Marangoni e Banfi mi hanno rifatta da capo a piedi

di Rossana Rossanda

Marangoni mi ha insegnato a guardare un quadro o una statua, il che non va affatto da sé. Venivo da un normale contenutismo, mi sbalordisce che ci si torni adesso, guardavo ai ritratti o alle scene, meglio se dolci e sontuose come a Venezia, evocative non sapevo di che. Croce ci sgrezzava dicendo che forma e contenuto sono indissolubili, aveva ragione, e allora? Lui, Marangoni, se ne infischiava di forma e contenuto, nell’aula oscurata la sua lunga bacchetta passava sulla diapositiva, ci proibiva di badare al tema (per quello c’erano le parole) e si fermava: Vedete qui, e qui, come è giusto – giusto indicava qualcosa di assoluto, un cadere definitivo del disegno o della luce nei bianchi e neri della lastra; la prima che mi squarciò il modo di vedere dovette essere I coniugi Arnolfini, tanto nettamente li ricordo e li ritrovo e loro stessi mi paiono immobili e incantati nel gioco che gli passa attraverso. Che cos’era quella definitività? Non mettere in parole quel che parola non è. Guarda, vedi. Marangoni era un uomo allampanato con un’aria povera per distrazione, tutto in quegli occhi azzurrissimi e lontani. Non aveva tempo per altro. Gli feci da assistente per un anno e non seppe mai come mi chiamavo: «Mi passi la diapositiva seguente, Cerioni», diceva. Ecco, professore, e inserivo la lastra, veramente sarei Rossanda. «Sì, sì mi scusi. Ma prima vediamo Van Eyck, dovrebbe trovarlo, guardi, Garrani». Ma non scordava i visi ed era contento se esaminandoci scopriva che la tale, il cui nome mai si sarebbe fermato nella sua vagante testa, vedeva giusto.

Non l’ho dimenticato, guardo i musei come lui mi ha insegnato, raramente sbaglio, le gioie sono ancora quelle. Naturalmente sono rimasta a un certo tipo di arte, quella per cui chi dipinge ti mette come a una finestra a contemplare il suo rendere in pittura forme e luci e volumi; l’arte contemporanea che si occupa di me invece che di sé non mi dice gran cosa, la proposta d’un oggetto, lo scandalo di Oldenburg, mi lasciano fredda. Ma quell’idea del dipingere o del modellare, quello sì la vedo come in quei giorni illuminanti. Posso andare a Bruxelles per divertirmi con Magritte ma non è pittura, la body art è un fenomeno altro, mentre Bacon o Rothko, quando li incontro, mi acchiappano e divorano e mi si installano dentro per sempre. Di Marangoni dicevano che aveva sposato la Mosca Montale, la quale appena presentata comunicava: Mi chiamano Mosca perché sono noiosa, ma era meno sfuggente del suo nuovo grande consorte. Non dubitavo che Marangoni l’avesse perduta, se pur mai teneva a qualcosa di suo in quello stupefatto vagare fra le meraviglie della forma.

Nessuno gli ha reso l’omaggio che gli sarebbe dovuto, a Matteo Marangoni, erano gli anni in cui, già invecchiati Salmi e Toesca, leggevamo Lionello Venturi e il Pier della Francesca di Roberto Longhi, che pareva parlare di quel che traversava noi. Quel suo libro – ancora nell’edizione nerastra del 1927 – è rimasto uno dei testi della vita perché parlava di un tempo di capovolgimento, della sua violenza e della sua razionalizzazione, quel di cui confusamente sentivamo il bisogno, era stato Marangoni a indicarcelo. Non dette una sola indicazione inutile. E se ci mostrò come la prospettiva fosse tutto fuorché realistica, le conclusioni che ne traeva Panofsky me le trovai da sola nei Monatshefte della Biblioteca Warburg.

Rossana Rossanda e gli studi di estetica

di Alberto Olivetti

Un elenco di autori. Simmel, Cassirer, Panofsky, Riegl. E ancora: Warburg, Woefflin, Dvorak, Schlosser, Fiedler. In quei mesi, tra i diciotto e i vent’anni, di Konrad Fiedler traduce gli Aforismi sull’arte, che Minuziano pubblica nel 1945. «Nelle sale tranquille della Biblioteca Querini Stampalia a Venezia, o nei concerti a Ca’ Foscari o, a diciassette anni, nell’Istituto di paleografia e di storia dell’arte dell’Università di Milano apprendevo cose squisite» scrive, nel 1985, Rossana Rossanda in Un apprendistato politico, riandando agli anni della sua formazione. Anni di guerra. Una guerra che, oltre i fronti, dilaga e distrugge e sconvolge fin i consueti assetti quotidiani della vita nelle città: «Proprio nel mio diletto Istituto di storia dell’arte mi trovavo quando sull’università, ancora in corso di Porta Romana, erano caduti i primi spezzoni della Royal Air Force». La presenza della guerra impone doveri nuovi, revoca in dubbio la liceità di «ogni privato splendido isolamento». Vietarsi, allora, gli splendori che stanno nello studiare? Assumere improrogabili adempimenti che sono tali da comportare «un sicuro addio a quanto di bellezza potesse esserci nella solitudine del sapere, capire, vedere, sentire quello che pochi avevano fatto per pochi»? Aggiungere, per quanto limitata possa essere, la propria forza (vogliam dire l’intelligenza e la volontà) impegnandosi nel contrastare sofferenze e ingiustizie? Abbandonare dunque i privilegi destinati ai pochi e perseguire l’elaborazione di una consapevolezza attiva operando tra i molti? Tra i molti. Si dica nell’avanguardia dei molti. La classe operaia organizzata, il partito comunista. Rossanda ha più volte narrato la sua scelta, tra ’43 e ’44, giovane donna, sui suoi diciannove e i suoi vent’anni. Ha raccontato il suo esser «saltata», questo il verbo che impiega, «da Simmel o Cassirer o Panofsky o Riegl direttamente a Lenin». Saltare. Sono le robuste zampe a dare lo slancio alla cavalletta. Il salto di Rossanda è corroborato, dirò, meglio: sarebbe stato possibile senza aver studiato Fiedler e Warburg o quell’aver, come scrive, «negli occhi le prospettive di Piero e le tavole della Spätrōmische Kunstindustrie, la fine della ‘misura’ classica e l’illusione del suo ‘ritrovamento’ rinascimentale»? No, non sarebbe stato possibile. Ne sono profondamente persuaso. E convinto che quel costante saggiare di Rossanda le istanze vive del comunismo e la consistenza dei comunismi realizzati o perseguiti, mantiene di Vladimir Il’ič, pare a me, solo quanto dell’opera di Lenin resista alle prove d’una molatura che lo affili, a tacer d’altro, stanti le «domande del neokantismo ma anche la Gestalt e un lucore di Freud», secondo il magistero di Marangoni e Banfi. Rossanda ha ricordato le tappe cruciali che segnano il percorso del Bildungsreise, il suo viaggio di formazione. 1937: «Per il mio tredicesimo compleanno venne a trovarmi mio padre a Venezia e mi portò in regalo due volumi di Renato Serra. Da allora i libri furono altro… era sicuro. Avrei letto e scritto». 1941, il padre le compra due libri «nei quali mi immersi con delizia, pancia a terra sul tappeto… mi parve di capire tutto, gli occhi finalmente dissigillati sugli abissi dello spirito». Si trattava di La visione della vita nei grandi pensatori di Eucken e della Storia della filosofia moderna di Windelband. 1941, «misi finalmente un piede emozionato all’università» dove, scrive, «Marangoni e Banfi mi hanno rifatta da capo a piedi. Marangoni mi ha insegnato a guardare un quadro o una statua, il che non va affatto da sé… Banfi era il contrario del determinismo cui viene ridotto Marx, il contrario di una teleologia. Banfi è stato più che il maestro, l’apritore delle porte». Porte da Rossanda mai chiuse. Conversavamo dei suoi studi di estetica, con l’intento di cavarne un libretto. Poche settimane orsono, con tra le mani la copia di Saper vedere di Marangoni sulla quale aveva preparato l’esame, si ragionava di quanto renda d’una pittura la riproduzione in bianco e nero, quale lettura critica ne consenta e determini, e quanto e se, poi, la stampa a colori ne comporti una recezione diversa.

Alberto Olivetti, Ritratto di Rossana Rossanda, Ginostra, 1981, olio su tavola, cm. 50×50, Roma, Collezione privata.

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