Non trovo in me parole per Bianca. Non ancora. Nel salutarla lunedì alla Casa Internazionale delle Donne mi sono avvalsa delle sue parole, rintracciate in due scritti, particolarmente significativi, per l’argomento e per aderenza al suo stile di pensiero. Il primo, pubblicato in Mamme, non mamme nel 2017 (supplemento a “ Leggendaria” n. 123) è sulla richiesta di “reato universale” per la Gpa, avanzata da Snoq-libere alla Cedaw. Abbiamo deciso di ripubblicarlo per la forte attualità e pregnanza rispetto al dibattito attuale e al prossimo voto in Parlamento sul ddl di Fratelli d’Italia di introduzione del reato. Mi limito a richiamare due punti particolarmente significativi. Muovere dalla “narrazione delle passioni e delle paure”, suscitate dalle nuove forme di genitorialità e di amore, “per andare alla radice dei problemi e per trovare risposte adeguate a un’umanità incerta sul proprio futuro, stretta nella morsa tra fondamentalismi e neoliberismo”. L’invito di Bianca è a proseguire il dibattito pubblico, prestando ascolto alle esperienze senza affidarsi a certezze, volte a ribadire “identità catalogabili e disposte in rigide gerarchie”.

Anche il secondo, sulla guerra (Stanche di guerra, Dwf, 3-2000), è uno scritto di grande rilevanza per il presente. E avremo modo di ritornare a riflettere e ad approfondire le molte questioni che in esso Bianca pone. Mi limito qui a nominare quello che era da sempre un suo assillo, divenuto nel tempo più forte. Come affrontare o tragici eventi del nostro tempo, avvalendosi appieno delle pratiche e dei saperi del femminismo. Muovendo da una duplice convinzione: la politica tradizionale, dei partiti e delle istituzioni, come dei movimenti e della società civile è sempre più inadeguata ad affrontarli; il femminismo se per un verso è indispensabile per superare questa inadeguatezza, deve, peraltro verso, dotarsi di una nuova pratica “per competere con la globalizzazione” e “confrontarsi con i differenti livelli negoziali” necessari a incidere sui sistemi di potere. Tutta la vita politica di Bianca è stata volta a superare la dicotomia tra politica istituzionale e autonomia dei soggetti politici espressi dalla società civile. Per non essere condannate/e all’antagonismo. È un lascito ardito, ma non eludibile.

Vietare o regolamentare?
di Bianca Maria Pomeranzi

Le mie considerazioni si concentrano sulla richiesta di “divieto universale della “maternità surrogata”, che io preferisco chiamare Gpa, che il recente Convegno internazionale organizzato da Snoq-Libere ha inviato alla Convenzione per l’Eliminazione delle Discriminazioni Contro le Donne (Cedaw). Su quel testo vorrei avanzare alcune riflessioni ispirate non tanto e non solo dalla mia partecipazione al Comitato che monitora l’attuazione della Convenzione, ma soprattutto dall’incontro organizzato poco più di un anno fa come “Gruppo del Mercoledì” su genitorialità e forme d’amore. In quell’occasione, infatti, scegliemmo di non prendere immediatamente posizione sul diritto all’adozione delle coppie dello stesso sesso allora in discussione in Parlamento, ma di sollecitare, attraverso alcune domande, la narrazione delle passioni e delle paure che inevitabilmente nascono quando si parla delle nuove forme di genitorialità che le biotecnologie applicate alla riproduzione umana hanno reso possibili.

Quella postura, ancor più del linguaggio giuridico dei diritti umani, mi sembra necessaria per affrontare i problemi etici e politici che si presentano con la richiesta di un provvedimento di “divieto universale”.

Parto, dunque, da qui per leggere quella petizione, soffermandomi soprattutto su tre punti che mi sembrano fondamentali: la difesa della maternità, il modo in cui nel documento viene definita la libertà delle donne e la richiesta di divieto della “surrogata”.

La difesa della maternità effettivamente costituisce una delle preoccupazioni della Cedaw ed è presente sia nel preambolo che in due articoli. Nel primo – art. 4 b – si invocano “misure legislative temporanee” per facilitare l’accesso delle madri al mondo del lavoro e allo spazio pubblico. Nel secondo – art. 12 – si richiede l’accesso a tutti i servizi che riguardano la salute riproduttiva.

Nel confronto con il testo uscito dal convegno di Snoq-libere emergono però profonde diversità. L’intento della Convenzione è di far in modo che le differenze biologiche tra uomini e donne non divengano un elemento di discriminazione per queste ultime. Il fatto che la maternità debba essere riconosciuta come un valore sociale e quindi tutelata dallo Stato (come descrive la Raccomandazione generale Cedaw n. 20, prodotta dal Comitato) tende a rafforzare l’autonomia delle donne sulle scelte riproduttive.

La petizione, invece, sembra mettere questo tema in secondo piano e immagina (par. 3 e 4) che in ogni caso ci sia un’impossibilità di scelta da parte delle donne che partecipano al processo di Gpa, descritte sempre come vittime delle imposizioni del mercato e delle disuguaglianze economiche.

La maternità, nella petizione, assume inoltre un carattere quasi assoluto di «espressione altissima della dignità umana femminile» riverberando sulle scelte di non procreazione uno stigma. In epoca di taglio ai finanziamenti per la salute riproduttiva, imposti da Trump, quando il numero di morti per aborto “insicuro”, che molte donne subiscono in quasi tre quarti del mondo, è ancora stimato attorno a 70.000 per anno, questo può costituire un problema. Soprattutto per il Comitato Cedaw che tutela i diritti sessuali e riproduttivi delle donne come esercizio di libertà.

La petizione, invece, fonda (par. 1) la libertà femminile e addirittura il senso «dell’accesso collettivo delle donne alla libera espressione, materiale e culturale, di sé» sulla maternità, come se questa coincidesse totalmente con «la pienezza umana» e fosse condizione necessaria «per lo sviluppo dell’intera personalità». Proposizione che ritengo inaccettabile da parte del Comitato che, soprattutto negli ultimi anni, è stato sempre molto attento a interpretazioni che non comportino conseguenze discriminatorie verso alcune scelte delle donne. In questo caso chi sceglie di non essere madre, ad esempio per un diverso orientamento sessuale, rischia di essere pensata come una donna non pienamente realizzata. Un approfondimento su queste definizioni mi sembra quindi necessario e inevitabile, se non altro per chiarire gli intenti che sottostanno alla richiesta di “divieto universale”.

Non si può certo rimanere indifferenti alle testimonianze finora raccolte sui casi di violenza e di abuso, né ignorare il fatto che la globalizzazione, attraverso la razionalità neoliberista, abbia esacerbato le relazioni di dominio sui soggetti più marginali, soprattutto in molte aree povere del pianeta. Tuttavia, proprio per intervenire con maggiore forza per il rispetto dei diritti umani, occorrono dati certi che, accanto all’enunciazione dei principi, diano l’evidenza “fattuale” delle violazioni, offrendo l’opportunità di identificare le modalità per eliminarle.

Per questo motivo ho molti dubbi sulla richiesta di un “divieto universale”. Ricordo, infatti, che nel caso delle mutilazioni genitali femminili, fenomeno culturale che colpisce circa 125 milioni di donne e bambine, si è riusciti a produrre una risoluzione di “bando” da parte dell’Assemblea delle Nazioni unite solo dopo circa trent’anni di studi e statistiche, di denunce e di attivismo e che, comunque, l’obiettivo della eliminazione della pratica è ancora lontano.

Mi chiedo, dunque, se per un fenomeno relativamente nuovo come quello della Gpa, già proibito o normato in molti Paesi, non sarebbe più utile cercare strumenti di intervento, operativi nel breve periodo, sia a livello nazionale che internazionale.

Esistono alcuni studi in tal senso. Cito, ad esempio, il “Forum sull’Adozione internazionale e la Surrogata globale” tenutosi all’Aia nel 2014 e le conclusioni del Gruppo di Lavoro sulla Surrogata che, accanto alle opposte soluzioni della proibizione e della regolamentazione, ipotizzano l’utilizzo una serie di misure legali e politiche, più efficaci per eliminare violenze e discriminazioni. Queste possibilità dovrebbero essere approfondite, soprattutto se l’intento è quello di stroncare sul nascere nuove forme di commercializzazione della vita umana o nuove schiavitù femminili.

Qualche anno fa Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa sottolineavano che la combinazione di cultura patriarcale e risorse tecno-scientifiche puntava all’eclissi della madre, nelle tecniche di riproduzione umana (Maria Luisa Boccia, Grazia Zuffa, L’eclissi della madre. Fecondazione artificiale, tecniche, fantasie e norme, Pratiche editrice, Milano 1998). Quell’eclissi, grazie al perfezionamento delle tecniche e alla velocità degli scambi, tra donazioni di materiale biologico e impianti intrauterini, si è definitivamente orientata sulla “segmentazione” del processo materno, in una moltiplicazione delle madri parziali, dalla fornitrice di ovuli, alla gestante, alla madre legale, che può essere anche un padre.

Certamente tutto ciò spaventa e si presta alle distorsioni di un mondo disordinato che moltiplica le pratiche di dominio e le violenze a cui il sistema dei diritti umani delle Nazioni unite non sempre riesce a dare risposta. Anche un trattato come la Cedaw, nonostante le interpretazioni progressiste che il Comitato si impegna a fornire per una giustizia trasformativa, fatica a risolvere il complicato rapporto tra Stato, mercato e libertà femminile.

Quindi, pur condividendo l’ansia che ha mosso le autrici della petizione contro le violenze che si possono produrre nella Gpa, credo che, prima di assumere l’obiettivo del “divieto universale”, si debba proseguire il dialogo pubblico e si debba prestare un maggiore ascolto ai nuovi modi di essere e ai “gesti di rivolta” contro le identità catalogabili e disposte in rigide gerarchie.

Mi sembra, infatti, che utilizzare il “paradigma della cura” sia il modo migliore per andare alla radice dei problemi e per trovare risposte adeguate a un’umanità incerta sul proprio futuro, stretta nella morsa tra fondamentalismi e neo-liberismo. Più utile sicuramente della richiesta di un divieto basato sulla sacralità della maternità fisica.

Soprattutto se si prende la libertà delle donne come punto di partenza per trasformare i diversi modi in cui si creano dominio, sfruttamento e sottomissione.

Qui il PDF

Un commento a “In ricordo di Bianca Maria Pomeranzi”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *