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In direzione ostinata e contraria

Oggi si dedica al salvataggio dei migranti in mare, Luca Casarini è un punto di riferimento della seconda generazione dell’autonomia operaia. In questa intervista, ci ha raccontato della sua vita, della storia recente italiana e delle sue lotte.
Pubblicato il 1 Marzo 2021
Materiali, Scritti

Articolo pubblicato su Brecha, semanario de Uruguay il 12 febbraio.

Pasqua 2020. Casarini riceve una lettera inattesa: “Fratello Luca, grazie per quello che fai, sono vicino a te e ai tuoi compagni”, dice il foglio e la firma è Francesco, il Papa. Il Sommo Pontefice esprime il suo sostegno all’azione della Ong Mediterranea, che, insieme a una rete europea di aiuto civico – The Civic Fleet -, dispone di otto navi per il soccorso dei migranti nel Mediterraneo centrale. Tra il 2013 e il 2019, secondo i dati della Fondazione ISMU, più di 19.000 persone sono morte in quel valico, facendo del Mediterraneo l’area migratoria con il più alto tasso di mortalità al mondo, seguita dal confine tra gli Stati Uniti e il Messico.

“Stiamo costruendo una nave ancora più grande in un cantiere navale ad Augusta, in Sicilia, e ad aprile vogliamo tornare a navigare”, dice Casarini, mentre aspira il fumo della sua sigaretta di tabacco trinciato. Orecchino, barba di un paio di giorni e capelli disordinati, interpreta il ruolo di moderno pirata: «Stiamo decostruendo un confine: di giorno gli Stati mettono i mattoni; di notte usciamo per toglierli, soccorrendo, aiutando, recuperando le persone che resistono nelle immense acque del Mediterraneo».

La lettera di Papa Francesco.

Una lotta irrazionale

«Quello che facciamo con Mediterranea è un fatto geopolitico, ma è anche irrazionale. È un’emozione che ci muove, che spinge la parte migliore della società europea a reagire contro la politica antiumanitaria degli Stati. L’irrazionale è ciò che mi interessa di più oggi » dice Casarini. Non è scontato che la Chiesa voglia dialogare con lui, sempre etichettato come uno dei cattivi, per via della sua militanza e dell’uso della forza come un altro strumento politico.

Oggi Casarini vive il suo attivismo come un’esperienza che include anche la dimensione spirituale. «L’arcivescovo di Palermo mi ha chiesto: “Cosa ti muove?”. È qualcosa che non riesco a spiegare con gli strumenti classici della razionalità: andare con i miei compagni a soccorrere i migranti, è un’indignazione trasformata in azione. La cultura della sinistra classica ha ignorato la dimensione delle emozioni, ma invece è quello il campo dove combattere il sistema. Non è possibile battere il capitalismo solo con gli strumenti della convinzione. Non è più il fordismo, la pianificazione, l’ordine del secolo scorso. È un capitalismo di emozioni, anarchico. Per affrontarlo, dobbiamo combattere anche nel campo dell’irrazionale », dice.

Sulla Nave Mediterranea.

I pirati italiani

«Sono affascinato dalla cospirazione », ammette Casarini, che negli anni ’90 ha fondato le Tute Bianche, un gruppo di attivisti, tutti vestiti di tuta bianca, che ha riunito giovani lavoratori precari con un buon livello di istruzione, ma senza diritti o rappresentanza, figli del nuovo capitalismo postfordista. Le loro azioni creative si muovevano in una zona grigia tra legalità e illegalità, che includeva la disobbedienza civile attiva, azioni dirette ed occupazioni.

Il riferimento delle Tute Bianche è una delle eresie della tradizione della sinistra italiana: l’Autonomia Operaia degli anni Settanta, movimento di sinistra rivoluzionario che si opponeva al Partito Comunista Italiano (PCI), a quel tempo il più grande dell’Europa occidentale. Questo “altro movimento operaio”, come lo descrive lo storico Karl Heinz Roth, aveva come principale teorico il filosofo Toni Negri, professore a Padova.

All’epoca Casarini aveva dieci anni e frequentava l’oratorio, dove grazie a un prete operaio si avvicinò all’attivismo sociale, aiutando le famiglie operaie venete. Lui stesso proveniva da una di quelle famiglie: sua madre impiegata in una fabbrica di tabacco, suo padre operaio metallurgico. Nel 1982, quando il padre viene trasferito dalla fabbrica, la famiglia si sposta a Battaglia Terme, piccolo paese proletario a sud di Padova. Lui e i suoi compagni crescono con il mito dell’Autonomia Operaia, ascoltano affascinati le storie di chi ha evitato la prigione, l’esilio o la tomba. «Mio padre è morto di fabbrica. Ha lavorato 39 anni ed è morto pochi anni dopo la pensione. Mi diceva sempre: “Fai quello che vuoi, ma mai in una fabbrica”. Sono cresciuto con quell’idea e non mi conformavo alla mitologia comunista dell’operaio » ricorda.

Negli anni Ottanta l’Italia era cambiata. La sinistra radicale era stata repressa e il compromesso storico era fallito. I giovani della sinistra non comunista, i nipoti dell’Autonomia Operaia, reinterpretarono la tradizione fondendola con le nuove tendenze. «Siamo stati i primi a portare le casse per la musica alle marce, a mescolare la militanza con la cultura punk e rastafariana, dice Casarini, che sottolinea la distanza tra questo nuovo movimento e la cultura comunista ufficiale: “Il PCI era il partito di lotta e il governo, noi eravamo la nave pirata. Non credevamo nel potere. […] Crediamo nel contropotere. I pirati del XV secolo, le prime comunità cristiane, il subcomandante Marcos, in Chiapas: tutte queste esperienze ci mostrano che la realtà si può modificare senza prendere il potere. Il potere è un meccanismo diffuso di credenze, di senso comune, di dinamiche sociali. E la cospirazione, aggiunge, è «il meccanismo che permette di trasformare una sfida – spesso irrazionale – in qualcosa che altrimenti sarebbe un confronto tollerato all’interno delle regole prestabilite. Noi siamo l’errore nella matrice. Vogliamo cambiarla in modo che possa contenere gli errori, senza reprimerli» dice.

Chiapas (messico), La Realidad 1996, comunità idnigena zapatista.

La casa nel bosco

Casarini politicamente è cresciuto a Padova, nel Centro Sociale Occupato (CSO) Pedro. Tra gli anni Ottanta e Novanta in Italia sono sorti centocinquanta CSO: vecchie caserme, manicomi e scuole abbandonate, occupati e autogestiti. C’erano CSO a Roma, Napoli, Milano e anche nelle piccole città di provincia, Vicenza e Brindisi. Luoghi disconnessi dal sistema, isole pirata, zone temporaneamente autonome, come le ha definite lo scrittore anarchico Hakim Bey. «Da bambino giocavo con i miei compagni di classe a costruire case nel bosco, tra le colline del paesino. Era il nostro spazio di libertà, un luogo di segreti. Al CSO abbiamo ricostruito la stessa dinamica» spiega. La sinistra riformista li ha criticati come un piccolo mondo perfetto, dove rinchiudersi e rinunciare così a cambiare il mondo reale. Tuttavia, i CSO erano, sostiene Casarini: «Esseri viventi. Era un modo di stare in società, di vestirsi, uno stile musicale, un linguaggio, un modo di manifestare». Hanno influenzato migliaia di giovani che ci andavano per ascoltare la migliore musica del momento, fumarsi una canna, ballare, dare lezioni di italiano a migranti o fare un corso di autodifesa femminile, tra le migliaia di attività sorte e scomparse, in una distruzione creativa costante. “Siamo il sangue nuovo nelle vene della metropoli”, recitava uno slogan dell’epoca. Erano “i gioielli della cultura italiana” scrisse il quotidiano francese Le Monde.

Ma, senza dubbio, il rischio di rinchiudersi era reale: “Esci dal ghetto, rompi la gabbia” era lo slogan coniato per scongiurare quella sorte. Per sfuggire dal ghetto, hanno accettato la sfida e le regole della società dello spettacolo, nella quale i rapporti sociali sono mediati dalle immagini. Casarini e i suoi hanno incastonato le loro azioni di disobbedienza civile dentro delle immagini e dei riti: nella campagna elettorale nazionale del 1996, quando Silvio Berlusconi arrivò con la sua nave da crociera nella laguna di Venezia, gli impedirono di accedere al porto con il Rivolta Yellow Submarine, una piccola nave pirata stile Beatles. Nel 2011, durante le proteste studentesche dell’Onda contro la riforma universitaria, si sono presentati ai cortei con gli scudo-libri, lastre di plexiglass con i titoli dei grandi classici della letteratura usate per difendersi dalla polizia. La seconda soluzione contro il ‘rischio ghetto’ è stata la partecipazione dei membri del CSO alle elezioni locali, regionali e talvolta anche nazionali.

Opera di Max Fish.

La ferita

Luglio 2001. Berlusconi, grazie ad una schiacciante vittoria elettorale, è al suo secondo mandato come primo ministro da appena un mese. La lira italiana circola ancora, l’economia cresce e si guarda con speranza al nuovo millennio. Centro-destra e centro-sinistra concordano nel dire che la globalizzazione è un gioco in cui tutti vincono. Il 20 luglio arrivano a Genova i potenti del mondo, per il vertice delle otto maggiori economie del pianeta, il G8. Per proteggere il decoro pubblico, il governo ha vietato di stendere i panni ai balconi e ha schierato 13.000 agenti di polizia. Ma c’è anche un’altra Genova, quella di chi non crede alle promesse della globalizzazione neoliberista e sa che le sue conseguenze sono nascoste nel sud del mondo, come la polvere viene spazzata sotto il tappeto. Si sono già incontrati a Seattle due anni fa, fanno parte di un movimento internazionale e questa consapevolezza gli dà forza: sono i no-global e insistono sul fatto che un altro mondo è possibile.

Alla vigilia del vertice, tra le centinaia di migliaia di persone scese in piazza, circa 10.000 membri delle Tute Bianche dichiarano guerra ai potenti: le loro tattiche di disobbedienza civile si muovono ai margini della legge. Casarini, arrivato in treno in quella Genova ribelle, se oggi fosse su quel vagone con quel militante trentenne gli direbbe: “Attento, non fidarti del sistema, proteggi la tua gente”. «Ci siamo fidati troppo che trovandoci nel cuore dell’Europa, a metà del terzo millennio, ci sarebbero stati dei limiti che lo Stato non avrebbe potuto superare» ammette. Non sarebbe andata così.

Tra il 20 e il 22 luglio, a Genova si verificherà “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dalla seconda guerra mondiale”, secondo quanto denunciato all’epoca da Amnesty International. “Pensavamo di essere in Italia e invece ci ritrovammo nel Cile di Augusto Pinochet”, dice l’attivista. Una minoranza di coloro che protestavano – “meno del 5%”, dice – agì con una dinamica di guerra, dando fuoco alla città. La reazione della polizia è stata sproporzionata e ha preso di mira tutto il movimento, la stragrande maggioranza del quale era pacifico, come testimonia il documentario Netflix Diaz. Casarini preferisce usare un linguaggio di guerra: parla di prigionieri, non di detenuti. E in effetti, i tre giorni del vertice furono una guerra, una ferita – secondo la definizione del bel libro del giornalista Marco Imarisio – ancora aperta per due generazioni di italiani che, dalla estate torrida del 2001, sono cambiati per sempre. Genova fu anche l’atto fondativo di Alleanza Nazionale come partito ‘legge e ordine’, secondo la volontà politica del suo leader Gianfranco Fini, allora vice primo ministro di Berlusconi, che ha supervisionato le azioni della polizia durante la protesta.

Scuola Diaz di Genova.

La meraviglia

Ma prima della guerra, ci fu la meraviglia. Un popolo colorato e creativo scese nelle strade di una città pensata come palcoscenico per i potenti del globo; vi fu l’utilizzo di Internet – quando non era ancora uno strumento di massa – per organizzare una mobilitazione orizzontale; Il Genoa Social Forum (GSF), con le sue 800 organizzazioni – dalle chiese evangeliche agli ambientalisti, passando per gli autonomisti delle Tute Bianche – fu il luogo di elaborazione di proposte innovative, come la Tobin Tax, la tassa sulla ricchezza finanziaria che sarebbe diventata di moda sette anni dopo, con la crisi del 2008.

