Idee

divagoNell’ultimo anno sono diminuite del 10% le immatricolazioni all’università. Un risultato clamoroso, inaspettato e preoccupante. Da dieci anni quel dato era sempre in crescita e sembrava possibile recuperare seppure lentamente lo storico ritardo della nostra dotazione di laureati, circa la metà rispetto all’Europa. Potrebbe essere lo scricchiolio di una trave che annuncia una debolezza strutturale dell’edificio. D’altronde, senza una svolta, sarebbe l’esito scontato dopo un lungo periodo di sedicenti riforme, di tagli permanenti e di blocco del ricambio generazionale dei docenti.

Sull’edificio indebolito si è fatto sentire il maglio della crisi provocando i primi cedimenti. Anche se le cause sono evidenti bisognerebbe studiare il fenomeno in profondità – ad esempio le variazioni nei territori e nelle discipline – e soprattutto individuare adeguate politiche di contrasto. Invece, un velo di silenzio copre il problema e addirittura quest’anno il ministero non fornirà neppure i dati sullo stato dell’università italiana, rompendo la sequenza degli ottimi Rapporti predisposti per circa tre lustri dal Cnvsu (www.cnvsu.it). La questione non riguarda solo gli analisti, anzi dovrebbe suscitare una grande discussione nazionale. Dovrebbe essere la prima notizia al tg della sera, dovrebbe inchiodare i discorsi politici, dovrebbe essere al centro dell’agenda di governo. Soprattutto se ne dovrebbe occupare il ministro dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, se non avesse la testa altrove. Nella sua ultima proposta di legge l’emergenza nazionale consiste nell’organizzazione delle Olimpiadi dei migliori studenti. E’ certamente una simpatica iniziativa che già oggi viene realizzata in autonomia da diverse scuole e dalle associazioni di volontariato. Non si capisce perché debba essere regolata dalla legge e statalizzata nella gestione. Non c’è alcun motivo pratico, c’è solo un messaggio ideologico, una sorta di ripresa dei Littoriali, come ha ricordato lo storico Piero Bevilacqua.

Ancora più incredibile è l’intenzione di approvare urgentemente una norma per favorire nell’accesso all’università gli studenti che si diplomano con pieni voti. Nella foga di conquistare le prime pagine dei giornali il ministro non si è accorto che la legge esiste già, anzi il suo ministero finora ha fatto di tutto per non attuarla e addirittura ha chiesto al Parlamento, con il decreto mille proroghe (d.l. 216 del 2011, art. 8), di derogare una specifica norma che allo studente migliore assegna un punteggio superiore per l’ammissione alle facoltà con numero chiuso, ad esempio Medicina (d.l.vo n. 21 del 2008). Uno scarto preoccupante tra le parole e i fatti.

Si potrebbe fare spallucce pensando che tutto sommato anche questo disegno di legge si rivelerà inutile, come è accaduto per tanti altri annunci epocali della Moratti e della Gelmini nel decennio più triste dell’università italiana. Siamo ormai abituati, purtroppo, a questo populismo legislativo che porta in Parlamento sempre nuove leggi, senza alcuna utilità pratica, ma solo per dare l’impressione all’opinione pubblica che si vuole fare sul serio. Eravamo ormai abituati a questo trucco dei vecchi politicanti, ma è triste constatare che perfino il governo tecnico perde tempo con la retorica.

Forse è una malattia endemica che riguarda l’intero establishment in questo passaggio di crisi nazionale. C’è una tendenza a divagare dai reali problemi del paese, perché è diventato troppo difficile affrontarli seriamente e si preferisce distrarre l’opinione pubblica su argomenti più futili e facilmente manipolabili attraverso i mass-media.

Prima la tendenza allo sviamento si esprimeva nei modi buffoneschi e oggi prende le sembianze dell’algida tecnocrazia. Entrambi sono il sintomo di un “comportamento narcisistico che si rifiuta di cogliere la realtà e si abbandona ad una rappresentazione onirica dei problemi nazionali”, secondo quel carattere riluttante delle attuali classi dirigenti italiane analizzato con acutezza da Carlo Galli nel suo ultimo libro (I Riluttanti, Laterza, p. 32).

L’analisi si applica alla perfezione alla Divagazione di Profumo e ne mette in luce gli effetti sociali, conservatori, ideologici e semplicemente furbeschi.

Divagazione sociale

Tutto la solfa sul merito serve a eludere la falla sociale che si è aperta nella scuola e nell’università. Le famiglie e i giovani che non proseguono gli studi percepiscono, anche senza conoscere le statistiche, una diminuita utilità della laurea per ottenere un lavoro dignitoso e ben retribuito. Inoltre, l’assenza di uno standard europeo nel diritto allo studio diventa insostenibile sotto i costi della crisi e costringe alla rinuncia agli studi. Affrontare questi problemi richiederebbe grande impegno riformatore e ampie risorse economiche. E’ più facile ricorrere alla distrazione di massa della chiacchiera sul merito, anche a costo di cambiare le carte in tavola.

Se da un lato il nostro sistema formativo fatica a mantenere agli studi i ceti sociali svantaggiati, come ha riconosciuto perfino la fonte non sospetta della Fondazione Agnelli, dall’altro è certamente in grado di riconoscere i meriti degli studenti. Il problema semmai si presenta dopo gli studi perché l’organizzazione sociale e l’arretratezza imprenditoriale non mettono a frutto i meriti dei laureati. La contraddizione è massima nella stessa università che valorizza i giovani migliori portandoli ai massimi livelli di formazione – prova ne sia che ricevono ponti d’oro all’estero – ma non sempre li riconosce quando bussano alla porta per diventare ricercatori. In ogni caso, la questione merito non riguarda il sistema formativo, bensì il modo perverso di valutare le persone da parte del mondo del lavoro pubblico e privato.

Si accendono i riflettori sul merito negli studi che funziona discretamente e si trascura chi abbandona la formazione e chi non trova lavoro con fior di lauree.

Divagazione conservatrice

Lo sviamento è rivolto all’opinione pubblica, ma il ministero è consapevole del fenomeno di abbandono dell’università e rischia di assecondarlo con questo disegno di legge. Si riforma per conservare meglio l’esistente. Infatti, con la scusa di una sacrosanta esigenza di rafforzare gli strumenti di orientamento dei giovani nella scelta dell’università si stabilisce l’obbligo di test d’ingresso generalizzati.

Anche in questa materia le leggi esistono già dal 1999 e vincolano al test attitudinale solo per l’iscrizione ai corsi di laurea a numero chiuso (l. 264), rinviando ai regolamenti didattici di ateneo l’accertamento delle conoscenze necessarie per tutti gli altri (d.m. 509). Da questo contesto giuridico sono scaturite esperienze molto differenziate che vanno da ottime iniziative di recupero dei deficit formativi fino all’opposto di velati scoraggiamenti dell’accesso. Logica vorrebbe che si traesse un bilancio del lavoro fatto per poi eventualmente proporre una legge capace di generalizzare le buone pratiche. Invece si propone un nuovo editto che impone l’obbligo del test in tutte le discipline. Potrebbe sembrare una buona iniziativa, ma rischierebbe di diventare negativa in mancanza di una condizione essenziale.

Se, infatti, il test cambiasse status passando da iniziativa conoscitiva dell’ateneo a vincolo normativo di carattere generale si dovrebbe indicare quali conseguenze avranno i risultati negativi. Se fosse davvero una riforma dell’orientamento la proposta di legge dovrebbe stabilire anche precisi obiettivi, strumenti efficaci e adeguati finanziamenti che mettano in condizione il sistema di aiutare quei giovani a compensare le lacune formative al fine di prepararli adeguatamente. Fissare il vincolo senza organizzare l’opportunità avrebbe l’effetto di un ulteriore scoraggiamento verso l’accesso all’università. Nei fatti gli atenei potrebbero essere indotti ad abbandonare quei giovani come conseguenza dei tagli finanziari, dei blocchi di concorsi e delle norme capestro sull’offerta didattica.

La proposta aiuta per la discesa l’attuale diminuzione delle immatricolazioni. In tal modo l’Italia rivela il suo disinteresse verso gli obiettivi europei di aumento del numero dei laureati. Non è cosa da poco per un governo che ha quasi divinizzato gli standard europei quando si trattava di tagliare le pensioni e di aumentare la facoltà di licenziamento.

Divagazione ideologica

Il disegno di legge contiene un’esasperazione ideologica nella monetizzazione del merito negli studi. In diversi articoli si premia il successo scolastico con la ricompensa monetaria, che può risultare inutile o dannosa.

Inutile perché al meritevole figlio di papà non serve certo la paghetta di Stato. Si potrebbero risparmiare queste risorse e impegnarle a favore dei meritevoli con basso reddito, visto che proprio la carenza di fondi per il diritto allo studio costituisce la principale arretratezza italiana rispetto all’Europa. A tutti i meritevoli, sia ricchi sia poveri, si dovrebbero poi offrire scuole di specializzazione e attività di ricerca.

Il danno è invece di tipo culturale. Le famiglie borghesi di una volta si dividevano in due categorie, una premiava con una mancia il figlio che aveva superato gli esami e l’altra lo esortava dicendo: “Bravo, hai fatto il tuo dovere, il premio del sapere è il sapere”. La prima era l’Italietta provinciale e corporativa, la seconda ha creato quel che c’è di meglio nello spirito pubblico nazionale.

