Articolo pubblicato su “L’Unità” il 22.03.2024.
Con il titolo “Camminare sulla strada maestra” (Futura Editrice) sono da poco usciti, a cura di Claudio De Fiores, gli scritti e i discorsi di Pietro Ingrao compresi tra il 1953 e il 1978. Si tratta di interventi, pronunciati in sedi istituzionali o nelle acciaierie di Terni, con al centro la questione costituzionale, e quindi di particolare attualità. Ingrao rientra in quella figura, da alcuni decenni purtroppo scomparsa, di politico che è anche analista e che anzi concepisce l’azione pubblica solo come traduzione concreta di una visione originale dei processi. Attore e interprete in tal modo si intrecciano, e l’uomo politico appare inconcepibile senza letture, riflessioni e verifiche.
C’è un tema ricorrente che unisce queste pagine: cogliere la discontinuità che “lo Stato costituzionale” repubblicano rappresenta nella storia d’Italia, non solo rispetto al fascismo ma anche allo Stato liberale. La confluenza di variegate culture politiche portò nel dopoguerra a “una nuova forma di potere” che ha modificato i tratti dello Stato (centralità del Parlamento, suffragio universale, decentramento istituzionale). Ma, oltre lo Stato-macchina, è emerso un diverso principio organizzativo della convivenza che “ha scritto nella costituzione una società nuova” (diritti, Stato programmatore, funzione sociale dell’impresa). Sia pure tra compromessi e inadempienze, e dopo un acceso scontro sui fondamenti, la Carta riconosce un inedito sovrano: “il diritto costituzionale di intervento diretto e autonomo dei lavoratori”.
Gli anni della Repubblica, nella ricostruzione di Ingrao, oscillano tra prove di “totalitarismo clericale”, o anche “tentativi di colpo di Stato parlamentare” come quello del 1953, e processi di espansione della democrazia. Nel volume sono sottoposte a critica le posizioni di Costantino Mortati e di altri studiosi che lamentavano un sovraccarico di ruoli dei partiti ideologici e una “moltiplicazione dei poteri formali” del Parlamento come fattori di “una democrazia impotente”. Il problema vero del governo debole, secondo Ingrao, chiama in causa l’esperienza carica di tensioni delle “forme di direzione governativa complesse” ed è riconducibile alle caratteristiche del sistema dei partiti. La frammentazione accentua la dialettica interna alla maggioranza e rende difficoltosa una regia che selezioni, unifichi il processo legislativo. La via delle riforme istituzionali per edificare “governi a forte centralizzazione”, e arginare così l’affermarsi di un “nuovo potere centrale del Parlamento”, è dunque illusoria dinanzi alla ossatura coalizionale-competitiva degli esecutivi.
Gli esercizi di ingegneria elettorale sono sterili rispetto ai testardi nodi storici. Ingrao data agli anni ’60, con la crisi della funzione di mediazione politica svolta dai partiti, la cesura che si insinua nel cuore dell’ordinamento: “È impallidita la posizione dominante che il partito politico ha avuto nella società civile euro-occidentale per tutto un arco di tempo”. La repubblica dei partiti si ritrova senza il soggetto che l’ha istituita. Fino agli anni ’60, scrive Ingrao, “le sezioni e i circoli dei partiti erano il luogo predominante in cui veniva a convergere la ricerca sociale, il dibattito culturale nei suoi aspetti di massa, e l’espressione diretta di tante ansie, domande, prime approssimazioni”. Il tempo del “partito cerniera” tra Stato e società civile si esaurisce con la moltiplicazione dei soggetti, con la diffusione dei luoghi dell’azione collettiva. Rievocando la “ispirazione consiliare” che sempre si affaccia nel suo ragionare, Ingrao scorge nella comparsa di una fitta rete di attori sociali un elemento di svolta non percepito in tutta la sua pregnanza.
La lettura della fase non è diversa da quella proposta da Aldo Moro o dal politologo Paolo Farneti: tramontato il ’68, “la società italiana è oggi meno partitica”. Rischi e opportunità si presentano intrecciati. In mancanza di una nuova mediazione dopo quella, ormai tramontata, del moderno principe, lo scenario pare aperto a un duplice esito: o il persistente richiamo del cesarismo o il precipitare dei bisogni verso ventate di corporativizzazione e particolarismo. Una risposta in positivo alla crisi esige per Ingrao la creativa combinazione di movimento (un vasto “affermarsi di autonomie politiche anche a livello orizzontale”) e politica organizzata (restano “essenziali i partiti”). Solo con una sintesi ricca di partito e movimento è possibile guardare con curiosità alla società, “ma senza soffocarla e senza essere specchio passivo di un tumulto caotico”.
Se latita una risposta progettuale al declino dell’età dei partiti, si approfondiscono le crepe della repubblica. Quando la politica non sa canalizzare “l’innovazione che può venire dal sociale”, il frammento, lo specifico insorgono contro la sintesi. Ingrao è tra i primi ad avanzare l’ipotesi che si possa “parlare oggi in Occidente di una crisi dello Stato”. La sua convinzione è che “tutto un tipo di sviluppo non regge più” e che il risveglio di “ricorrenti miti liberisti” segna un mutamento nei rapporti di forza non occasionale. Quello che si profila è la contestazione dello “Stato costituzionale”, con una riemersione della esplicita tensione tra capitalismo e democrazia. La incrinatura del vecchio compromesso socialdemocratico mostra tendenze degenerative: frantumazione, corporativismi, antistatalismi, rigurgiti di antipolitica (“si sta dispiegando una nuova ondata di qualunquismo, un attacco alla politica, un invito a rifugiarsi nel privato”).
Ad essere sfidata è la politica in quanto tale, perché la fuga strategica del capitale transnazionale dai costi della democrazia “mette in discussione modi e ragion d’essere dei partiti”. È insidioso l’urto indotto da un’aggregazione di interessi che rigetta il “nesso Stato-società civile”, il rapporto tra istituzioni, economia e masse. Dinanzi a fenomeni che restringono la politica a delega, occorre guardarsi bene da atteggiamenti di chiusura poiché “non basta una forte tensione morale”. Più che il culto della rassicurante diversità etica, o il moralistico “lamento sulla degenerazione del mondo”, per Ingrao è utile penetrare a fondo nelle cause reali della “usura del modello liberaldemocratico”. Attraverso un’accorta operazione egemonica occorre “mettere nomi e fatti” al fine di tentare una rilegittimazione della politica alle prese con l’insolito divorzio tra astrazione e vita.
Per scrutare le sfide del presente, che non sembra inseguito da ombre nere, non è il caso di volgere lo sguardo a Santiago, ma di cimentarsi con la letteratura sulla crisi dello Stato, sulla erosione del sostegno popolare, sui meccanismi della crisi fiscale. Irrompe perciò un lemma nuovo nel lessico politico ingraiano: la “complessità”. Saltano gli antichi strumenti concettuali, inadeguati nel tracciare la mappa per orientarsi. Ingrao accenna alla “crisi della tradizione marxista”, spiazzata dalle recenti evoluzioni, minacciata da “problemi più complessi”. Non reggono né la variante economicista, che rifiuta la cogenza delle forme (“la lotta nello Stato e per lo Stato non è una lotta opportunista o arretrata, anzi è il portare la lotta al livello più alto”), né la versione dello strumentalismo del potere (bisogna “liberarsi della visione dello Stato liberaldemocratico come risultato di un disegno consapevole della borghesia”).
Ingrao è convinto che i processi sociali molecolari svelano “la crisi della capacità totalizzante di una serie di sistemi ideali”. Non si tratta però “di una secca caduta della ragione”, bensì di una sterilità delle antiche sintesi ideologiche che paiono disarmate per la loro manifesta “incapacità di capire e di intervenire nella complessità sofisticata dello Stato moderno”. Lo sforzo di tracciare i confini di una innovativa cultura politica richiede il coinvolgimento sistematico di competenze, la fornitura di analisi specifiche senza le quali “non governeremo il presente”. La certezza di Ingrao è che la comprensione dei risvolti della società complessa richiede ricognizioni speciali ed è per questo “delegabile sempre meno ai filosofi. Perciò forse i libri da mettere nei nostri scaffali devono essere composti, intesi in modo diverso”.
Un’altra biblioteca è indispensabile per attraversare “la frontiera dei saperi” e rifondare una più solida pratica trasformatrice. Alla politica del cambiamento servono anche arditi codici linguistici (“i politici devono saper comunicare, parlare ed intendere quello che voi dite”). Le parole e le cose devono intrecciarsi su rinvigorite espressioni e metafore che consentano al soggetto di non smarrirsi nelle strade inesplorate. “Se non so comunicare quella cosa giusta ai lavoratori che è la forza della democrazia, anche quella idea giusta non vive, resta chiusa nella mia mente e quindi debole”. Saperi, linguaggi e lavoro sono le risorse per non archiviare una politica capace di progetto.
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