Democrazia, Politica, Temi, Interventi

1. Un fenomeno divenuto sistema

Le elezioni regionali toscane hanno riaperto un dibattito sull’astensionismo elettorale. Svilupparlo, sulla base delle numerose analisi svolte in questi anni, e portarlo a sintesi è parte essenziale del contrasto alla nostra crisi democratica, che accelera e rischia di avvitarsi in un contesto globale sfavorevole, dove crescono spinte verso una semplificazione autoritaria nei paesi europei.

La democrazia italiana è da tempo entrata in una nuova fase: quella del voto assente. La partecipazione elettorale, un tempo tratto identitario del paese dei partiti, è crollata ben al di sotto della soglia del 50%. Alle ultime elezioni regionali toscane – nella regione simbolo della cultura civica e della tradizione “rossa” – ha votato appena il 47% degli aventi diritto. Un dato che ha allarmato osservatori e politologi, ma che, come ha notato Antonio Floridia, non può più essere letto come un’anomalia o un incidente di percorso: è un fenomeno strutturale. In Toscana si è ripetuta la percentuale del 2015, mentre in Emilia-Romagna, nelle elezioni regionali del 2014, i votanti furono solo il 37%. Dunque, è un fenomeno difficilmente aggredibile con richiami moralistici.

Il declino della partecipazione in Toscana non è un accidente: è il sintomo della fine di un modello di partecipazione democratica. Già Mario Caciagli aveva descritto la dissoluzione del “capitale sociale” della provincia rossa: quella trama di sezioni, cooperative, circoli e sindacati, di strutturati collateralismi che faceva della partecipazione una pratica quotidiana. Quando i partiti si sono ritirati, è crollata anche la cittadinanza politica.

Floridia, commentando il voto toscano, distingue tre ordini di cause – strutturali, contingenti e sistemiche – che spiegano la crescente disaffezione. Le prime riguardano fattori demografici e sociali: l’invecchiamento della popolazione, la mobilità residenziale e lavorativa, la percezione sempre più tenue della rilevanza della posta in gioco. Le seconde concernono la prevedibilità degli esiti elettorali: laddove il risultato appare scontato, l’incentivo a recarsi alle urne si riduce, anche per effetto della svalutazione provocata del voto d’opposizione. Le terze, infine, affondano nel cuore della crisi politica: la dissoluzione dei partiti di massa e l’erosione delle appartenenze.

La personalizzazione della politica, lungi dall’aumentare la partecipazione, l’ha ridotta. Quando il voto non esprime più un’identità politica ma una preferenza individuale, motivata dal carisma o dall’immagine del candidato, la logica della mobilitazione collettiva evapora. Il sistema presidenzialistico regionale, osserva Floridia, ha trasformato la scelta politica in una competizione fra leader, e i partiti in comitati elettorali di singoli candidati. Il voto di preferenza – in Toscana reintrodotto nella legge elettorale dopo la sperimentazione di primarie regolate con legge regionale – ha alimentato una spirale recessiva della partecipazione, con una competizione intrapartitica esasperata che modella i partiti e i sistemi politici locali. Come ha osservato Emanuele Rossi, costituzionalista della Scuola Sant’Anna di Pisa, commentando le elezioni toscane: “Le preferenze c’erano, ma le persone non sono andate a votare”.

Il “non voto” diventa così la misura dell’erosione del tessuto democratico. Non è un semplice distacco dall’offerta politica, ma la manifestazione di una mutazione profonda: la perdita di senso della rappresentanza. Quando i partiti non “chiedono più il voto” perché non hanno la capillarità necessaria per farlo – non presidiano più il rapporto con i cittadini – il voto stesso diventa opzionale. E la democrazia si svuota dall’interno: non per colpi di mano autoritari, ma per evaporazione sociale. Una platea ristretta di elettori votanti consente ai poteri costituiti di orientare e controllare il consenso e rafforza la divisione dei partiti in correnti molto strutturate e poco permeabili, con una fortissima verticalizzazione del potere interno a tutti i livelli.

2. L’Italia dei pochi: l’astensione come effetto sociale

La mappa dell’astensionismo coincide ormai in gran parte con quella della povertà. A sottolinearlo è Anna Spena, nel reportage La democrazia dei ricchi: dove la condizione materiale è più fragile, il voto scompare. Nel Mezzogiorno, dove il PIL pro capite resta sotto il 75% della media europea, l’affluenza alle ultime elezioni europee è scesa sotto il 40%. “La democrazia – ha scritto Andrea Morniroli del Forum Disuguaglianze e Diversità – è diventata una cosa da benestanti. I poveri non la sentono più loro. Non perché non vogliano partecipare, ma perché non si sentono visti”. E non hanno torto: l’offerta politica non parla più la lingua dei loro bisogni.

Come hanno mostrato Paolo Perulli e Pier Giorgio Ardeni, la società italiana ha mutato composizione. La classe operaia si è dissolta per frammentazione, la piccola borghesia si è precarizzata, e una “neoplebe” di lavoratori intermittenti e sottoccupati è diventata la nuova massa del lavoro sociale. È la “maggioranza invisibile”, secondo la preveggente definizione di Emanuele Ferragina. L’Italia del “terzo incluso” è l’esito politico di questa metamorfosi: una minoranza benestante detiene potere economico e decisionale, mentre la maggioranza resta spettatrice.

L’astensione, in questa prospettiva, non è un gesto d’indifferenza ma di estraneità: la conseguenza di una democrazia che ha smarrito il legame con la cittadinanza sociale. Lo conferma Valentina Pazé, filosofa politica e autrice de I non rappresentati, che distingue tre categorie di esclusi: quelli “di diritto” (gli stranieri privi di cittadinanza), quelli “di fatto” (chi vota ma non incide) e gli “autoesclusi” (chi sceglie deliberatamente di non partecipare). Tutti sintomi di una “finzione della rappresentanza”, in cui il “popolo” evocato dai leader non corrisponde più al popolo reale.

Una ricerca condotta da Cetrulo, Lanini, Sbardella e Virgillito per Jacobin Italia ha mostrato la correlazione diretta tra disuguaglianza salariale e astensione. All’aumentare del divario economico, cresce la quota di non votanti. Nelle province dove la quota di lavoratori con retribuzioni inferiori ai 1.200 euro mensili supera il 50%, l’affluenza è scesa sotto il 45%. Il legame tra sfera economica e partecipazione politica, che aveva retto l’Italia repubblicana fino agli anni Settanta, è stato reciso dalle riforme liberiste e dalla precarizzazione del lavoro. Il risultato è una democrazia “a metà”: un Paese che vota con i redditi alti e si astiene con i bassi.

L’astensione è dunque la conseguenza di una democrazia che ha smarrito il legame con la cittadinanza sociale. Non è solo “apatia politica”, ma una vera patologia democratica: la partecipazione diventa privilegio di chi possiede risorse, tempo, istruzione e reti di relazione.

Anche la componente giovanile pesa. Alessandro Rosina ha osservato che i NEET – i giovani che non studiano e non lavorano – mostrano tassi di partecipazione inferiori al 25%. È la generazione che si sente “fuori dal gioco”, non tanto per ostilità ideologica quanto per disillusione radicale verso la possibilità di incidere.

Enzo Risso, analizzando i sondaggi d’opinione, descrive il crescente disagio dei ceti popolari verso la democrazia parlamentare: un sentimento di distacco, spesso accompagnato da risentimento, nei confronti delle istituzioni rappresentative percepite come distanti e autoreferenziali. Nei ceti popolari, la convinzione che “nessuno rappresenti più i nostri problemi” supera il 60%. È una sfiducia strutturale, non episodica, e si traduce in astensione permanente.

Degli astensionisti solo una minoranza, circa il 10%, è composta da disinteressati “strutturali”. La maggioranza è quindi recuperabile, ma a condizione che la politica riconnetta senso, credibilità e utilità al voto. L’astensionismo, avverte Risso, non è neutrale: riduce la legittimità delle istituzioni e produce governi “a bassa base popolare”. Nelle regionali 2025, in alcune regioni, le giunte sono state elette con il voto di appena un quarto degli aventi diritto. Si configura così una democrazia di minoranza, esposta a spinte populiste e leaderistiche.

L’astensione, dunque, non è solo un sintomo politico ma un effetto sociale. Dove la precarietà è norma, la cittadinanza è intermittente. Dove i salari stagnano, il voto perde peso. Dove il lavoro è debole, anche la democrazia si fa debole.

Così la democrazia italiana diventa una “democrazia dei ricchi” in anni di netta crescita della povertà: le urne si svuotano nei quartieri popolari, ma restano piene nei centri delle città. Siamo di fronte, come scrive Fabrizio Barca, a una “democrazia della disuguaglianza”, in cui la povertà materiale produce povertà politica, subalternità culturale e impossibilità di reazione per mancanza di soggettività. Le urne vuote delle periferie, delle province interne, del Sud, sono la cartina di tornasole di una profonda frattura di classe che la politica ha negato o stentato a rappresentare, erodendo la stessa legittimità del voto. È la contrapposizione fra i “pochi”, economici e sociali, e i “molti” – secondo la formula rilanciata da Nadia Urbinati – fra un’oligarchia sempre più influente e sempre più allergica alla democrazia sostanziale e anche a quella formale, e i sottomessi che, fra fatica del vivere, frammentazione degli interessi e abbaglio di potenti tecniche imbonitrici e distraenti – che sollecitano individualismi e egoismi – o intimidatorie – che alimentano paure e guerre tra poveri – non riescono a reagire.

3. Neoclientelismo e astensione: due facce dei sistemi politici locali?

Se il voto popolare si ritira, la politica si adatta: sostituisce la rappresentanza con la fedeltà. Tommaso Nencioni e Paolo Borioni, in una riflessione incrociata fatta a caldo sui social dopo le elezioni regionali toscane, definiscono la Terza Repubblica come un “regime elitista-clientelare”, spiegando come il neoclientelismo non sia un’anomalia, ma la forma normale di una democrazia impoverita.

In un sistema in cui i partiti sono deboli e il potere si concentra nelle mani dei candidati locali, il voto si verticalizza: non rappresenta più interessi collettivi, ma relazioni di dipendenza. Meno elettori partecipano, più cresce il peso delle clientele. L’astensionismo, lungi dall’essere una minaccia per i gruppi dominanti, diventa un vantaggio: riduce la concorrenza politica, accresce il valore della preferenza personale, consolida il controllo territoriale.

Il ragionamento di Nencioni e Borioni trova una sua continuazione nell’analisi di Fausto Anderlini, che colloca il sistema politico locale italiano nella “fenomenologia del terzo incluso”. “Vince sempre chi governa – scrive – purché non scontenti i propri clientes”. La regola non è più quella della competizione ma della spartizione. La vecchia trilogia del voto – di appartenenza, d’opinione, di scambio – si è dissolta in un unico tipo: il voto di clientela.

Ma non si tratta più della “nobile clientela” del dopoguerra, quella dei poveri che si affidavano al tardo notabilato locale per necessità materiale. Oggi la clientela è “padronale”, fatta di imprenditori, associazioni, fondazioni e gruppi d’interesse che dettano l’agenda politica. Sono i nuovi “clienti forti” – i compratori, non più i venditori – a fissare il prezzo del voto e spesso a finanziare le campagne elettorali.

Il Movimento 5 Stelle, osserva Anderlini, paga la sua estraneità a questo circuito: non avendo clientele, non controlla pacchetti di consenso nelle elezioni amministrative. È, semplificando, un “voto svantaggiato”: un voto politico e di protesta, che riemerge nelle elezioni politiche ma fatica a tradursi in potere locale. L’astensionismo, dunque, non è solo il segno di un deficit di fiducia, ma il risultato di una redistribuzione asimmetrica del potere politico.

4. I partiti vuoti e la crisi della rappresentanza

La crisi dell’affluenza al voto è, prima di tutto, una crisi dei partiti. Come ha osservato Peter Mair, nelle democrazie europee i partiti sono passati dall’essere “istituzioni della società” a “istituzioni dello Stato”: non rappresentano più la società civile, ma la amministrano. Piero Ignazi ha aggiunto che la “democrazia dei partiti” è stata sostituita da una “democrazia del pubblico”, fondata sulla comunicazione e sulla leadership.

In Italia, dove con Silvio Berlusconi si è avuta un’anticipazione – ben prima del fenomeno Trump – della patrimonializzazione politica e del leaderismo estremo, fino al “partito personale-partito azienda”, questa mutazione è stata radicale. In generale, con la crescita delle disuguaglianze, la rappresentanza politica si vuole ridotta a gestione, è divenuta subalterna ai poteri economici e mediatici. Le forme della partecipazione – sezioni, congressi, assemblee, militanza – si sono svuotate. Il risultato, ancora una volta, è una delegittimazione sistematica della politica agli occhi dei cittadini, in particolare dei più deboli, cioè di coloro che avrebbero più bisogno di rappresentanza.

I partiti hanno subito vere e proprie mutazioni rispetto alla loro radice di massa. Il Partito Democratico, come ho già scritto altrove, è oggi “una somma disordinata di micropartiti personali, spesso incanalati nelle correnti”, dove il tesseramento può essere gonfiato o artefatto in vista delle conte congressuali, e le organizzazioni territoriali sono ridotte a “comitati elettorali permanenti” guidati da chi ha incarichi istituzionali apicali e dunque risorse, staff – i nuovi “apparati” – e relazioni personali. È così che certi ruoli elettivi diventano sempre meno contendibili. Per l’impoverimento, si è giunti al punto di dover chiedere, come condizione per la candidatura, un contributo economico personale significativo: chi può permetterselo è, spesso, un politico già eletto.

La partecipazione interna è compressa, la trasparenza sacrificata, la selezione della classe dirigente appiattita su logiche di appartenenza. In un simile habitat, la politica non può rigenerarsi. “Capi e gregari” sono le due specie sopravvissute in un’organizzazione implosiva, dominata dal correntismo. Gregari ai quali è richiesto conformismo. Pochi attori e molte comparse, dunque, di fronte a spettatori disillusi e distratti. Le conseguenze si vedono: la militanza si esaurisce, la legittimazione popolare si dissolve, e rimane soltanto quella istituzionale, ma sempre più arida e autoreferenziale. Questi vizi, non contrastati con la riforma del modello di partito promessa da Elly Schlein, mortificano merito e impegno, premiando chi è più spregiudicato; svalutano le qualità dei dirigenti e dei militanti; penalizzano le donne, che sono meno competitive in certi contesti; allontanano i giovani.

Questa deriva non riguarda solo il PD. È un fenomeno sistemico che accomuna partiti grandi e piccoli: partiti deboli, leader “forti”, organizzazioni svuotate. La crisi del partito politico è la crisi della democrazia, perché – come ammoniva Norberto Bobbio – “non c’è democrazia senza partiti”.

5. Il partito che non c’è: l’astensione tra struttura sociale e crisi dell’offerta politica

Il libro di Vittorio Mete e Dario Tuorto, Il partito che non c’è. L’astensionismo elettorale in Italia e in Europa, rappresenta oggi il contributo più aggiornato e sistematico sul fenomeno. Gli autori mettono in guardia da una semplificazione giornalistica ricorrente: quella che parla di un “partito degli astenuti”. Gli astenuti, ricordano, non sono un corpo omogeneo, ma un universo frammentato, con motivazioni, condizioni sociali e atteggiamenti politici molto diversi. “Il partito che non c’è” è dunque un titolo non solo descrittivo, ma analitico: rimanda all’assenza di un soggetto collettivo capace di rappresentare la disillusione e la distanza di milioni di cittadini.

Mete e Tuorto distinguono tra astensionismo forzato, astensionismo per disillusione e astensionismo intermittente. Il primo è dovuto a ostacoli concreti – mobilità, emigrazione, età avanzata, disagio sociale –; il secondo a un rifiuto consapevole dell’offerta politica; il terzo a una partecipazione discontinua, che varia secondo la percezione della posta in gioco. Si tratta di un approccio che restituisce complessità e sfuma il giudizio moralistico sugli “assenti dalla democrazia”.

