spirale inflazionistica che attanaglia il mercato, a partire da quello dei prezzi delle materie prime) che rischia di fare saltare definitivamente il patto sociale.

Occorre capire perché il PD non l’abbia saputo fare, malgrado un programma ben più avanzato di quanto non sia riuscito a comunicare. La mia impressione coincide con quella di Mario Tronti e ancora una volta interroga processi di più lunga durata: il PD ha mostrato dalla sua nascita di volere esercitare, per cultura politica ed esibito spirito di responsabilità nazionale, una funzione di supplenza nella gestione degli affari correnti della formazione economico-sociale per come è, senza più l’ambizione a trasformarla.

Sono queste evidenze a consigliare le mosse future. Sono queste le ragioni per le quali, come ha scritto Arturo Scotto, non ha alcun senso affrontare la fase di ricostruzione e di opposizione che si apre all’insegna di risposte ordinarie: il congresso classico; le primarie, offerte come strumento di apertura e inclusione ma in realtà semplice rappresentazione plastica dell’identità plebiscitaria del PD che, come ha scritto Nadia Urbinati, «coincide con il suo leader»; e infine l’auto-candidatura di aspiranti capi tutti interni all’orizzonte politico-culturale liberal-democratico che ha segnato la rotta di questi anni.

Occorre invece fare ascoltare la voce di chi legge la sconfitta nella sua dimensione più profonda e per questo motivo di tutti coloro che sono disposti a mettere in campo, finalmente, una vera autonomia culturale, di pensiero e di idee. Per noi l’autonomia è l’autonomia politica del lavoro, l’ipotesi di una soggettività politica del lavoro che si faccia carico di ripensare lo sviluppo e il suo modello nell’epoca delle grandi transizioni, in primo luogo quella ecologica.

Senza una nuova collocazione identitaria e strategica non c’è futuro. E per nuova intendo antica. Occorre appunto riprendere il filo della storia spezzato strappo dopo strappo a partire dal 1989. Occorre ricostruire, in forme adeguate al tempo presente, una sinistra di popolo e di trasformazione. Una sinistra che abbia – e scusate se è poco, nel pieno di un conflitto che rischia di diventare nucleare – una visione del mondo autonoma dagli interessi degli Stati Uniti d’America, imperniata sul valore politico dello spazio europeo e sulla possibilità di un multipolarismo che assicuri stabilità ai rapporti internazionali e pace tra i popoli.

Anche su questo terreno il Movimento Cinque Stelle è apparso più coraggioso, più interessato alle ragioni della pace e della diplomazia, nonché alle ricadute economiche della guerra e della crisi energetica sui conti delle famiglie e delle imprese italiane.

Ma questa autonomia in quale processo va spesa?

Se vi fosse, occorrerebbe senza ombra di dubbio muoversi in una costituente rifondativa e rigenerativa, che coinvolgesse e superasse il Partito Democratico. Lo diciamo da tempo, anche quando ci si suggeriva di volare più basso e di essere realisti: negli ultimi tre anni, per esempio, qui, qui e ancora qui.

Da questo punto di vista la lettera di Enrico Letta sul percorso congressuale contiene una novità positiva, perché per la prima volta esplicita la possibilità di un processo costituente, ma anche molti rischi, giacché sembra volerne ipotecare, con l’enunciazione di tappe e contenuti, l’intero svolgimento. Si tratterà di verificare in queste settimane alcuni elementi decisivi, dal soggetto a cui si propone l’iscrizione (il PD o il percorso costituente di una forza politica nuova?) alla modificabilità di quelle «regole vigenti» (primarie comprese) cui Letta allude.

Se prevalessero – come non bisogna augurarsi – le spinte alla conservazione, occorrerebbe invece guardare a uno processo nuovo, con coraggio e determinazione. Sperimentando anche sul piano delle forme. Consegnando protagonismo alle realtà associative, culturali, politiche, civiche, sociali che praticano nei propri territori già da tempo la sinistra che non c’è sul piano nazionale. E sapendo che neppure il Movimento Cinque Stelle, per la natura e la conformazione sociale del suo voto, è in grado di rappresentare il mondo del lavoro nel suo complesso, a partire dalle lavoratrici e dai lavoratori industriali del Nord e del Centro-Nord, dal terziario impoverito, dalle professioni liberali e intellettuali e dunque da una parte di classi medie che, come ha scritto Maurizio Brotini recentemente, hanno salari dignitosi ma bloccati da trent’anni.

Sono queste le sfide decisive. Che attendono, forse, anche gruppi dirigenti rinnovati. Lo scrivo come tra parentesi, con un po’ di imbarazzo. Ma a indicare vie nuove non possono in linea generale essere gli ufficiali delle battaglie perdute.

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6 commenti a “Vera costituente o vie nuove”

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