«Per quelli come me, che hanno passato tutta la vita in contrapposizione con quelli della stessa parte, l’esperienza GSF è stata incredibile. Nelle chiese, dopo le prediche dei sacerdoti, c’erano le assemblee del movimento, si parlava di come organizzare le marce e di come permettere la convivenza di diversi modi di manifestare. Tutti facemmo un grande sforzo per curare l’unità nella diversità», ricorda Casarini. E riflette anche: «Pensavamo che il problema fosse quello che stavamo facendo noi. E non quello che hanno fatto loro. L’obiettivo del potere era mettere in ombra la forza del movimento. Dopo la grande mobilitazione no-global a Seattle nel 1999 avevano deciso di porre fine a un movimento che si stava espandendo in tutto il pianeta. E ci sono riusciti con la repressione. E dopo Genova, i vertici del G8 si sono svolti in località più remote, lontane dalle città».

Dietro lo striscione.

L’occasione perduta

Dopo la repressione della polizia a luglio, arrivò l’11 settembre e le guerre di George W. Bush in Iraq e Afghanistan. Il mondo e le regole del gioco stavano cambiando. «Ci siamo rinchiusi nelle nostre certezze, ciascuno a fare le proprie cose, e con la logica del mondo in guerra non c’era più spazio per la disobbedienza», lamenta Casarini, che ricorda i grandi movimenti pacifisti italiani del periodo tra il 2002 e 2004, quando le Tute Bianche si stesero sui binari ferroviari per bloccare il trasporto di materiale bellico alle basi militari statunitensi in Italia. Poi arrivò la crisi del 2008, che colpì duramente i cosiddetti ‘PIGS’, come dicevano con disprezzo alcuni banchieri e media del nord Europa riferendosi ai vicini meridionali: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. La crisi trasformò la scena politica in quei territori: emersero nuovi partiti di sinistra con proposte di cambio di paradigma delle politiche neoliberiste di Bruxelles. Syriza è andò al potere ad Atene, Podemos minacciò di rompere il bipartitismo in Spagna.

In Italia, le domande di cambiamento e le energie trasformative vennero interamente assorbite dal Movimento 5 Stelle (M5S). «Il M5S occupò uno spazio che avrebbe potuto essere il nostro; è stata la nostra grande occasione mancata. Avevamo la forza e il consenso popolare per cambiare la scena politica. Ma abbiamo perso l’occasione, perché dopo Genova non abbiamo mai aperto un dibattito sul governo» ricorda con amarezza Casarini.

Con Pablo Iglesias, leader di Podemos.

Camminare domandando

A vent’anni dalla protesta genovese, Casarini volge lo sguardo all’indietro, ripensa alla strada percorsa. «Nella mia attuale esperienza, soccorrendo migranti nel Mediterraneo, mi sono trovato faccia a faccia con la vita, l’ho tenuta tra le braccia salvando persone che stavano annegando. La vita è la grande novità: mai era stato un obiettivo così immediato della mia disobbedienza» confessa. Invece, la morte l’aveva vista da vicino almeno un paio di volte. A Genova, nel 2001, con l’omicidio di Carlo Giuliani. In Palestina, nel 2002, quando, insieme ad altri volontari europei, partecipò alla difesa di un ospedale di Ramallah che l’esercito israeliano voleva bombardare: «Eravamo dentro l’ospedale e, quando i militari si avvicinavano, correvamo fuori mostrando i nostri passaporti, per fargli vedere che eravamo stranieri e per fargli capire che se avessero attaccato non sarebbe rimasto segreto. Avevo una scarpa rotta, pioveva e faceva freddo. Ho chiesto una scarpa nuova e il dottore mi ha portato all’obitorio. Lì, tra i corpi, ho dovuto cercare la taglia 43».

A 54 anni Casarini ripensa al suo viaggio, dal paesino operaio veneto ai viaggi in Chiapas dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, dalle Tute Bianche al suo rapporto con i Verdi, il partito ambientalista italiano: «Ho uno zaino carico di storie e ognuna di esse mi ha trasformato. Oggi sento che, con la nave di soccorso, tutti i guai della mia vita hanno un significato. I pezzi del puzzle vanno ciascuno al proprio posto». Sente che questa è una nuova tappa, di domande che racchiudono «una dimensione più intima» legata alla vita: «Non ho certezze da offrire, voglio continuare la mia ricerca, il mio camminare domandando».

Notte tra il 3 e 4 ottobre 2018. Partenza della Mare Jonio per il Mediterraneo centrale.

(Grazie per spunti e commenti a Clelia Bartoli, Fabio Calè, Ida Dominijanni e Walter Tocci).

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