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Articolo pubblicato su “Transform! Italia” il 21.05.2025: https://transform-italia.it/il-ruolo-di-ingrao-nella-storia-del-comunismo-italiano/

Pietro Ingrao fu per tutta la sua vita politica un dirigente di primo piano del Partito Comunista Italiano anche se il suo ruolo nella prima fase di attività era rivolto prevalentemente all’attività giornalistica. Fu infatti per un lungo periodo direttore dell’Unità in tempi di guerra fredda, di egemonia staliniana sul movimento comunista internazionale e di aspri conflitti sociali nei quali la polizia, diretta o meno da Scelba, usava con facilità le armi contro manifestati e scioperanti.

In quanto dirigente del PCI incarnò, a partire dall’inizio degli anni ’60, una posizione politica che lo collocava alla sinistra del partito e alla fine degli anni ’80 si oppose con decisione al suo scioglimento e alla svolta occhettiana.

Presso l’Aula dei gruppi parlamentari della Camera si è tenuto, il 13 maggio scorso, un convegno dedicato all’opera politica di Pietro Ingrao con interventi dello storico Francesco Giasi e di figure che nel tempo e da posizioni diverse hanno incrociato l’azione dell’esponente comunista: Walter Tocci, Luciana Castellina e Massimo D’Alema.

Un bilancio del contributo politico e teorico di Ingrao alla storia del comunismo italiano è ancora largamente da stilare e si può auspicare che le iniziative previste a partire da quella già realizzata consentano di approfondire una valutazione che non resti solo nella dimensione storiografica o memorialistica.

In questo articolo vorrei solo riprendere qualche spunto emerso dall’intervento di Walter Tocci che mi è sembrato per diversi aspetti come il più originale. Esponente comunista romano, Tocci parte da una premessa che mi sembra meriti subito una riflessione. Gli interrogativi sul ruolo di Ingrao, oltre a rischiare di estrapolare il contributo individuale da una storia collettiva, risultano ormai scollegati da un progetto politico in atto. Come in parte avviene anche per Berlinguer, soprattutto dopo il successo del film con Elio Germano, che Tocci ha richiamato, chi si occupa di questi dirigenti comunisti lo fa avendo però abbandonato la sfida che essi si ponevano: la costruzione di un partito comunista di massa nel contesto di una formazione capitalistica peculiare come quella italiana, a partire dall’esperienza storica del Partito Comunista Italiano e dell’apporto originale che esso diede all’anticapitalismo.

Si può dire che nessuna forza politica interpreti oggi pienamente un rapporto di continuità critica con quell’esperienza e con il suo apporto teorico, politico e organizzativo. Rifondazione Comunista è certamente nata con quel duplice obbiettivo, opporsi alla liquidazione di un patrimonio e contemporaneamente reinventarlo adattandolo alla nuova fase storica aperta dall’affermazione del neoliberismo e dal crollo dell’Urss.

Ma dentro Rifondazione si sono andate formando diverse tendenze che si sono divaricate rispetto al progetto iniziale. C’è chi ha proposto una lettura continuista e formalista che ha irrigidito quel patrimonio politico dandone, oltre tutto, una interpretazione eccessivamente istituzionale, in continuità per più versi con la “destra” del PCI ma in direzione diversa dalla sua versione “migliorista”. Dall’altra vi è stato chi ha pensato che ormai quel patrimonio, al di là di qualche omaggio formale, fosse esaurito e andasse sostituito da una visione complessiva del rapporto partito-società, del rapporto tra azione istituzionale e inserimento nei conflitti, basata su uno schema diverso da quello sul quale si era formato il PCI, richiamandosi a correnti, più o meno minoritarie, del socialismo di sinistra. Operazione che, evidentemente, non ha dato i risultati sperati, come era forse inevitabile data la sua debolezza teorica.
Walter Tocci sostiene la tesi che i dirigenti comunisti succeduti alla guida del partito dopo la morte di Togliatti non abbiano fatto altro che cercare di perpetuare il partito togliattiano risultato, sottolinea, di un “capolavoro politico”. Non c’è dubbio che Togliatti riuscì a muoversi realisticamente dentro i vincoli imposti dal contesto internazionale e dalla realtà italiana, trasformando quei vincoli in elementi di forza.
Sicuramente sono prevalenti a sinistra visioni sommariamente liquidatorie dell’esperienza togliattiana e del partito che ne derivò, anche se non manca, almeno da chi proviene da quella storia, qualche rimpianto nostalgico. Nostalgia accentuata dal bilancio piuttosto misero della storia che ne è seguita, non solo per chi ne è uscito “da destra” ma anche per chi ha cercato di uscirne riproponendo vecchie ricette “di sinistra”.

Condivido il giudizio di Tocci sul “capolavoro politico” da cui però discende l’interrogativo se si tratti ormai di un oggetto consegnato alla storia e quindi da affidare al lavoro, indispensabile, degli storici, oppure ci siano ancora elementi che possono essere vitali anche per affrontare la sfida odierna. Propendo per la seconda ipotesi, il che richiede di riconsiderare una serie di elementi costitutivi di quel modello di partito e di valutarne le indicazioni di metodo che possono essere ancora utili per l’oggi.

Mi convince meno il suggerimento di Tocci secondo il quale i gruppi dirigenti successivi si sarebbero limitati ad amministrare l’eredità togliattiana. La direzione di Longo, anche se inizialmente schiacciata sulle posizioni della destra amendoliana, seppe fare scelte importanti, in particolare in rapporto al movimento del ’68 e della vicenda praghese. Lo stesso bilancio berlingueriano non è di mera continuità. Per certi versi anche Berlinguer si ritrovò a ripercorrere una strada simile a quella del suo predecessore. Dopo aver governato il partito alleandosi principalmente con la destra interna (con l’effetto negativo che questo ebbe nella gestione della strategia del compromesso storico) si dovette poi spostare a sinistra per uscire dalle secche nel quale il partito si era trovato. La seconda fase della leadership berlingueriana fu un tentativo, non riuscito anche perché rapidamente abbandonato dopo la sua scomparsa, di ripensare il partito togliattiano. E anche questo è un bilancio non ancora del tutto compiuto.

Venendo al contributo più diretto di Ingrao, Tocci esamina alcuni passaggi della storia del PCI e del ruolo che in esso ebbe il leader della sinistra interna. Cerca di smentire, mi pare e se è così è del tutto condivisibile, la rappresentazione di Ingrao come “l’eretico” o “il sognatore”. In questo modo si rischia di evadere dall’analisi delle diverse proposte politiche che Ingrao ha sostenuto e degli elementi teorici e politici di possibile validità per l’oggi.

La vicenda più nota è quella che portò all’undicesimo congresso, alla sconfitta di Ingrao e alla, parziale, emarginazione della sinistra nel partito. Giustamente Lucio Magri, nel “Sarto di Ulm”, invita a rileggere quel confronto fuori da schemi semplicistici e a cogliere la complessità e la ricchezza delle posizioni in campo. La necessità di aggiornare gli schemi ideologici acquisiti, di analizzare in modo nuovo l’evoluzione del capitalismo e quindi di ridefinire una nuova strategia erano già impliciti nell’ultima fase della guida di Togliatti. Non era solo l’ultimo testo politico (il memoriale di Yalta) ad attestarlo ma una serie di scelte che Togliatti compiva attraverso la direzione di Rinascita e l’apertura di dibattiti in cui si potevano confrontare a tutto campo le diverse posizioni presenti sottotraccia nel partito. Nella sua gestione del settimanale venne accusato di dar vita a troppi dibattiti e anche rileggendo oggi la rivista si coglie una apertura a posizioni e stimoli molto più ampia e diversificata di quanto si era praticata negli anni ’50. Importanti in questo senso furono il Convegno sulle tendenze del capitalismo del 1962 come il dibattito tra filosofi in cui si schierarono coloro che difendevano (a volte con argomenti nuovi) lo storicismo e altri che esplicitamente lo contestavano. Aprì la strada anche a un esame della storia del PCI che uscisse dal mito (e dalle falsificazioni in stile staliniano a cui pure egli stesso non si era sottratto) contribuendo a ricostruire la storia delle origini del PCI e pose anche il tema di ripensare Gramsci fuori dai limiti che pure il suo uso di partito, pur molto fecondo, l’aveva incasellato. Togliatti cercava di creare le condizioni affinché il suo partito andasse in una qualche misura oltre l’esperienza storica che egli aveva incarnato. Non cercava un successore fotocopia ma piuttosto il rafforzamento di un gruppo dirigente che, nella sua pluralità, sapesse percorrere strade nuove, interrogandosi nel cammino. Un merito non da poco.

Mi pare che Tocci non segua del tutto il consiglio di Magri sullo scontro intorno all’undicesimo congresso, vedendo da un lato una linea, quella amendoliana, che avrebbe portato alla formazione di un partito socialdemocratico che quanto meno avrebbe potuto accedere al governo perché non più ostacolato dall’appartenenza comunista e dall’altra una prospettiva, quella ingraiana, che avrebbe consentito al PCI di integrare pienamente ciò che sarebbe emerso dal ’68.

Certamente la visione ingraiana e di altri, provava a delineare una strategia che portasse il partito a misurarsi con le contraddizioni nuove (o ridefinite in forme nuove) del capitalismo, ma il rapporto tra modernità e arretratezza nella realtà italiana non si è mai del tutto sciolto in modo lineare e da qui la necessità di tenere insieme tutti i lati della contraddizione (come riconosceva lo stesso Libertini che in quegli anni era certamente più vicino ad Ingrao anche se esterno al PCI proveniente da una formazione non togliattiana).

In altri momenti successivi, Ingrao decise di non dare apertamente battaglia anche se fu critico del compromesso storico. In extremis, come ricorda Tocci, decise di non differenziarsi da Occhetto nell’ultimo congresso che precedette quelli destinati a sciogliere il partito. Il documento era già stato scritto con la collaborazione di Lucio Magri, ma alla fine decise di non andare a uno scontro aperto e forse questo (come pensava allora lo sparuto gruppetto dei “comunisti autoconvocati”) avrebbe aiutato la prospettiva di chi poi si oppose allo scioglimento del partito.

Nell’ipotesi della storia controfattuale ci si può chiedere quale esito avrebbe avuto la storia della sinistra se Ingrao con altri avesse deciso di non aderire al PDS (scelta che si rivelò del tutto inefficace ad arrestare la deriva di fondo di quel partito e le sue successive trasformazioni) ma di sostenere il progetto di Rifondazione Comunista. Ma i nodi politici, teorici e organizzativi erano comunque complessi e Ingrao era consapevole che in quella fase il suo ruolo era più di proporre interrogativi e spunti di analisi piuttosto che soluzioni operative.

Un bilancio complessivo dell’opera di Ingrao richiederebbe una lettura dei suoi molti interventi e un’analisi critica degli spunti teorici che essi contengono. Un lavoro non semplice perché spesso espresso in indicazioni problematiche piuttosto che in formulazioni apodittiche. Ma molti di quegli interrogativi sono ancora in gran parte di fronte a noi e alcune delle risposte possono ancora essere valide. Forse questa ricerca spetterebbe innanzitutto a chi non considera liquidata e liquidabile la tradizione storica del comunismo italiano (non riducibile al solo PCI) senza che questo renda più difficile la ricostruzione di una politica anticapitalista di massa in Italia e non solo.

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