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Domenica 13 novembre, a seguito delle consultazioni con tutte le forze in campo, il Presidente israeliano Isaac Herzog ha ufficialmente incaricato Benjamin Netanyahu di formare il nuovo governo.

I partiti che sostengono la potenziale futura coalizione, infatti, hanno raggiunto la maggioranza assoluta dei 120 seggi della Knesset (il Parlamento israeliano), conquistandone 64 nelle elezioni del primo novembre scorso.

La vittoria decisa del blocco di centrodestra guidato da Netanyahu, ex primo ministro più longevo della storia del Paese, arriva dopo un lunghissimo stallo.

Negli ultimi tre anni, infatti, Israele si era già recato alle urne per ben quattro volte, restituendo l’immagine di un Paese sostanzialmente spaccato a metà, incapace di scegliere una maggioranza certa.

Tuttavia, dopo le quinte e ultime elezioni, il corpo elettorale israeliano ha dimostrato di saper scegliere, e lo ha fatto nell’unico modo possibile per chiunque abbia seguito la politica israeliana negli ultimi decenni: orientandosi, inequivocabilmente, verso una destra estrema. Una destra in cui il sionismo si spoglia dei suoi orpelli retorici e si fa contenitore di pulsioni razziste, proclamando apertamente l’intento dell’annientamento della popolazione araba palestinese.

La vera novità di queste elezioni, infatti, non è tanto il ritorno di Netanyahu: quella, casomai, è solo la conferma del fatto che la politica israeliana fatichi a trovare una nuova classe dirigente e debba affidarsi, almeno temporaneamente, all’unica figura in grado di catalizzare il consenso dell’opinione pubblica in modo piuttosto ampio. In effetti, il Likud dell’ex premier non perde consensi, ma non esplode, fermandosi a 32 seggi, due in più rispetto al 2021 ma 4 in meno rispetto al 2020.

L’elemento dirompente è il fatto che, per vincere in modo netto, Netanyahu abbia dovuto lavorare, nel corso degli ultimi mesi, al rafforzamento di una coalizione di estrema destra ultranazionalista, che è riuscita, meglio di altri, a interpretare la profonda deriva ideologica verso cui il Paese si è inesorabilmente incamminato sin dall’anno della sua fondazione, nel 1948.

A sostegno di Netanyahu, infatti – oltre ai partiti ultraortodossi – figura, con ben 14 seggi parlamentari, il Sionismo Religioso, che ha al suo interno tre formazioni, tutte unite da una comune tradizione di ultranazionalismo e razzismo nei confronti della popolazione araba, che non hanno mai rinnegato la violenza come strumento per l’affermazione dell’ideologia sionista.

Il fallimento dell’alternativa ‘centrista’

A lungo, la figura di Netanyahu è stata sinonimo di una destra estrema e irriducibile, a cui si imputavano l’intransigenza delle condotte israeliane e le politiche durissime nei confronti della popolazione palestinese, in spregio al diritto internazionale.

Nel maggio del 2021, molti avevano salutato con sollievo e speranza la presunta fine della carriera politica di Netanyahu, logorata sotto la spinta di varie componenti: da una parte, le note vicende giudiziarie, che lo vedono tuttora protagonista; dall’altra, il rischio mal calcolato sulla risposta della resistenza palestinese in occasione dell’operazione bellica sulla Striscia di Gaza; e, non ultima, la scelta di legarsi a doppio filo alla presidenza repubblicana di Donald Trump, che aveva generato vari malumori nel Partito Democratico degli Stati Uniti, fidi alleati di Tel Aviv.

In assenza di un campo di “sinistra”, con la dissoluzione dei laburisti divenuta ormai un dato di fatto, si pensò di poter fornire una alternativa valida riunendo tutte le forze di opposizione, e includendo addirittura un partito arabo – il Ra’am di Mansour Abbas – ammantando l’operazione con una parvenza di centrismo.

L’ambizioso Naftali Bennett, già discepolo di Netanyahu e cresciuto politicamente negli ambienti ultranazionalisti degli insediamenti coloniali illegali, aveva pensato di potersi reinventare come leader di questo ampio schieramento, tenendo insieme forze contrastanti e ammiccando alla destra del corpo elettorale pur restando con i piedi saldamente ancorati al centro.

L’operazione, però, non ha pagato. La base del consenso di Bennett si è sgretolata, così come Yamina, il partito di estrema destra che aveva fondato insieme all’attuale ministro della Giustizia, Ayelet Shaked. Dopo un anno dall’incarico, Bennett si è dimesso, lasciando il posto di primo ministro a Yair Lapid, che da sempre ha ritenuto di poter proporre una formula centrista per far uscire Israele da una lunga crisi istituzionale.

La verità, tuttavia, è che quel governo era il frutto di una manovra di palazzo che non rappresentava minimamente le istanze del corpo elettorale israeliano. Gli elettori non volevano un’uscita “moderata” dalla crisi, bensì una netta affermazione rappresentativa delle pulsioni che attraversano sempre più profondamente la società israeliana. Nell’ultima tornata elettorale, dunque, le formazioni di Lapid e Benny Gantz tengono il colpo ma non sfondano, accaparrandosi rispettivamente 24 e 12 seggi.

Questo, nonostante il fatto che il governo uscente non avesse assolutamente i tratti di una formazione moderata, né nei toni, né nelle decisioni intraprese. Basti pensare che l’ONU, a fine ottobre, ha espresso il timore che il 2022 possa essere tra gli anni più sanguinosi per i palestinesi della Cisgiordania.

Il governo di Bennett, e poi quello di Lapid, hanno incrementato ulteriormente l’espansione coloniale illegale; hanno autorizzato l’espulsione forzata delle comunità di Masafer Yatta, nelle colline a sud di Hebron; hanno represso nel sangue ogni tentativo di resistenza, con incursioni quotidiane nei campi profughi della West Bank; hanno bombardato la Striscia di Gaza per un numero limitato di giorni ma con un’altissima intensità; hanno arrestato circa 6.000 palestinesi, tra cui donne e bambini, dall’inizio dell’anno; hanno approvato un’altra porzione del muro dell’apartheid, costruito su territori occupati; hanno commesso centinaia di violazioni ai danni di giornalisti palestinesi, tra cui l’uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh, nel campo profughi di Jenin.

Ma tutto questo, alla società israeliana, non è bastato. La natura stessa di uno stato improntato sul cosiddetto colonialismo d’insediamento, infatti, non può che degenerare verso quello che lo storico israeliano Ilan Pappé definisce il “genocidio incrementale” della popolazione nativa. Un genocidio che richiede uno spostamento sempre più marcato degli equilibri politici verso una destra razzista e sfacciata, che smette di trincerarsi dietro artifici retorici per manifestarsi in tutto il suo livore.

La dissoluzione dell’ipocrisia a “sinistra”

Forte, netta e radicale arriva dalle urne la bocciatura a qualsiasi tentativo di ricostruire una sorta di sinistra israeliana.

Il naufragio dei laburisti è evidente e la loro lenta agonia dura ormai da molti anni. I quattro seggi conquistati a fatica nelle elezioni del primo novembre non consentiranno al partito che fondò Israele, e a cui ancora molti in occidente si appigliano nell’illusione di un sogno “socialista” con capitale Tel Aviv, di avere un peso effettivo nelle scelte future del Paese. Il loro potere di rappresentanza appare destinato a sfumare e non certo a crescere negli anni a venire.

Sembra finire anche l’epopea del “soft Zionism”, del “left Zionism”, del “liberal Zionism”, a cui sono state dedicate infinite discussioni accademiche e parlamentari, con il mancato raggiungimento della soglia elettorale da parte di formazioni come Meretz.

Nel corso di una recente conferenza a Istanbul, in Turchia, lo storico israeliano Ilan Pappé ha apertamente salutato con favore la fine di una sfacciata ipocrisia: l’illusione, cioè, che possa esistere, all’interno della politica israeliana, un volto che si presenti come positivo, accettabile e liberale, pur mantenendo inalterata la sua natura sionista.

Una menzione a parte meritano le forze politiche arabe, che dopo un’affermazione importante nel marzo 2020 – in cui si imposero come terzo blocco nel Paese – non hanno più ritrovato l’unità e oggi sopravvivono con fortune alterne: da una parte, il Ra’am islamista di Mansour Abbas, che ha addirittura accettato di far parte del governo israeliano nel 2021, e che continua a raccogliere consensi soprattutto tra le poverissime comunità beduine del sud; dall’altra, Balad, che resta nettamente fuori dagli scranni della Knesset.

A navigare tra queste due tendenze, c’è la lista unitaria di Hadash–Ta’al, che conquista cinque seggi, ma che non sembra raccogliere il vento di protesta che soffia forte anche tra i palestinesi che vivono all’interno della cosiddetta Linea Verde, in quello che è attualmente Israele. C’è da chiedersi se, per i palestinesi con cittadinanza israeliana, la via parlamentare, nel contesto di un regime di apartheid come quello imposto da Tel Aviv, sia ancora percorribile.

Il futuro è a destra di Netanyahu?

Al momento, dunque, la partita si gioca interamente a destra.

In questo quadro storico, Netanyahu si profila come una figura di passaggio, che si avvale dell’estrema destra per acquisire legittimità e che, a sua volta, legittima l’ultradestra, in un Paese che, come accennato, fatica moltissimo a trovare una successione credibile alla generazione dei suoi padri fondatori.

Il futuro, tuttavia, appare persino più estremista.

Il Sionismo Religioso, come accennato, è una formazione che include tre forze partitiche, che nel giro di pochi mesi hanno raddoppiato i consensi, passando dai 225.000 del marzo 2021 ai 516.146 del 2022.

In questo raggruppamento figura il Noam, guidato da Avi Maoz, che è riuscito ad aggiudicarsi un solo seggio alla Knesset.

Poi, c’è l’Otzma Yehudit di Itamar Ben-Gvir, personaggio controverso che si definisce erede ideologico del Rabbino Meir Kahane. Kahane era il fondatore del partito Kach, classificato come formazione terroristica persino dagli Stati Uniti e mandante morale del massacro della Moschea di Ibrahimi a Hebron, condotto dall’estremista Baruch Goldstein nel 1994.

Ben-Gvir, nuovo astro nascente della politica israeliana, vive tuttora nell’insediamento coloniale illegale di Kiryat Arba; da anni, si rende protagonista di incursioni violente nella Spianata delle Moschee, a Gerusalemme Est occupata. Nel 2021, era lui a guidare i coloni nelle irruzioni condotte nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove i palestinesi protestavano contro le espulsioni forzate condotte dalle autorità israeliane.

In più di un’occasione, ha brandito un’arma contro i palestinesi, anche nell’ultima campagna elettorale, pronunciando frasi violente e razziste e inneggiando al loro sterminio. È arrivato al punto di recarsi presso un ospedale in cui era ricoverato un detenuto palestinese in sciopero della fame, ormai prossimo alla morte, per provocarne i familiari affranti.

All’indomani delle elezioni, per ribadire la sua appartenenza ideologica mai rinnegata, ha partecipato al memoriale in onore di Kahane, gesto condannato dal portavoce del Dipartimento di Stato Americano Ned Price, che lo ha definito “abhorrent”, ovvero ripugnante.

E sempre il malcontento in casa statunitense sarebbe alla base del rifiuto di Netanyahu di concedere l’agognato ministero della difesa a Bezalel Smotrich, leader della terza formazione, il Partito Sionista Religioso.

Smotrich, con le sue posizioni apertamente razziste, è riuscito negli anni a conquistarsi un posto al sole dopo una crisi profonda che aveva investito Tkuma, la forza dalla cui costola nasce la formazione attuale.

Per quanto suoni ironico, i media israeliani riportano che Netanyahu, sotto la spinta statunitense, avrebbe dichiarato la necessità di agire con “moderazione” in tema di difesa, scatenando le ire del leader ultranazionalista.

Ben-Gvir e Smotrich sembrano, in effetti, incarnare plasticamente il volto “scomodo” di Israele, quello che alleati e difensori cercano continuamente di dissimulare sotto una parvenza di “democrazia” e modernità.

Queste elezioni, per quanto controverse, sembrano restituire al mondo un dato di verità: ormai prive delle maschere che ne hanno, negli anni, edulcorato l’immagine, le istituzioni israeliane si mettono al servizio di quello che, da sempre, è stato un progetto coloniale, imperniato sulla superiorità di una etnia sull’altra e sul fine ultimo dell’annientamento della popolazione nativa.

Chiunque faticasse a vedere il vero volto di Israele, ora dovrà, inevitabilmente, fare i conti con una nuova realtà.

Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del “The Palestine Chronicle”. I suoi articoli appaiono in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.

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