Il fenomeno ha ormai una dimensione europea. L’Italia è tra i paesi con la più forte caduta di partecipazione, ma tendenze simili si riscontrano in Francia, Spagna, Austria e perfino Germania, con eccezioni parziali legate a specifici cicli politici. L’astensione, spiegano, non è solo una patologia italiana ma un tratto del mutamento della cittadinanza politica nelle democrazie avanzate: effetto dell’individualizzazione, della precarietà e della crisi delle appartenenze collettive.

Un passaggio particolarmente significativo riguarda la mobilità sociale e territoriale: gli iscritti all’AIRE – italiani residenti all’estero – sono passati da 2,2 a oltre 5,3 milioni in poco più di vent’anni, pari ormai al 10% del corpo elettorale. La loro partecipazione al voto è molto più bassa della media nazionale. A questi si aggiungono quasi 5 milioni di studenti e lavoratori fuori sede, spesso impossibilitati a votare. È una quota enorme di “elettori potenziali” che sfugge a ogni tentativo di recupero.

L’altra grande distinzione introdotta da Mete e Tuorto è quella tra astensionisti cronici e smobilitati. I primi non votano da anni e non sono facilmente recuperabili; i secondi, invece, si allontanano episodicamente, per delusione o mancanza di alternative credibili. È questa fascia – gli “smobilitati” – a rappresentare il terreno più fertile per un possibile ritorno alla partecipazione, se l’offerta politica riuscisse a rinnovarsi.

Il libro sottolinea anche la componente di astensionismo politicizzato, ovvero di coloro che non si sentono rappresentati da nessuna forza in campo. Non è un gesto di apatia, ma una scelta di rifiuto attivo. È una forma di protesta silenziosa che cresce soprattutto nei ceti popolari e giovanili e che, come osservano gli autori, può diventare “il serbatoio di una nuova domanda di rappresentanza, oggi senza voce”.

Anche Mete e Tuorto collegano questa evoluzione alla crisi dell’insediamento territoriale dei partiti. La loro riduzione a comitati elettorali e l’abbandono della funzione pedagogica e organizzativa hanno sottratto alla politica la capacità di includere i settori marginali. Il risultato è un circolo vizioso: meno partecipazione, meno radicamento; meno radicamento, più astensione.

In questa prospettiva, la categoria del “non partito” assume un duplice significato. Da un lato, indica la dissoluzione dei partiti tradizionali, incapaci di rappresentare e mobilitare. Dall’altro, evoca una potenzialità politica latente: un “partito che non c’è” ma che potrebbe esserci, se un soggetto collettivo sapesse tradurre la disillusione in progetto, il ritiro in azione (qui sarebbe importante approfondire le ragioni della parabola del M5S che per una fase ha interpretato con successo questa figura).

Il messaggio conclusivo è un invito a evitare la rassegnazione. L’astensionismo, scrivono, non è un destino, ma un prodotto della storia recente: delle scelte politiche, economiche e istituzionali che hanno ridotto lo spazio del conflitto e della mediazione. Rovesciarlo richiede tempo, ma soprattutto organizzazione.

6. L’astensionismo come “sintomo di una democrazia senza popolo”

Nel suo recente saggio Una democrazia senza popolo, lo storico e parlamentare Federico Fornaro affronta la crisi della rappresentanza intrecciandola con la deriva sociale e culturale che alimenta l’astensionismo. Il titolo sintetizza una diagnosi severa: l’Italia vive un “disincanto democratico” in cui il voto ha perso valore simbolico e capacità di incidere sulle condizioni materiali di vita.

Fornaro non si limita a descrivere la flessione elettorale, ma ne indaga le cause strutturali. Sottolinea come la grande recessione del 2008, l’impoverimento dei ceti medi e l’erosione del welfare abbiano generato una crescente domanda di protezione economica e identitaria, intercettata dalle destre neopopuliste. La distanza fra cittadini e istituzioni si è allargata proprio mentre la globalizzazione finanziaria e la disintermediazione digitale hanno ridotto lo spazio della politica.

La sua analisi, fondata su dati ISTAT, Censis e OCSE, dimostra la correlazione tra disuguaglianza e astensione: in Italia il coefficiente di Gini si attesta al 31,5, sopra la media europea (29,6), e quasi il 70% dei contribuenti dichiara redditi inferiori ai 26.000 euro lordi annui. È una “democrazia diseguale”, dove il 28% dei cittadini vive con meno di 10.000 euro l’anno, e l’1% più ricco possiede patrimoni ottanta volte superiori al quinto più povero. Da questa frattura nasce un astensionismo di classe, come lo definisce Fornaro: una sfiducia che cresce tra lavoratori precari, disoccupati, casalinghe, pensionati, giovani senza prospettive.

Sono quattro fattori che minano la coesione democratica: il dilagare delle disuguaglianze sociali; la distruzione della memoria storica e del legame intergenerazionale; la diffusione della disinformazione e della “post-verità”; l’eclisse del futuro in una società prigioniera del presente.

Questi elementi, osserva Fornaro, alimentano una rabbia diffusa e rancorosa verso le istituzioni, una “sfiducia attiva” che si traduce nel non voto. L’astensionismo diventa così una forma di protesta politica e culturale, l’altra faccia della deriva plebiscitaria che si manifesta nella personalizzazione del potere e nella richiesta di “uomini forti”.

Questa evoluzione è collegata alla disintermediazione comunicativa: la relazione diretta tra leader e popolo, favorita dai social network, ha sostituito l’intermediazione dei partiti e delle organizzazioni collettive. Il consenso si costruisce nel tempo breve dell’emozione e dell’indignazione, mentre la rappresentanza, privata dei suoi corpi intermedi, si svuota. Da qui la transizione “silenziosa” da una democrazia liberale a una democrazia illiberale o “democratura”: un regime che mantiene le forme della democrazia ma ne svuota la sostanza pluralista.

Riscontri significativi di queste trasformazioni sono messi in luce dalle analisi di Enzo Risso, il quale individua “pulsioni che mostrano la presenza, in alcuni strati del Paese, di una dimensione di odio e risentimento che ha i contorni di un vero e proprio virus antidemocratico”, potenzialmente in grado di favorire “derive illiberali” e domanda di “uomini forti”. Tali dinamiche si collocano all’interno di un’evoluzione più generale dell’elettorato conservatore, che tende – sotto la spinta della polarizzazione – a superare le tradizionali culture moderate in direzione di un pensiero “muscolare, semplificato, protettivo verso ciò che è familiare e ostile a ciò che minaccia le identità”.

Una parte rilevante del libro di Fornaro è dedicata alla dimensione culturale dell’astensione. Egli denuncia l’effetto combinato dell’analfabetismo funzionale – che in Italia coinvolge oltre un terzo della popolazione adulta – e dell’inquinamento informativo che altera la percezione della realtà. La perdita di memoria storica, unita alla fragilità delle competenze cognitive, genera un cittadino disorientato, esposto alla propaganda e incline a credere che “la politica non serva più a nulla”.

Ma il saggio non si ferma alla diagnosi. Fornaro lancia un appello alla ricostruzione della fiducia nella democrazia rappresentativa: senza tornare alla nostalgia dei partiti di massa, occorre rinnovare la comunicazione politica e il linguaggio pubblico, riannodare il legame fra cultura e politica, rendere di nuovo “visibili” i diritti e le istituzioni. Solo così si può riavvicinare quella maggioranza silenziosa che ha abbandonato le urne.

Il suo è, in fondo, un invito a ripensare la funzione educatrice della politica, non come propaganda ma come costruzione di senso civico. Perché – scrive Fornaro – “non è sufficiente rivendicare i meriti storici delle democrazie liberali: bisogna restituire alla politica la capacità di rappresentare i bisogni reali e di rendere la cittadinanza una pratica viva, non una parola spenta”.

7. Ricostruire la partecipazione: un nuovo modello di partito, non scorciatoie autolesioniste

Eppure, una possibilità esiste. Non nella nostalgia, ma nella rifondazione. Serve un nuovo modello di partito: un ibrido tra partito di territorio e partito-piattaforma, capace di intrecciare la partecipazione digitale con la presenza organizzata, fisica e permanente nelle comunità.

Il principio guida deve essere “partecipare per fare e per decidere”. La rete può essere strumento utile per consultare, informare, mobilitare, ma solo se fondata su una base militante reale: uomini e donne responsabilizzati, attivi nei quartieri delle città, nei paesi delle aree interne, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Un partito senza struttura non può promuovere la partecipazione; un partito senza partecipazione non può rappresentare.

Serve poi un impegno concreto per riattivare il rapporto con il lavoro dipendente e autonomo, con i sindacati, con i giovani e i loro movimenti, con i mondi della conoscenza e con i nuovi soggetti civici. È da qui che può nascere una rete progressista capace di affrontare con proposte nuove le linee di frattura delle disuguaglianze e dei nuovi conflitti sociali, contribuendo a selezionare una leadership autorevole e affidabile, una guida per la coalizione che possa competere nelle elezioni politiche.

La rigenerazione del partito politico passa per la trasparenza: regolamentare il tesseramento, istituire un Albo pubblico degli elettori delle primarie, garantire l’alternanza e la rotazione degli incarichi, promuovere la parità di genere e il ricambio. È necessaria una vera legislazione per la democrazia dei partiti che dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione e preveda un finanziamento pubblico regolato, destinato a ricostruire la partecipazione politica e il radicamento territoriale, a garantire regole e trasparenza nella vita interna e nella selezione delle candidature, a sostenere la formazione politica.

Correntismo esasperato e sistema delle preferenze sono due fenomeni strettamente connessi. Il voto di preferenza tende infatti a trasformare la competizione politica in un mercato privato, fondato su logiche individualistiche e sulla ricerca del consenso personale, anziché sulla costruzione di un progetto collettivo. Ciò produce una competizione interna sempre più accesa, un aumento dei costi elettorali e una crescente dipendenza da donatori privati. Ne derivano la perdita di identità politica, la dissoluzione delle responsabilità collettive e un ulteriore svantaggio per la rappresentanza di genere, penalizzata da dinamiche di potere e di risorse.

Le primarie, al contrario, rendono pubblico e contendibile il processo di selezione delle candidature: limitano il potere delle correnti chiuse, mobilitano la base, anticipano e regolano il conflitto interno evitando che esso deflagri durante la campagna elettorale. Possono inoltre essere disciplinate da regole chiare di trasparenza, di spesa e di comportamento, prevedendo l’esclusione dalle liste per chi le viola. Con il sistema delle preferenze, invece, una volta inserito il candidato in lista è quasi impossibile imporre limiti effettivi: se eletto, egli dispone di un potere di condizionamento difficilmente revocabile e la sanzione politica diventa impraticabile.

In una prospettiva di ricostruzione della partecipazione democratica, il ritorno al voto di preferenza rappresenta dunque una scorciatoia autolesionista, spesso sostenuta in modo semplicistico o interessato per conservare gli assetti politici esistenti. Essa finirebbe per rafforzare i potentati locali e la “politica in franchising”, accentuando la distanza tra cittadini e istituzioni. Solo attraverso liste corte, collegi riconoscibili e primarie regolate è possibile ristabilire un rapporto virtuoso tra rappresentanti, partiti ed elettori.

La democrazia, per essere effettiva, richiede partiti forti, contendibili e responsabili – non mercati elettorali disordinati in cui prevale chi dispone di maggiori mezzi, reti o clientele. Senza un’inversione di rotta, la cittadinanza rischia di ridursi a un concetto puramente formale, mentre il non voto continuerà a crescere come reazione all’impotenza politica e alla perdita di fiducia.

8. Oltre il lutto democratico

Dalle analisi presentate e dalle proposte che ne sono scaturite risulta chiaro che vi sono forze, nella società e dentro i partiti politici, che – per motivi diversi, dalla prevenzione dei conflitti sociali al mantenimento del controllo sulla platea degli eletti – non hanno in realtà alcun interesse a contrastare le ragioni dell’astensionismo elettorale.

Riconoscere che l’astensionismo è un fenomeno strutturale non significa arrendersi: significa comprendere che la cura non è morale ma politica, che servono correttivi profondi, frutto di battaglie dichiarate e mirate. Le democrazie non muoiono per mancanza di elettori, ma per mancanza di rappresentanza.

Occorre ricostruire i luoghi del conflitto e della mediazione sociale, le connessioni fra partiti e società civile, le reti di mutualismo e solidarietà che restituiscano senso all’azione collettiva. Non basta lamentare l’astensione: occorre restituire al voto un significato e uscire dalle trappole che impediscono una riscossa democratica.

Il “partito del non voto” non è il nemico della democrazia, ma la sua misura. Ci ricorda che la cittadinanza non è un fatto naturale, ma una costruzione politica; che la partecipazione non nasce dalla propaganda, ma dalla giustizia sociale; e che la democrazia, per esistere, ha bisogno di essere rifondata ogni giorno.

Riferimenti bibliografici

Antonio Floridia, “Sull’astensionismo. Il voto toscano dice che lo sfondamento a destra non c’è…”, in Strisciarossa, 14 ottobre 2025; “Astensionismo e responsabilità dei partiti. Nessuno sa dire ai cittadini perché votare”, in il manifesto, 19 ottobre 2025. E il saggio PD. Un partito da rifare?, Castelvecchi, 2022.

Mario Caciagli, Addio alla Toscana rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica, Carocci editore, 2017.

Emanuele Rossi, “Astensionismo, il vincitore perdente”, in Il Tirreno, 19 ottobre 2025.

Paolo Perulli, Il nuovo individualismo, Laterza, 2020; (con Luciano Vettoretto) Neoplebe, classe creativa, élite. La nuova Italia, Laterza, 2022; Pier Giorgio Ardeni, Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, 2024. Emanuele Ferragina, La maggioranza invisibile, BUR, 2014.

Tommaso Nencioni, Paolo Borioni, “La III Repubblica come regime elitista-clientelare”, post su Facebook, 15 ottobre 2025.

Fausto Anderlini, “Astensionismo. Fenomenologia del terzo incluso”, post su Facebook, 16 ottobre 2025.

Anna Spena, “La democrazia dei ricchi”, inVita, 11 giugno 2024.

Armanda Cetrulo, Margherita Lanini, Angelica Sbardella, Maria Enrica Virgillito, “Il partito del non voto e le disuguaglianze salariali”, in Jacobin Italia, 2024.

Valentina Pazé, “Astensionismo. Le ragioni di chi non si sente rappresentato”, inlavialibera, 2024.

Alessandro Rosina, “Astensionismo. Chi non studia e non lavora rischia di disertare in massa”, in la Repubblica, 28 agosto 2022.

“Astensionismo, l’identikit di chi non vota più”, in Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2024.

Enzo Risso, “Il crescente disagio verso la democrazia parlamentare dei ceti popolari”, in Domani, 30 gennaio 2022; “C’è un virus illiberale che infetta le viscere del nostro paese”, in Domani, 6 ottobre 2024; “Muscolare e anti woke. Ecco l’identikit del nuovo conservatorismo”, in Domani, 13 aprile 2025; “Perché gli italiani non vanno più a votare”, in Domani, 19 ottobre 2025.

Nadia Urbinati, Pochi contro molti, Laterza, 2020.

Fabrizio Barca, Disuguaglianze, conflitto, sviluppo, Donzelli, 2019.

Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi, 1984.

Marco Filippeschi, “Un nuovo modello di partito: la sfida del Pd di Schlein comincia da qui”, in Strisciarossa, 9 marzo 2023.

Peter Mair, Ruling the Void. The Hollowing of Western Democracy, Verso, 2013 (trad. it. Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino, 2016).

Piero Ignazi, I partiti italiani. Da “Forza Italia” al Partito Democratico, Il Mulino, 2008; Partito e democrazia, Il Mulino, 2019.

Vittorio Mete, Dario Tuorto, Il partito che non c’è. L’astensionismo elettorale in Italia e in Europa, Il Mulino, 2025.

Federico Fornaro, Una democrazia senza popolo. Astensionismo e deriva plebiscitaria nell’Italia contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino, 2025.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *