Diritto, Femminismo, Temi, Interventi

Lo scorso venerdì 13 maggio la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio del Senato ha presentato un’importante relazione che documenta la vittimizzazione secondaria nelle forme di una violenza istituzionale che le donne subiscono nei procedimenti in materia di affidamento dei figli e delle figlie1: esposte a un intervento autoritario dei servizi territoriali, dei vari consulenti nominati per valutare la genitorialità, soccombono a provvedimenti giudiziari sproporzionati e irragionevoli che ne limitano la responsabilità genitoriale fino ad allontanare da loro i figli e le figlie che rifiutano i padri, finanche con l’uso della coercizione fisica.

Il tutto avviene in assenza di censure sulle loro competenze genitoriali e con la sola accusa di essere madri malevole, manipolatrici e “alienanti”, ovvero da escludere fisicamente dalla vita dei figli e delle figlie per scongiurare il rischio “psicopatologico”, rilevato dagli psicologi forensi e da questi di solito correlato all’assenza della figura paterna nella loro vita2.

Una prassi giudiziaria questa che sta trovando parziale e lento rimedio, rispetto all’attualità della sofferenza arrecata, nella giurisprudenza di legittimità a seguito di ricorsi proposti dinanzi alla Corte di cassazione3 da madri, duramente sanzionate dalle corti di merito per non aver abiurato le critiche mosse alla genitorialità paterna, e che ci parla di una concezione delle relazioni familiari solo in apparenza concepite e regolate dalla legge in modo simmetrico e paritario, ma in concreto connotate da forte disparità non solo nei rapporti personali, ma nella sfera istituzionale.

Una prassi giudiziaria, rafforzata dall’intervento dei servizi sociali e di una pletora di soggetti che a vario titolo valutano e controllano la genitorialità (per lo più materna), che declina nuovamente i diritti genitoriali dei padri nelle forme di munus sui figli e sulle figlie, ridotti a oggetto di “accesso”: in base al grado di accessibilità, cioè di frequenza della presenza del padre, si misura l’idoneità genitoriale della madre, sempre colpevole a prescindere dai concreti comportamenti del padre, anche se gli stessi figli o figlie ne hanno paura.

Esiste un filo rosso che lega queste pratiche giudiziarie documentate dalla Commissione nei confronti delle donne “in quanto madri” e l’imposizione per legge del cognome paterno ai figli e alle figlie, esito di un processo non accidentale di esclusione sessuata4.

Su questo stretto collegamento giuridico, ma prima ancora culturale e sociale, ha richiamato l’attenzione il Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato che ha preso parola al termine della presentazione della relazione sopra richiamata ponendo le seguenti domande: “Che accordo ci può essere fra i genitori laddove l’uno esercita sull’altra violenza, non necessariamente estrema? Quale garanzia che questo accordo rifletta davvero quella volontà condivisa a cui le vicende familiari dovevano essere affidate fin dal 1975 e perché, ancora, la bigenitorialità sarebbe sempre auspicabile a prescindere dai fatti, perché anche quando il bambino ha paura del padre deve essere costretto?”5.

Lo schema logico-giuridico sotteso a queste domande si rinviene alla base della rimessione da parte della Corte costituzionale dinanzi a sé stessa della questione di costituzionalità della disciplina dell’attribuzione del cognome in quanto pregiudiziale rispetto all’esame della legittimità costituzionale dell’art. 262 primo comma del codice civile che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio6.

L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque il cognome del padre?

A partire da questa domanda, ricorda Amato, la giudice costituzionale Emanuela Navarretta ha portato l’intera Corte a riflettere sulle questioni rilevanti in tema di diritti fondamentali e principio di uguaglianza poste dalla generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno, così ribadendo la prevalenza del patronimico, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata riconosciuta, ormai da tempo, dalla stessa Corte, che ha più volte invitato il legislatore a intervenire.

È utile una breve ricostruzione delle questioni rilevanti a partire dalla disciplina oggetto di censura.

La Corte costituzionale è stata chiamata, in più occasioni, a valutarne la legittimità costituzionale in riferimento al principio di uguaglianza tra i genitori e al diritto all’identità personale dei figli, ma anche con riguardo alla salvaguardia dell’unità familiare, sotto la spinta di tante donne che singolarmente e in rete7 hanno guidato negli anni una forte mobilitazione politica, sociale e culturale.

Il cognome costituisce la più evidente forma pubblica di rappresentazione e identità personale. Il nome lega una persona a una storia, a una linea familiare, in modo legale, sociale ed emotivo. La patrilinearità presuppone l’assoluta supremazia della discendenza maschile, negando qualsiasi valore all’ascendenza materna e ritenendola indegna di una rappresentazione simbolica continua; è la logica conseguenza del patriarcato, ovvero della supremazia e del privilegio maschile.

La patrilinearità perpetua la linea maschile a scapito di quella femminile, stabilendo un sistema giuridico di denominazione, eredità e identità di genere. Al soggetto sui iuris nel diritto romano, infatti, si contrapponevano i soggetti giuridicamente dimidiati, perché schiavi o sottoposti al pater familias. La donna libera, scampata all’esposizione, con il matrimonio passava dalla patria potestas alla manus, privata dei diritti patrimoniali, di successione e del nome. A differenza degli uomini, le donne venivano designate infatti con il nome gentilizio e quello familiare, raramente con il prenome individuale e così nella civitas romana passava il messaggio che la donna era solo frazione passiva e anonima di un gruppo familiare8.

I femminismi nel mondo hanno sfidato e continuano a sfidare ovunque il mantenimento legale e consuetudinario di queste gerarchie attraverso l’appropriazione politica del nome. Già nel XIX secolo le donne in Francia lottarono per fare breccia nel codice borghese e patriarcale, chiedendo di abbandonare la patrilinearità e contestando lo status giuridico subordinato delle donne sposate, che peraltro perdevano la propria cittadinanza se il marito fosse stato straniero, non avrebbero potuto trasmetterla ai figli e alle figlie9, e acquisivano quella del marito. In alternativa, hanno promosso la matrilinearità per perpetuare e valorizzare la linea femminile, affermando che la matrilinearità è alla base di uno status giuridico e sociale riconsiderato, più equo per le donne ma anche per la società intera.

Riconoscendo il potere del nome, l’importanza e le conseguenze dell’essere nominate, gruppi di donne politicamente eterogenee – tra cui femministe utopiste, socialiste, rivoluzionarie, repubblicane e liberali – hanno sfidato sistemi patriarcali multiformi integrando la politica nominale nei loro vari progetti femministi e ciascuna ha inteso il matronimico come un perno dell’avanzamento storico delle donne. Il controllo del cognome è emerso come obiettivo femminista vitale, una chiave letterale e simbolica per una dimensione politica autonoma, auto-rappresentativa, storicamente riconosciuta e legata alla genealogia femminile.

Non è un caso che storicamente e in gran parte degli ordinamenti il luogo “naturale” di operatività del matronimico è stato esclusivamente quello dell’illegittimità: l’unica occasione, infatti, in cui la donna ha potuto trasmettere il suo cognome implicava dare la massima pubblicità all’aver concepito fuori dal matrimonio e dunque denunciarsi socialmente quale soggetto deviante, fornendoci la misura di quanto spesso la devianza socialmente costruita coincida di fatto con la ribellione e la liberazione del desiderio10.

A sua volta il figlio o la figlia che porta il matronimico, anche per sua scelta, in una società patriarcale ha fatto il primo passo per capire che il nome è qualcosa che può essere conferito, può essere scelto o può, addirittura, essere creato.

La mancanza o il rifiuto del nome paterno è stata storicamente una forma di esclusione sociale, ma nella pratica sempre di più giovani uomini e donne decidono di cambiare il loro cognome adottando solo quello materno, per prendere distanza dall’assenza, l’incuria ma anche la violenza vissuta, si trasforma così in liberazione sociale, conferendo una libertà reale dalla legge del padre.

Questa legge del padre oggi viene riproposta dinanzi ai tribunali come imprescindibile, anche a costo di procurare traumi irreversibili ai bambini e alle bambine e ciò avviene dentro una cornice di analisi da noti autori contemporanei (cfr. tra i vari M. Recalcati; L. Zoja; C. Risé) divulgate anche in modo accattivante e accessibile, individuando nella «società senza padre» (Fatherless Society), e quindi senza “norma”, il nodo della crisi della società contemporanea, un disagio sociale che va curato “con una nuova Legge, un nuovo Padre e un nuovo Ordine11.

Concausa del pericolo della società senza padri, insieme alla crisi della mascolinità come tradizionalmente costruita12, secondo questa cornice ideologica ammantata da scientificità, sono le donne, contro le quali si è stratificato un repertorio di narrazioni “mother blaming”, che imputano loro, proprio in quanto madri, la responsabilità di tutti i comportamenti definibili come socialmente devianti, in un processo di colpevolizzazione che non avviene mai in forma diretta, ma occultando la critica rivolta alle donne dietro l’elogio dei valori della famiglia tradizionale e le preoccupazioni per una sana bigenitorialità che garantisca pari diritti e doveri per entrambi i genitori, promuovendo il discorso della genitorialità responsabile e cooperativa, a sostegno sia di madri sia di padri, come co-beneficiari di una genitorialità parificata. In questo contesto non si può trascurare che l’attribuzione del cognome materno è certamente rilevante sotto il profilo dell’uguaglianza tra uomini e donne, ma richiama anche l’attenzione sul lavoro culturale ancora necessario perché venga definitivamente accantonata la declinazione in chiave proprietaria della paternità sui figli e le figlie, che devono essere riconosciuti pienamente soggetti di diritti e non più oggetto di potestà solo grazie al femminismo transnazionale.

A oltre quarant’anni dalla riforma del diritto di famiglia (1975) e nonostante la rinominazione giuridica dei diritti e dei doveri dei genitori nei confronti dei figli e delle figlie da potestà a responsabilità genitoriale (Legge n. 219/2013), l’esperienza delle donne dinanzi all’autorità giudiziaria ci fornisce la misura di quanto l’attribuzione del cognome sia ancora inteso quale marchio di appartenenza proprietaria che consente di esercitare controllo sulla vita delle donne, oltre che dei figli e delle figlie, facendo della relazione genitoriale un pretesto per arrecare sofferenza e limitare la libertà personale delle donne che si sono ribellate alla concezione patriarcale della famiglia “la quale affonda – come evidenzia la Corte costituzionale – le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna13.

La prevalenza attribuita al ramo paterno nella trasmissione del cognome e l’acquisizione del cognome maritale è stata giustificata dai codici borghesi fino ad oggi anche con l’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare14, ma anche su questo si è espressa la Corte costituzionale evidenziando che “è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo”, in quanto l’unità “si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità15 e “[l]a perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi […] contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi”16.

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina sull’attribuzione del cognome che non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno17. Questa incostituzionalità comportava un sollecito intervento del legislatore al fine di coniugare la pari posizione dei genitori con il diritto all’identità personale del figlio o della figlia, di cui la genealogia materna è componente centrale: “la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno18. La sentenza n. 286 del 2016 non ha avuto seguito e di conseguenza la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno verrebbe ribadita quando non vi è accordo tra i genitori o questo non sia stato legittimamente espresso ed è verosimile ritenere che si tratti di casi molto frequenti.

In questo quadro la Corte ha ritenuto che posto che il padre non ha bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome, neppure la disposizione del consenso a favore del cognome materno porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori.

Infine, il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., attiene anche alla violazione dell’art. 117, primo comma della Costituzione, in relazione agli artt. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (Divieto di discriminazione) Cedu, sui quali si è espressa la Corte europea dei diritti umani nella sentenza 7 gennaio 2014, ritenendo che la rigidità del sistema italiano costituisce una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando una discriminazione tra i genitori.

In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale del 27 aprile 2022, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina vigente è importante tener presente, come scrive Marie Maclean, che “un nome è sia l’incarnazione di un passato che il potenziale per il futuro19 e il perpetuarsi del patronimico, in adesione alla pretesa maschile che la propria progenie rappresenti nominalmente la propria presenza al mondo è alla base, come suggerisce Gayatri Chakravorty Spivak, della non scalfita volontà di imporre solo le parole maschili per rappresentare il pieno significato del mondo20.

Note

1 La presentazione della relazione è documentata sul sito del Senato, dove è fruibile l’intera videoripresa al link https://webtv.senato.it/webtv_evento?video_evento=240595.

2 Mi sia consentito il rinvio a I. Boiano, Ripartire dai fatti: per un diritto delle relazioni familiari che parta dall’esperienza, Giustizia Insieme, novembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-civile/1358-ripartire-dai-fatti-per-un-diritto-delle-relazioni-familiari-che-parta-dall-esperienza.

3 Da ultimo Corte di cassazione, sezione I, 24 marzo 2022, n. 9691.

4 P. Durish, Citizenship and Difference: Feminist Debates. Introduction to the Annotated Bibliography, Ontario Institute for Studies in Education of the University of Toronto, 2002, p. 2.

5 Dall’intervento del Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato https://webtv.senato.it/webtv_evento?video_evento=240595

6 Corte costituzionale, ordinanza n. 18 del 2021.

7 Si menziona tra le tante impegnate sul tema la Rete per la parità, guidata da Rosanna Oliva de Conciliis.

8 E. Cantarella, L’ambiguo malanno, cit., p.189. Eva Cantarella riprende M. I. Finley, The Silent Women of Rome, in Asepcts of Antiquity, Discoveries and Controversies, London, 1968, p. 131. La privazione del nome proprio è un’esperienza che le donne afghane hanno vissuto fino al 2020, quando a seguito della campagna Where is my name? promossa da Laleh Osmany, hanno ottenuto il diritto a vedere scritto il proprio nome sui documenti d’identità e a chiedere documenti per i loro figli, superando la pratica della loro identificazione come “figlia di”, “moglie di”. In alcuni ordinamenti prendere il cognome maritale è posta quale condizione per accedere a prestazioni socio-assistenziali. Si veda sul tema M. Omura, Why Can’t I keep my Surname? The Fairness and Welfare of the Japanese Legal System, in Feminist Economics, Volume 25, n. 3, 2019.

9 In Italia in base alla legge sulla cittadinanza del 1912, soltanto gli uomini potevano trasmettere la cittadinanza italiana ai propri figli, mentre le donne italiane non ne avevano diritto.

10 T. Pitch, La devianza, La Nuova Italia Editrice, Firenze. 1975-1982, p. XI. Si veda anche V. Verdolini, Devianza/Questione criminale/Sicurezza, in A. Simone, I. Boiano, A. Condello, Femminismo giuridico. Teorie e problemi, Mondadori università, 2019, p. 41.

11 G. Petti-L. Stagi, Nel nome del padre. Incursione nei territori della paternità, Ombre Corte, 2015, p. 9.

12 Sul tema si rinvia a S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, 2009; L. Gasparrini, Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni, Settenove, 2016

13 Corte costituzionale, ordinanza n. 61 del 2006.

14 Sul cognome maritale nei sistemi di Common law, interessante e ricco l’articolo D. Anthony, Eradicating Women’s Surnames: Law, Tradition, And The Politics Of Memory, in Columbia Journal of Gender and Law, Volume 37, n. 1, 2018.

15 Corte costituzionale, sentenza n. 133 del 1970.

16 Corte costituzionale, sentenza n. 286 del 2016. Si veda tra i vari, i pregevoli commenti di Antonella Anselmo, avvocata che ha rappresentato la Rete per la parità nell’atto di intervento dinanzi alla Corte costituzionale, e impegnata nella promozione di una riforma legislativa coerente con i principi sanciti dalla Corte costituzionale in materia.

17 Corte costituzionale, sentenza n. 286 del 2016.

18 Ibidem.

19 M. Maclean, The Performance of Illegitimacy: Illegitimacy: Signing the Matronym, in New Literary History, n. 25, p. 94.

20 G. G. Spivak, Displacement and the Discourse of Woman, in N. J. Holland, In Feminist Interpretations of Jacques Derrida, University Park: Pennsylvania State University Press, 1997, p. 44.

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