Articolo uscito su “Sbilanciamoci!” il 14.03.2022.
Il welfare è nuovamente al centro dell’attenzione pubblica, delle politiche nazionali e internazionali per affrontare la crisi sanitaria, il disagio sociale, l’incertezza economica. Dopo decenni di ridimensionamento e riconfigurazione dello Stato sociale e di aumento delle diseguaglianze di reddito, di genere e territoriali, sono tornate d’attualità politiche di welfare volte a fornire risposte ai bisogni sociali che non possono essere lasciati ai meccanismi di mercato e alle risorse individuali e familiari. Qual è oggi la situazione del welfare italiano, in che direzione si orientano le attuali politiche sociali e quanto pesa l’evoluzione storica dello Stato sociale del Paese?
Sono molti i problemi che restano irrisolti e presentano una persistenza di lungo periodo. La spesa sociale italiana ha registrato una netta prevalenza dei trasferimenti monetari rispetto alla fornitura dei servizi, una caratteristica di un assetto improntato ad aspetti particolaristico-clientelari, a frammentazione degli interventi, a scarsa efficacia dei meccanismi redistributivi, a ritardi e inerzie di politiche atte a perseguire scopi di uguaglianza “sostanziale”.
I dualismi italiani – tra Nord e Sud del paese, tra città e compagna, ma anche tra livelli differenziati di protezione, forti per alcune componenti della forza lavoro e deboli per quelle più marginali – hanno accompagnato lo sviluppo del welfare, accanto alla persistente centralità della famiglia tradizionale, della divisione sessuale del lavoro in essa vigente, quale risorsa chiave delle politiche sociali nazionali. In particolare, ambiti come quello assistenziale e sanitario sono rimasti a lungo segnati da immobilismo, disparità e discrezionalità, al pari di quanto avvenuto per voci di spesa concernenti il sostegno al reddito dei senza lavoro, la tutela di base dei cittadini bisognosi, le politiche dell’abitare e soprattutto, come si è detto, la fornitura dei servizi sociali. Di qui la sostanziale debolezza dei tratti universalistici dello Stato sociale italiano, capaci di riconoscere i diritti dei cittadini in quanto tali e di promuovere una “cultura” dei servizi. Viceversa, hanno prevalso modelli occupazionali e impostazioni patriarcali che hanno continuato a considerare la famiglia e il lavoro di cura delle donne al suo interno come risorsa gratuita e centrale.
Consideriamo la dinamica della spesa sociale. Solo alla fine degli anni Settanta questa ha registrato una crescita significativa, salendo a circa il 18% del PIL (nel 1960 era circa del 10%), amplificata dal rapido sviluppo dell’economia che rese disponibili molte più risorse per il welfare e da una crescita complessiva sostenuta dal susseguirsi delle riforme sociali in parte prefigurate durante gli anni Sessanta e attuate nel decennio successivo. Si è registrata in questo frangente una convergenza tra il livello di spesa sociale italiano e quello di altri paesi europei (Francia e Germania). A sua volta la spesa pubblica totale arrivò agli inizi degli anni Ottanta a circa il 45% del PIL (un peso simile a Germania e Francia, in crescita rispetto al 29% della metà degli anni Cinquanta). Il settore della previdenza giunse a fornire una protezione molto più consistente, erogando prestazioni per lo più collegate alla retribuzione e indicizzate; sanità e assistenza prima separate confluirono in linea di principio in un sistema di servizi unitario e integrato.
La realizzazione del servizio sanitario nazionale (legge n. 833/78), finanziato attraverso la fiscalità generale, in grado di garantire una copertura universale, rappresentò una delle più importanti riforme in materia di welfare dell’Italia repubblicana, se non la più “rivoluzionaria”. L’assetto universalista, pubblico e decentrato del SSN rispose a un’impostazione della salute come fatto sociale e politico, a una visione integrata dell’intervento sanitario e di quello sociale, alla centralità del momento preventivo e dell’approccio epidemiologico, a un’organizzazione periferica e territoriale, a un impegno diffuso capace di investire molteplici ambiti: dall’assistenza, alla scuola, all’ambiente di lavoro e di vita, alle politiche di sviluppo economico.
Particolare importanza assunsero dunque gli anni Settanta, in cui si realizzarono alcuni principi costituzionali rimasti a lungo congelati. Questo periodo storico fu decisivo per l’approvazione del maggior numero di riforme della storia repubblicana, per l’ideazione di numerose istituzioni e servizi sociali, per una riscrittura sempre più universalistica del welfare, capace di rompere con molte delle distorsioni del passato.
Decisive si rilevarono le esperienze diffuse sul territorio e le mobilitazioni collettive di questi anni, le quali investirono tutti gli aspetti dell’organizzazione sociale, conducendo a un cambiamento profondo delle “istituzioni del quotidiano”. Protagoniste delle lotte sociali che ebbero al centro questi temi furono i conflitti sindacali e operai sui salari e il lavoro e, in parallelo, sulle condizioni di vita (dalla casa, alla salute, ai servizi di base). Furono altresì i movimenti sociali di questo periodo, dal movimento studentesco, al femminismo, a quello di “lotta per la salute”. L’ampiezza dei conflitti di questi anni seppe combinare la costruzione di un ampio consenso sociale attorno all’urgenza di profonde riforme del paese, una visione egemonica su un nuovo modello di società più aperta, democratica e pluralista e l’avvio di inedite modalità e pratiche nella gestione dei servizi (così come nelle relazioni sociali). In più ambiti del welfare si diedero sperimentazioni volte a mettere in discussione quei tratti burocratici, familistici, corporativi, frammentari largamente vigenti nel welfare state italiano. Queste radicali trasformazioni che derivarono dalla più intensa stagione di azione collettiva della storia repubblicana lasciarono un’eredità e un segno fondamentali nella medesima forma assunta dallo Stato sociale.
Gli anni successivi segnarono un’inversione di tendenza, simile a quella degli altri contesti europei: i sistemi di sicurezza sociale dei paesi occidentali cominciarono a misurarsi con prospettive di crescita più contenute delle risorse e a subire i vincoli di compatibilità dei conti pubblici. Sul piano sociale, importanti trasformazioni hanno riguardato la riduzione delle nascite e l’invecchiamento della popolazione – con tutte le loro conseguenze sull’assetto previdenziale, assistenziale, sanitario e occupazionale –; l’aumento dei flussi migratori, in Italia gestiti con politiche inadeguate e securitarie, incoraggianti irregolarità e sfruttamento dei migranti; la precarizzazione del lavoro; l’aggravamento degli squilibri territoriali. Questi processi hanno introdotto cambiamenti nella domanda di servizi pubblici e prestazioni sociali, con una maggior complessità, articolazione e differenziazione che il sistema di welfare ha faticato ad affrontare.
Sul piano politico, la storica funzione dello Stato sociale come fonte di legittimazione – una visione a lungo condivisa da un ampio arco di forze politiche – è andata riducendosi per la sua incapacità di dare risposte a nuove forme di povertà, disagio, insicurezza. E soprattutto, si è affermato quel menzionato progetto politico neoliberista caratterizzato da un’ampia agenda di ridimensionamento dei servizi di welfare. In alcuni ambiti il welfare ha cessato di essere identificato direttamente con i servizi pubblici e si sono sviluppate attività private e spazi di mercato, specie nei campi delle pensioni integrative e della sanità.
Sul piano istituzionale, sono andati affermandosi modelli di un “welfare mix” pubblico-privato, principi di sussidiarietà, sistemi di governance che hanno coinvolto molteplici attori, indebolendo il ruolo delle tradizionali politiche pubbliche nazionali. Al contempo, si sono accentuate le differenziazioni nella quantità e qualità dei servizi di welfare, in specie tra aree di eccellenza del paese e aree periferiche, dovute all’inadeguatezza di standard uniformi, alla debolezza organizzativa di molte realtà, al prevalere di degenerazioni burocratiche.
Sul piano culturale, l’indebolimento dei servizi, il peso crescente dei trasferimenti monetari (pari a quasi tre quarti della spesa sociale nel 2015, secondo i dati Ocse) compensativi dell’assenza di interventi nell’ambito della cura e sulle condizioni di maggiore disagio, l’affievolirsi di spinte universalistiche hanno aggravato il carico di lavoro di cura delle donne e accentuato le diseguaglianze sociali.
Infine, alcune delle successive riforme (o controriforme) degli anni Novanta, in primis quella della sanità del 1992 ma anche quelle successive in ambito pensionistico, relativamente alla reintroduzione del metodo contributivo, dettato da scelte discutibili sul piano distributivo, hanno favorito l’introduzione di logiche di privatizzazione e di mercato, concorrendo ad aumentare dinamiche di diversificazione sociale e territoriale nella dotazione dei servizi, iniquità redistributive, insufficienze strutturali delle prestazioni fornite.
Specie per le politiche relative all’assistenza e per le misure di sostegno al reddito – l’Italia ha registrato un ritardo assai grave e persistente nell’introduzione di schemi di reddito minimo –, molte delle proposte formulate in più commissioni di studio nate già a partire dagli anni Ottanta non hanno per lungo tempo sortito gli effetti sperati.
Si è andata così indebolendo quella combinazione, propria degli anni Sessanta e Settanta, tra domande sociali, conflitti sulle condizioni di vita, capacità di risposta delle forze politiche e sindacali, originalità nella definizione di nuove istituzioni del welfare, combinazione che era stata fondamentale per la costruzione dello Stato sociale italiano. Inoltre, se all’azione delle politiche nazionali si è affiancata quella di nuovi soggetti privati, dalle imprese private, alla finanza, alle organizzazioni di terzo settore; a livello sociale sono aumentate diseguaglianze e impoverimento, fino a parlare – secondo Saraceno, Benassi e Morlicchio – di un vero e proprio «poverty regime» italiano. A essere aumentate sono anche la precarietà e la flessibilità del lavoro – sempre più contraddistinto da bassi salari –, il lavoro gratuito svolto dalle donne per le attività di cura (di figli, malati e anziani), così come nuovi rischi e insicurezze, affrontate in modo molto parziale dalle recenti politiche sociali e da politiche di contrasto alla povertà contraddistinte in Italia da elementi di forte condizionalità, propri di un impianto di workfare.
Nella lunga recessione seguita alla crisi finanziaria del 2008 l’Italia ha registrato maggiori difficoltà a finanziare il welfare e, soprattutto, nel caso della spesa sanitaria essa si è allontanata dal livello dei maggiori paesi europei. Negli ultimi anni l’ammontare della spesa sociale si è così ridotto in modo significativo, con un’incidenza sul PIL al di sotto della media europea e nel 2018 le risorse pro capite per la sanità pubblica italiana sono cadute del 10%, mentre in Francia e in Germania sono aumentate del 20% (Pizzuti, 2019, Ufficio Parlamentare del bilancio, 2019). La riduzione delle risorse pubbliche destinate allo Stato sociale – e su tutte il disinvestimento dalla sanità pubblica – quale effetto ulteriore delle politiche di austerità introdotte a partire dalla crisi, ha condizionato quantità e qualità dell’intervento pubblico, rafforzando le iniziative private e le spinte a introdurre forme organizzative improntate alle logiche del mercato.
In questo contesto particolare rilievo ha assunto il welfare occupazionale/aziendale, sostenuto da scelte orientate a privilegiare profili di welfare alternativi a quelle pubblici, largamente sostitutivi di essi, eroganti beni e servizi sanitari fiscalmente incentivati per le imprese e di certo per esse più convenienti in termini di risparmio sul costo del lavoro, di rapporti di forza a favore dei datori di lavoro, di fidelizzazione dei lavoratori alle imprese. D’altronde, le politiche di contenimento dei bilanci pubblici hanno indotto processi di outsourcing dei servizi pubblici, facilitando l’estensione del perimetro delle privatizzazioni, il rafforzamento degli spazi del mercato, concorrendo a processi di sostituzione delle prestazioni egualitarie del welfare pubblico con quelle del welfare aziendale, fortemente diseguale e di efficienza discutibile.
In questo quadro, nel quale si delineano prospettive di crescente indebolimento della tutela dei redditi (dei lavoratori e delle lavoratrici attivi, così come degli anziani penalizzati da un irrigidimento dell’assetto pensionistico e nel breve futuro da coperture sempre più limitate), di drammatica redistribuzione di ricchezza e reddito al contrario, dal basso verso l’alto, di pericoloso rafforzamento di regimi previdenziali integrativi privati e di ruolo sostitutivo della sanità privata nelle sue varie forme, è esplosa la pandemia da Covid-19.
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