Interventi

Con la sospensione degli account del Presidente Trump su Twitter e Facebook, in occasione delle sue esternazioni circa l’assalto a Capitol Hill, si è riaperto il dibattito sul rapporto tra social network e politica, una discussione che, a partire dal caso Cambridge Analytica, andrebbe posta al centro di quella sul futuro delle democrazie.

Si è gridato alla censura della libertà di espressione, dimenticando che il “Trump ban” ha riguardato un Capo di Stato, il Presidente per eccellenza, e non un qualsiasi utente di Twitter. I titolari di cariche come quella del Presidente USA, va dunque precisato, esercitano poteri, e non diritti. Non pare superfluo ricordare che i diritti fondamentali nascono proprio dalla contrapposizione tra i cittadini che ne sono titolari e il potere pubblico, che in relazione ad essi va limitato. Insomma, segnalare che il Presidente twittava, utilizzando il mezzo “da privato cittadino”, avendo peraltro a disposizione una pluralità di altri possibili mezzi di informazione ufficiali, e ricordare che quando un esponente politico twitta si veda applicare le stesse regole di condotta del network che si applicherebbero a qualsiasi privato cittadino pare necessario. Ma quelle regole sono giuste? Sono soddisfacenti per gli standard delle democrazie costituzionali?

Il contesto nel quale bisogna collocare questo ragionamento è quello di un conflitto tra chi esercita diritti su di una piattaforma commerciale e chi la gestisce, talvolta mascherato dalla configurazione “comunitaria” dei network. Vanno insomma evitate quelle letture, pure suggestive, che stemperano in modo fuorviante la natura asimmetrica dei rapporti di forza in rete, nell’idea dei social come “formazioni sociali”, di “luoghi neutri”, o di “libero mercato delle idee”. Ci troviamo infatti in un contesto in cui si ripropone amplificata la secolare contrapposizione tra poteri e diritti, e questo profilo deve prevalere su ogni altro se vogliamo decifrare i processi in atto.

Venendo alla rimozione dei contenuti operata sui social, sappiamo che essa viene definita “censura collaterale”: il potere pubblico tra le opzioni di considerare sempre responsabile il social per i contenuti che ospita, e che non può materialmente controllare tutti, e quella di considerarlo sempre irresponsabile, ha individuato il meccanismo del “notice and take down”, ossia ne rispondi se non lo rimuovi, spingendo i social alle operazioni di “rimozione” di contenuti o “sospensione” di account. Tale meccanismo innesca una sorta di privatizzazione della censura, che si svolge con modalità inquisitorie, da parte di soggetti (operanti all’interno e per conto dei network) che applicano una scala di valori contenuti nelle condizioni di utilizzo delle diverse piattaforme. Il senso di questa censura si aggrava ovviamente quando quella esercitata è libertà di informazione. Ma se siamo ospiti su una piattaforma commerciale, di cui accettiamo all’accesso le regole di utilizzo, possiamo ritenere forse che stiamo esercitando la libertà di espressione o di comunicazione, più che il diritto ad informare, giacché sottoscriviamo all’ingresso le regole del gioco?

La libera informazione, potendo ancora contendersi coi social l’esistenza di un “altrove” per l’informazione in rete, come giustifica l’adesione alle piattaforme, ma la non accettazione delle relative regole?

Il problema della libertà di espressione si incrocia sui social con la questione dei dati (su cui v. il workshop del CRS). La stessa Corte suprema USA ha abbandonato la dimensione meramente difensiva della privacy, passando ad una dinamica, in cui si ammette che i dati sono un bene di enorme rilevanza economica, oltre che cruciali per incidere sul processo democratico: Cambridge Analytica insegna. Le infrastrutture che consentono di esprimere il pensiero sono oggi insomma quelle che consentono di controllare e indirizzare il pensiero e di esercitare una nuova forma di sovranità.

A fronte di questi fenomeni, la regolazione sin qui posta dall’UE, per sua stessa natura e per le competenze previste nel Trattato, è stata prevalentemente orientata a disciplinare il mercato nei nuovi media, ed è rimasto scoperto il versante dei diritti fondamentali e principi costituzionali: l’informazione, la dignità umana, la privacy, temi su cui le Corti ogni tanto vengono chiamate a mettere un argine, e le autorità statali competenti in materia (nel caso italiano addirittura tre), hanno qua e là tagliato le unghie ai network, talvolta con sanzioni salate (Antitrust), talvolta fissando prescrizioni relative a specifiche competizioni elettorali. Il tentativo del GDPR e del Garante dei dati personali, di enfatizzare il ruolo del consenso, fotografa la situazione attuale: otteniamo l’accesso gratuito ai social, in cambio di dati personali che non sarebbero contendibili. Una battaglia persa insomma, in cui diritti inviolabili sono stati attratti alle logiche del mercato.

I social, come si diceva, si danno regole di condotta, “standard della comunità”, che tuttavia non possono essere ritenuti una garanzia sufficiente rispetto all’influenza impropria dei poteri, o per la garanzia di diritti. L’Ue da ultimo (dicembre 2020) ha presentato la proposta di regolamento Digital services act. Regolare alcuni degli aspetti più problematici in termini di diritti, l’accesso degli utenti nel proprio paese a strumenti di garanzia circa le procedure di rimozione dei propri contenuti, e soprattutto una maggiore trasparenza in vista di un controllo sugli algoritmi a tutela della democrazia, potrebbe essere un passo avanti importante. Sarà insomma possibile sapere chi ci influenza e gli Stati potranno ottenere le relative informazioni.

In attesa di ciò, pare urgente che anche il sistema dell’informazione trovi al proprio interno anticorpi per offrire una risposta. Se non è più il tempo in cui si poteva considerare peculato l’utilizzo di Facebook dalla postazione durante l’orario di lavoro, non si può assistere a un giornalismo che acquisisce le esternazioni dei politici dai social e le rilancia, non solo venendo meno alla deontologia, ma obliterando la propria ragion d’essere. Il fondatore di Twitter da questo punto di vista “supera a sinistra” un mondo dell’informazione addormentato, quando il 30 ottobre 2019 decide di non consentire più l’acquisto di spazi per l’informazione politica perché ritiene che “political message reach should be earned, not bought”1. Certo, si potrebbe commentare che per essere davvero virtuosi, sarebbe stato utile evitare di cavalcare la tigre finché, portando milioni di followers, fruttava enormi utili. Oggi la democrazia Usa pare salva, con cerotti un po’ ovunque a dire il vero, ma paradossalmente deve dire grazie anche a chi, fuori tempo massimo, ha tolto il megafono a un Presidente imbizzarrito. Come andrà la prossima volta, e dove si manifesterà il nuovo Antisovrano? Dovremo tornare a parlarne sicuramente molto presto.

Note

1 Twittando poi “we need more forward-looking political ad regulation (very difficult to do). Ad transparency requirements are progress, but not enough. The internet provides entirely new capabilities, and regulators need to think past the present day to ensure a level playing field”.

L’articolo trae spunto dall’intervento nella tavola rotonda online “Come cambiano le piattaforme digitali. Da postini a editori”, organizzato dall’Associazione Stampa Romana il 19 gennaio 2021.

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