Per il futuro non possiamo affrontare la società della conoscenza con gli stereotipi del primo della classe. Se c’è un dato peculiare della produzione culturale contemporanea è proprio nell’accentuazione della relazionalità dei saperi, della forza dei contesti cognitivi, della contaminazione delle differenze, come spiega Mauro Ceruti in un illuminante commento al disegno di legge. La creatività dei nostri figli sarà sempre più sociale. Sono rimasti solo i tecnocrati a credere nell’individuo isolato e mercificato.

Di questa ossessione ideologica è frutto l’articolo che stabilisce un incentivo fiscale a vantaggio del giovane assunto a tempo indeterminato. Un vero unicum nella legislazione fiscale europea. Finora si erano visti incentivi alle imprese che assumono. Qui invece si incentiva il giovane a cercare lavoro stabile, che è come aiutare l’acqua a scendere a valle. Si potrebbero utilizzare più efficacemente queste risorse per creare nuovi posti di lavoro. A meno che l’articolo non voglia dire che è colpa della svogliatezza dei giovani se non trovano il lavoro a tempo indeterminato! Ma era stato proprio il presidente Monti a consigliare ai giovani di dimenticare il posto fisso che ora invece si vorrebbe premiare per via fiscale. Infine, l’incentivo è riservato solo a chi ottiene il massimo dei voti nel diploma. Così, si attribuisce un valore fiscale al titolo di studio, in aggiunta al valore legale che il governo solo qualche mese fa voleva cancellare. La retorica applicata alle leggi produce effetti surreali.

Divagazione furbesca

Infine, con la scusa del merito si voleva cambiare per l’ennesima volta la disciplina concorsuale. E’ la vera ossessione di tutti i ministri. La Moratti promise una legge miracolosa che non produsse alcun effetto, ma bloccò i concorsi per quattro anni. Mussi nell’ultima settimana della legislatura ripristinò le regole di Berlinguer e partirono alcuni concorsi che non riescono ancora a giungere in porto. I ritardi derivano dal fatto che la Gelmini, su suggerimento di Giavazzi, cambiò le regole in corso d’opera e poi bloccò le procedure per altri quattro anni con la scusa di una nuova legge contro i nepotismi. Ora ci dicono che quella legge tanto osannata dai media e dalle burocrazie accademiche – compreso il rettore Profumo – fa acqua da tutte le parti e si deve ricominciare da capo.

Potremmo essere contenti, perché finalmente si riconosce che avevamo ragione quando nel dibattito parlamentare criticammo le norme della 240. Infatti, oggi al ministero si sono accorti che l’abilitazione senza limiti quantitativi rischia di produrre in breve tempo decine di migliaia di abilitati che non riusciranno a entrare nell’università creando una forte tensione per nuove ope legis.

E’ stata fatta circolare informalmente l’ipotesi di un’abilitazione a numero chiuso ma questa comporterebbe una comparazione tra candidati e di fatto diventerebbe un vero e proprio concorso nazionale. Il ministero così cadrebbe in una palese contraddizione, poiché se i dipartimenti venissero completamente spodestati della scelta sui propri docenti diventerebbe del tutto inutile l’armamentario ormai predisposto per la valutazione.

E soprattutto oggi si ammette che la tenure track non funziona perché gli atenei non dispongono neppure delle risorse dell’anno in corso e certo non sono in grado di accantonare i finanziamenti per le assunzioni degli anni successivi.

Ha suscitato ampio sconcerto il tentativo di ricominciare da capo. Per quasi un decennio infatti i concorsi sono stati bloccati con la scusa di migliorarne le norme. Il sospetto che si voglia continuare in questo modo è forte, anche se, dopo le critiche ricevute, il ministro sembra aver rinunciato a questa parte del suo disegno di legge. Ma che ci sia l’intenzione di frenare i concorsi è dimostrato da una furberia nascosta in un’altra normetta che renderebbe obbligatoria la consuetudine di alcuni atenei di imporre l’attività didattica anche agli assegnisti di ricerca. Ai rettori che a causa del blocco non sanno come coprire i posti di professori si offrirebbe la possibilità di disporre a piacimento di una forza lavoro sottopagata e senza diritti.

Ci sarebbe altro da fare per risolvere i difetti che si sono appalesati nell’attuazione della 240. Per risolvere l’eccesso di abilitazioni e il bassissimo numero di tenure track basterebbe eliminare il blocco del turn over dando la possibilità agli atenei di utilizzare le cospicue risorse che si liberano con i pensionamenti. E’ una decisione urgente e in un certo senso anche obbligata. Infatti, come abbiamo dimostrato nella discussione parlamentare sul decreto legislativo per gli organici (http://www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?article356), per l’anno prossimo le norme fissate sulla limitazione del turn over sono chiaramente incostituzionali a causa dell’eccesso di delega rispetto alla legge 240. Oltretutto, non c’è alcuna esigenza di controllo della spesa pubblica che imponga tale limitazione – è solo un equivoco propalato dai burocrati del ministero dell’Economia e accettato supinamente dal Miur – poiché la legge di stabilità fissa già un limite insuperabile nello stanziamento del Fondo di finanziamento ordinario che gli atenei non possono forzare in alcun modo.

Dopo la marcia indietro sulla revisione delle regole concorsuali, il ministero ha emanato il decreto sulle abilitazioni. Sembra quindi che si voglia procedere ormai speditamente, ma è legittimo qualche dubbio. Si è voluto prendere una strada impervia che potrebbe produrre nuovi ritardi nella fase attuativa. La scelta della mediana come criterio di accesso all’esame di abilitazione e di selezione dei membri delle commissioni presenta infatti molti aspetti problematici, come è stato messo in luce dagli analisti del sito www.roars.it. Prima di tutto si dovranno calcolare, e non sarà banale, i valori per ciascuna disciplina definendo i soggetti che ne fanno parte. Ciò significa che in poche settimane il ministero dovrà completare il lavoro che non è stato capace di fare negli ultimi quattro anni, poiché fu un decreto del 2008 a istituire l’anagrafe dei professori e dei ricercatori. Inoltre, la definizione della mediana farà emergere diverse criticità formali e sostanziali. Ci possono essere distribuzioni plurimodali all’interno di ciascuna disciplina, oppure settori più forti che prevalgono su quelli più deboli, oppure una mortificazione di preziose attività di ricerca interdisciplinare. L’applicazione dello stesso criterio alla scelta dei membri delle commissioni avrà l’effetto di sancire con decreto ministeriale che la metà dei professori di ruolo sono inadatti a giudicare i pari. E’ una pesante delegittimazione del sistema universitario come nessun altro paese europeo si è mai sognato di fare. Una decisione di tale portata, presa con un atto amministrativo in contrasto con la legge che stabilisce diritti e doveri dei professori, non mancherà di suscitare ampi contenziosi e ulteriori motivi di ritardo. E tutto ciò senza pensare agli innumerevoli problemi interpretativi e alle contraddizioni che accompagnano soprattutto in Italia l’attuazione di una nuova e complessa normativa.

C’era davvero bisogno di ricorrere ad un’impostazione così problematica? Non era più semplice assumere le pubblicazioni come indicazioni di massima da valutare in sede di commissione giudicatrice? Pare si voglia, sotto l’enfasi delle riforme epocali, rinsaldare gli antichi difetti nazionali. Gli osservatori internazionali sono sempre più strabiliati dalla nostra capacità di complicare le cose semplici, come si legge, ad esempio, in un articolo del 2009 della rivista Nature: “Italians are familiar with fine-sounding reforms that fail to actually change things”.

Il ministero può rimanere vittima delle proprie macchinazioni, non si sa per scelta consapevole o per incidente tecnico. In ogni caso è molto probabile che la macchina si inceppi e che a quel punto ritorni in campo l’intenzione di ricominciare da capo con nuove regole per i concorsi.

Tutto ciò è un contributo al dibattito? Così hanno voluto valutarlo autorevoli commentatori nei giorni scorsi. Non abbiamo bisogno della chiacchiera da salotto sulla meritocrazia. Tanto meno di una discussione infarcita di luoghi comuni e del tutto inconsapevole dei migliori contributi internazionali sulla questione del merito (ad esempio, Michael Sandel di Harvard).

L’università italiana è sfiancata dai dibattiti giornalistici e dalle continue divagazioni dell’ultimo decennio. Bisogna prendersi cura dei problemi reali troppo a lungo rimossi.

Sarebbe il momento di archiviare le ricette che hanno dominato il campo della politica universitaria da troppo tempo. Sarebbe il momento di scrivere una nuova agenda della riforma. In molti avevamo sperato che il ministro Profumo potesse aiutare a voltar pagina e invece dobbiamo constatare che ha lo sguardo rivolto all’indietro.

Tuttavia c’è un fiorire di iniziative, di elaborazioni analitiche e propositive, di gruppi che condividono progetti, di studenti che si mobilitano, di giovani che non si rassegnano all’esistente. Di tutto questo fermento il centrosinistra dovrà raccogliere la linfa per elaborare il programma di una vera riforma dell’università per i prossimi anni.

Anche noi, come Crs, daremo un contributo in questa direzione offrendo un sede di discussione e di approfondimento. Colgo l’occasione per invitarvi al prossimo seminario che si occuperà di questi temi, il 5 luglio a Roma in via Galilei 57, alle ore 14. 30.

Grazie per l’attenzione.

Walter Tocci

scarica il documento completo in versione PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *