Intervento tenuto il 19 giugno alla riunione presso al Camera dei Deputati del “Tavolo di confronto permanente” promosso dalla Rete dei Numeri Pari che ha coinvolto i diversi partiti di opposizione.
La sensazione di essere alla vigilia di una svolta profonda mi sembra generalizzata: è un dato che ci accomuna. Verso dove stiamo andando e come reagire al cambiamento annunciato è più oscuro, e spesso ci separa.
Ciò che anche ci unisce è la voglia di cambiare lo stato delle cose. Magari siamo confusi, forse divisi ma siamo tutti all’opposizione. Dunque, alla ricerca di un cambiamento possibile.
Una terza cosa che ci unisce – ahinoi – è la difficoltà del presente che rende complesso far valere le nostre ragioni nei palazzi del potere, così come presso un’opinione pubblica distratta. Un’afasia che non è solo il frutto di una sconfitta elettorale, quella del 25 settembre, che può anche allarmare, ma ben più preoccupante è come ci si è arrivati e le condizioni che si sono determinate.
Dopo il governo tecnico – al quale tutti o quasi avevano delegato la determinazione della politica nazionale – il ritorno della politica che, nel vuoto di proposte di cambiamento reale, ha visto l’affermazione di una nuova destra. La quale se, da un lato, si pone nel segno della continuità nei rapporti internazionali e nelle politiche economiche, dall’altro manifestata una chiara volontà di cambiare nel profondo le radici della nostra democrazia costituzionale.
Non solo le politiche sociali o quelle disumane in tema di migrazioni, ma anche quelle direttamente rivolte e modificare la nostra forma di governo: eleggendo direttamente un capo, abbandonando il Parlamento al suo definitivo declino, rinunciando alla forza di riequilibrio di un Presidente della Repubblica garante della Costituzione. Nonché l’intenzione dichiarata e in avanzato stato di costruzione di stravolgere la nostra forma di Stato regionale: imponendo un regionalismo di tipo competitivo ed egoistico, con l’appropriazione delle funzioni, anche quelle di più evidente rilievo nazionale, abbandonando un regionalismo – forse mai nato ma costituzionalmente definito – di tipo solidale e fondato sul principio di differenziazione ed esaltazione delle virtù – non invece degli egoismi – delle comunità locali.
In questa situazione, per tutte quelle forze che si riconoscono ancora nella nostra democrazia costituzionale, diventa un obbligo civile, prima ancora che politico quello di riprendere la parola.
Riprendere la parola, ma per dire cosa? Quali sono le parole che ci possono unire, quelle che possono distinguere la nostra visione del mondo da quella attualmente prevalente?
E poi oltre alle parole, dovremmo riuscire anche a trovare la sintassi per scrivere la nostra storia, la nostra diversa storia fondata sui nostri diversi valori.
La mia convinzione è che non è difficile trovare né le parole né la sintassi comune a tutti coloro che vogliono cambiare orizzonte in nome della solidarietà, anzi in nome della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità: liberte, égalité, fraternité, ecco le nostre parole. Simboli e termini pieni di storia, che sono stati ormai sostituite da altre parole – anch’essa piene di un’altra storia – come Dio, Patria e famiglia. Sono queste le parole che si pongono a fondamento del nuovo che avanza e che noi vorremmo fermare o quantomeno mutare nel loro significato metaforico.
E la sintassi? Io credo che sia quella scritta nel patto fondativo della nostra repubblica. In quella rivoluzione promessa che è ancora tutta da attuare, a cui molti da tempo – anche dalle nostre parti – avevano rinunciato o sottovalutato o preteso di stravolgere, ma che ora faremmo bene a riconsiderare e porre al centro del nostro operare.
Vorrei fornire un argomento in più per rilevare l’urgenza di aprire una stagione di lotta per l’attuazione costituzionale e la richiesta di un radicale cambiamento in suo nome.
Come diciamo noi poveri e inascoltati costituzionalisti – ma è una realtà scolpita nel marmo della storia – le costituzioni vengono scritte in tempi di sobrietà e saggezza perché devono valere in tempi di ebbrezza e sbandamento.
Ecco, se questi sono tempi confusi a rischio di essere travolti da eccessi di euforia incontrollata, l’àncora – la saggezza e la sobrietà – costituzionale può evitare di andare alla deriva, finendo per farci allontanare da un sistema di valori che pone la persona e la sua dignità al centro dell’agire sociale e politico; l’accoglienza dei diversi e degli stranieri come specifica responsabilità della Repubblica; la garanzia e il riconoscimento dei diritti inviolabili come suo compito; i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale come suo impegno; il lavoro che, in tutte le sue forme, è da considerare un diritto, e che dunque deve assicurare, anche nei casi di disoccupazione involontaria, un reddito che sia in grado di garantire a se e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Sono queste alcune delle voci – tratte dalle parole della Costituzione – che sostengono e ispirano la nostra agenda sociale.
Ci si potrebbe chiedere se la forza dei precetti costituzionali sia tale da poter essere posta alla base di un programma politico delle diverse forze di opposizione. Il punto è delicato, più di quanto non si possa ritenere di primo acchito. Inquinato soprattutto da parte di chi è abituato a fare solo della retorica costituzionale. Da parte di chi sostiene che la nostra sarebbe la costituzione più bella del mondo senza preoccuparsi che – mi verrebbe da replicare – in realtà appare la più inapplicata al mondo.
Ma al di là delle facili frasi. Se è vero che non si deve perseguire la strada di un “partito della Costituzione”, perché i principi costituzionali possono essere diversamente articolati e la determinazione degli indirizzi politici e delle politiche nazionali sono rimesse alle maggioranze parlamentari e alle forze politiche a garanzia del pluralismo.
È però anche vero che lo scollamento tra la costituzione e la realtà politico-istituzionale è ormai giunta ad un punto critico.
Da qui l’invito a tutte le forze di opposizione ad unirsi per far valere le ragioni della Costituzione inattuata rispetto a una maggioranza che vorrebbe stravolgerne lettera e spirito.
Bastano due esempi – quelli precedentemente indicati – per comprendere i rischi che si corrono e il lavoro che bisognerebbe fare per contrapporre un’altra idea di democrazia in nome della Costituzione inattuata.
Si vuole cambiare la forma di governo per eleggere il capo, concentrando cioè ancor più nelle mani del Governo poteri che esso già ha in abbondanza e di cui già abusa, assorbendo la funzione legislativa e comprimendo l’autonomia del parlamento (i decreti-legge sono solo la punta d’iceberg di un processo di progressiva concentrazione dei poteri nelle mani della Presidenza del Consiglio, financo a scapito della collegialità dell’esecutivo). Una prospettiva, dunque, che è ben nota a noi costituzionalisti e che porta alla trasformazione della democrazia rappresentative in un’opposta democrazia identitaria. La democrazia dei capi, appunto.
Rispetto a questa deriva è la Costituzione che dovrebbe portare a sollecitare un cambio di priorità: il malato da curare non è il Governo bensì l’organo della rappresentanza. Il nostro compito dovrebbe essere allora quello di ripristinare un ruolo autonomo del legislativo e riequilibrare i rapporti con il Governo a favore del Parlamento; riscrivere le regole che attualmente impediscono ai nostri parlamentari di rappresentare (effettivamente) la nazione, senza vincoli di mandato, sia ricostruendo una dialettica tra maggioranza e opposizione in seno al Parlamento ormai incapace di discutere ma solo chiamato a ratificare decisioni assunte altrove, sia restituendo agli elettori la possibilità di scegliere i propri eletti nel momento delle votazioni; rivitalizzare il dialogo interrotto tra la piazza e il palazzo entro un quadro di democrazia pluralista e conflittuale così come inscritto nella nostra costituzione che assegna la sovranità al popolo, e il suo conseguente esercizio alle forme e ai limiti della rappresentanza politica. Un circuito interrotto di cui nessuno sembra preoccuparsi, come se le democrazie moderne potessero governarsi a prescindere dal popolo.
Potrei continuare, ma mi sembra sufficiente per indicare quella che a me pare la via maestra: la necessaria riscoperta della rappresentanza e delle sue istituzioni parlamentari.
Questo è l’altro mondo possibile che è necessario rivendicare per opporsi senza remore ai disegni di segno presidenziale, per ora ancora nebulosi nella loro definizione puntuale, ma già chiarissimi nella loro ispirazione culturale e politica di fondo, che ci allontanerebbero ancor più di quanto non è già adesso dall’attuazione costituzionale, deturpandola definitivamente.
Così è anche per l’altra grande riforma annunciata. Una riforma preparata da tempo e con miopia avallata da tanti, da molti anche vicini a noi, che se ne sono fatti spesso promotori o che hanno solo voluto inseguire gli altri, magari sperando di fornirne una versione “mite”.
Ma non è più questo il tempo dell’arrendevolezza, i guasti si sono già tutti dispiegati e ora i nodi vengono al pettine. Se non si vuole cambiare la forma del nostro stato costituzionale, abbandonando l’idea della repubblica una e indivisibile; se non si vuole lasciare che i diritti fondamentali, ma anche i servizi essenziali, siano di esclusiva titolarità delle regioni, dirigendoci verso un modello di regionalismo di stampo egoistico-appropriativo (diciamo più convenzionalmente “competitivo”) dovremmo fondare la nostra radicale opposizione richiamando la necessità di dare attuazione ad un altro regionalismo possibile, quello definito dalla nostra costituzione e mai realmente attuato: un regionalismo di tipo “solidale” che trova negli articoli 2, 3, 5, 119 il suo fondamento di legittimazione costituzionale. Una bella sfida che scommette sul fatto che un altro regionalismo sia possibile.
A questo punto credo che risulti chiara e netta la domanda che sin dall’inizio con queste nostre iniziative unitarie abbiamo posto a tutte le forze politiche e sociali che sono ora all’opposizione.
Eccola detta in termini secchi: «Cari amici, non pensate che sia giunto il tempo di costruire un fronte che rivendichi l’attuazione, e che rilanci le ragioni di un preciso progetto di civiltà per cui vale la pena lottare e che è rappresentato dalla Costituzione repubblicana?»
Una risposta positiva ci è stata data. L’abbiamo ricevuta all’ultimo nostro incontro alla Casa delle donne. Ora è necessario trovare dei luoghi di riflessione e di elaborazione comune. Per passare dalle parole ai fatti, dalle enunciazioni di principio, quale quelle che vi ho sin qui esposto, ai programmi concreti, che possano trarre giovamento – e gambe – nelle esperienze di vita delle associazioni che rappresentiamo, che possano concorrere a contrastare le proposte, gli atti, i singoli disegni di legge che verranno, di volta in volta, presentati nelle sedi istituzionali, al fine non solo di contrastarli, ma anche al fine di contrapporre a essi un altro sapere, una diversa cultura istituzionale. Un’esperienza maturata nel corso del tempo da chi ha sempre guardato alla costituzione come programma e non come intralcio. Competenze da tempo acquisite, sebbene forse – almeno sino a ora – poco ascoltate da un sistema politico e istituzionale troppo sordo alle ragioni della Costituzione, e che sarebbe bene riuscisse ad aprirsi. Ascoltare i saperi diversi e il pensiero critico, anche quando essi sono saperi e pensieri scomodi per conseguire risultati immediati, ma fondamentali se si vogliono conseguire obiettivi strategici: sarebbe questo un’ottima novità in tempi difficili che di cambiare in meglio ha una grande bisogno, che di visioni – “utopie concrete” direbbe Ernest Bloch – ha grande necessità.
Il lavoro in comune che vi proponiamo speriamo non rimanga isolato, ma possa costituire un più appropriato e generalizzato modo di ascoltarsi e lavorare assieme. Il nostro proposito non è quello di andare alla ricerca di uno spazio chiuso di confronto, ma ambisce ad indicare una strada per poter costruire rapporti sociali, politici e culturali tra soggetti diversi, fondati sulla comune credenza nella costituzione come leva del cambiamento e della trasformazione sociale. Sarebbe opportuno moltiplicare i luoghi di confronto per poter giungere alla definizione di un progetto unitario di riappropriazione di un orizzonte concreto, comune a tutte quelle forze politiche e culturali che credono nella forza propulsiva e progressista della Costituzione.
Infine, un’ultima osservazione “politica”, se mi è consentito. Posta in essere una politica costituzionale comune, ci si può poi anche dividere. Si può poi, nell’ambito della comune visione della Costituzione, rivendicare ciascuno più o meno fondate identità o storie diverse, competere per conquistare un proprio specifico consenso elettorale. Ci si può dividere anche su questioni importanti – decisamente importanti – sulla politica estera (l’invio delle armi in Ucraina) sulla politica interna (le scelte in materia di giustizia).
Ma ciò che deve tenere unite oggi le forze che si oppongono è la consapevolezza che la Costituzione non è solo un’arma di difesa ma anche di attacco in periodi difficili quali sono i nostri. Un’arma necessaria per ricostruire una politica che guardi ai diritti delle persone concrete e non solo alla concentrazione del potere. Per troppo tempo ci siamo limitati a inseguire le ragioni degli altri e ci siamo persi. Torniamo allora a riflettere sulle nostre parole.
Magari, nel segno del cambiamento costituzionale, si potrebbe pure riuscire a ritrovare un popolo che oggi è disperso, ma non domito.
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