Interventi

L’Europa non si farà d’un tratto, né in una costruzione globale: essa si farà con delle realizzazione concrete, creando anzitutto una solidarietà di fatto.
Schumann, 1950
La Costituzione europea non è un dato, ma piuttosto un processo attraverso il quale viene progressivamente consolidato un potere pubblico sovranazionale da parte dei popoli degli Stati membri.
I.Pernice e F.Mayer, 2003

Nascere in tempi difficili

Non vede certo la luce in un contesto favorevole, il Trattato costituzionale firmato solennemente a Roma, nelle stesse sale in cui vide la luce, quasi cinquant’anni fa, la Comunità economica europea. Il processo di integrazione attraversa infatti un periodo decisamente difficile. Le recenti elezioni europee hanno segnato un nuovo record negativo di affluenza al voto, con punte particolarmente basse proprio nei nuovi paesi membri, da cui in molti si aspettavano qualche iniezione di “euro-entusiasmo”. Il processo di allargamento e “riunificazione” dell’Europa, è tutt’altro che concluso, e mostra ancora parecchi nervi scoperti (a cominciare dalle limitazioni alla libertà di circolazione). Una crisi economica persistente investe un po’ tutti i paesi, e immancabilmente si attendono segnali di miglioramento soprattutto dall’altra parte dell’Atlantico. Tra le difficoltà e le tragiche tensioni dello scenario internazionale, ha finora stentato ad affermarsi un ruolo autonomo dell’Unione, corrispondente al suo straordinario peso economico. Le nubi che si addensano sul futuro dell’Europa, insomma, sono molte. Per questo l’Unione sempre di più appare ad un bivio, per certi versi inaspettato. Da un alto c’è la prospettiva di trasformarsi in un soggetto politico a tutto tondo, sia all’interno che all’esterno dei suoi confini. Dall’altro c’è l’unificazione differenziata, l’Europa “a due velocità”, a “geometria variabile”, in cui un certo numero di paesi procede verso un’integrazione sempre più stretta, mentre nel resto del continente rimangono in piedi soli i vincoli economici, necessari al funzionamento di un unico grande mercato.
Di questa situazione di straordinarie difficoltà e di incertezze è stata espressione anche la tormentata fase di approvazione del testo costituzionale. A far fallire il vertice che, nel dicembre del 2003, concludeva la presidenza italiana dell’Unione, non è stata solo l’opposizione dei governi spagnolo e polacco al nuovo sistema di ponderazione dei voti. Dietro questo doppio veto si sono infatti addensate tensioni più profonde, preoccupazioni e insoddisfazioni, diffuse nei paesi tradizionalmente euroscettici, ma anche nei nuovi membri, e perfino nello “zoccolo duro” dei fondatori (a cominciare dall’Italia). E ancora una volta le diverse prospettive dell’integrazione si sono intrecciate con la questione delle relazioni con gli Stati uniti, vero e proprio “convitato di pietra” del processo di riforma.
Lo smacco ha per fortuna provocato una certa reazione contraria. E così, nel successivo vertice irlandese, si è potuto finalmente raggiungere un accordo. Questo è stato facilitato dal buon lavoro condotto dalla presidenza e dall’esito elezioni spagnole. Ma probabilmente ha pesato favorevolmente anche la diffusa percezione, tra i capi di stato e di governo, che un altro fallimento sarebbe stato difficilmente sostenibile. Ovviamente il passaggio non è stato indolore. Il ritardo nell’approvazione del testo, al di là del merito delle questioni, ha prodotto un certo ulteriore raffreddamento del clima generale. In primo luogo perché si è arrivati alle elezioni europeo di giugno senza avere un testo già approvato, e si è dunque persa un’importante occasione per spostare su Bruxelles il riflettore elettorale, che invece è stato ancora una volta rivolto prevalentemente sulle capitali nazionali. Si è poi anche affievolito “l’effetto Convenzione”, e si ridotto quel certo grado di attenzione e di interesse che il lavoro di questo particolarissimo organismo, soprattutto nei suoi ultimi frenetici giorni, aveva suscitato. In una sorta di “ritorno al passato”, di cui peraltro non si sentiva la mancanza, il processo di revisione è sembrato ri-diventare ciò che è sempre stato, cioè una questione diplomatica, condotto in trattative riservate e dall’esito imprevedibile (Ridola, 2004). E ovviamente si è messa una pietra tombale su tutte le aspettative, forse ingenue, che la conferenza intergovernativa potesse non solo risolvere i punti lasciati in sospeso dalla Convenzione, ma anche introdurre qualche miglioramento, magari su pressione dell’opinione pubblica.
Il cammino per l’entrata in vigore del testo costituzionale non si è peraltro concluso con l’approvazione “irlandese” e la firma solenne nelle stanze del Campidoglio. Proprio da qui si è invece aperto un nuovo percorso ad ostacoli. L’attenzione si sposta ora sui procedimenti di ratifica, che si svolgeranno nei venticinque paesi. Ciascuno dei parlamenti dovrà infatti approvare il testo, e in molti paesi si svolgerà anche un referendum popolare. Dato il clima generale, si tratta di un cammino ricchissimo di incognite, non solo nei nuovi paesi membri. Sul voto popolare c’è da giurare che inciderà poco il giudizio di merito sul testo costituzionale. Peseranno invece una serie di altri fattori, dalle tensioni interne alle rivendicazioni economiche, alla difesa delle identità nazionali, che potenzialmente sembrano giocare tutti a sfavore dell’approvazione. E’ dunque ancora difficile prevedere se quando il nuovo testo potrà entrare in vigore. E non è peraltro per niente chiaro cosa succederebbe nel caso in cui anche un solo paese negasse la ratifica. Il trattato costituzionale disciplina infatti espressamente il ritiro volontario dall’Unione (ed è la prima volta che succede), ma questo ovviamente potrà valere solo in futuro, una volta che il nuovo ordinamento sarà entrato in vigore.

Uno sguardo d’insieme

Esprimere un giudizio complessivo sul contenuto del Trattato costituzionale è, ovviamente, assai difficile. I risultati raggiunti possono essere valutati in base a criteri molto diversi tra loro, alle aspettative iniziali, alle sensibilità politiche e alle tradizioni nazionali. I diversi capitoli del testo sono comunque analizzati nel dettaglio nei saggi che seguono, e a questi dunque si rinvia per valutazioni di merito più circostanziate. Qui si possono solo azzardare alcune considerazioni di carattere generale.
Intanto è forse utile uno sguardo d’insieme. Il testo è diviso in quattro parti, per la verità piuttosto disomogenee tra loro, sia per ampiezza che per contenuto (ma dotate dello stesso valore formale, che è un limite, come vedremo, piuttosto grave). Si inizia con un preambolo, che ha suscitato molte polemiche durante la sua sofferta scrittura (dalla frase di Tucidide al mancato riferimento alle radici cristiane), ed è stato poi decisamente ridotto nella versione finale. Subito dopo si entra nel vivo del testo. La prima parte contiene infatti i principi fondamentali dell’ordinamento comunitario: i suoi obiettivi e valori, le sue competenze , le istituzioni, e così via. La seconda parte è costituita dalla Carta dei diritti fondamentali, approvata a Nizza nel 2000 e finalmente dotata di efficacia giuridica. La terza parte è la più consistente dal punto di vista quantitativo, e riguarda in gran parte la descrizione delle politiche europee nei diversi settori di sua competenza. L’ultima parte contiene disposizioni di carattere generale e finale, con cui si definiscono una serie di aspetti di carattere tecnico, ma anche questioni delicatissime, come la procedura per la revisione del testo. Al trattato costituzionale vero e proprio si accompagnano poi una serie di altri documenti, di varia importanza e di varia natura (alcuni dei quali sono riportati anche nell’Appendice di questo volume).
Non si tratta insomma di un documento che corrisponde a quel che, secondo il costituente americano Paine dovrebbe essere una costituzione: un foglio di carta che si porta in tasca per sapere in ogni momento quali sono i propri diritti. Ovviamente si può controbattere che quelli erano altri tempi, e che neanche le costituzioni nazionali del novecento corrispondono a quel modello. Rispetto alla situazione attuale, peraltro, il testo approvato, anche se lungo e difficile, rappresenta comunque una significativa semplificazione. Il problema semmai è un altro: la complessità del testo in parte deriva dal fatto che l’ordinamento comunitario è complesso per natura , ma in parte è anche frutto di una scelta politica molto opinabile. Accanto alle previsioni di tono indubbiamente “costituzionale”, contenute essenzialmente la prima parte e la Carta dei diritti, nel Trattato sono state riprodotte anche molte disposizioni che hanno un carattere estremamente dettagliato, e che avrebbero figurato meglio in testi di natura legislativa (se non regolamentare). La terza parte è ad esempio costituita quasi completamente da disposizioni molto specifiche. Questi articoli peraltro risultano da un semplice assestamento formale delle norme già vigenti, che è stato compiuto da funzionari comunitari e su cui né la Convenzione né la Conferenza intergovernativa hanno avuto modo di mettere mano. Sarebbe stato più saggio escludere tutta questa parte dal testo costituzionale, differenziando il suo status giuridico e le regole per la sua revisione. Invece, così com’è strutturato il Trattato, si rischia di giungere al paradosso giuridico per cui le previsioni di dettaglio, proprio perché precise e direttamente prescrittive, possono condizionare pesantemente tutto il resto, perché nei fatti possono definire in concreto l’effettiva portata dei principi generali (Allegretti, 2003).
Per quanto riguarda il merito delle scelte compiute, il discorso è ancora più articolato. E’ innegabile che alcuni obiettivi di fondo del processo di riforma siano stati raggiunti. Scompare ad esempio la distinzione (e parziale sovrapposizione) tra Comunità e Unione europa, e quest’ultima diventa l’unico soggetto istituzionale, dotato di personalità giuridica. I rapporti tra l’Unione e gli Stati vengono fissati in maniera più chiara: c’è l’espressa affermazione della prevalenza del diritto comunitario (principio pure già esistente), la riorganizzazione degli strumenti giuridici e la definizione più chiara della rispettive competenze. Queste novità, insieme a principi più significativi sull’azione amministrativa comunitaria, rafforzano sicuramente la qualificazione dell’Unione secondo i principi dello “stato di diritto”. Più equilibrato rispetto al passato è anche il quadro, tratteggiato nei primi articoli, degli “obiettivi” e dei “valori” dell’Unione.
Accanto ai vincoli di carattere economico e finanziario, si rafforzano i valori di carattere sociale, dalla giustizia alla protezione sociale, dall’uguaglianza alla solidarietà. C’è poi la grande innovazione costituita dall’inclusione della Carta dei diritti, che viene così sottratta a quella sorta di “limbo” in cui era stato finora relegata. Nonostante qualche cedimento al tentativo (soprattutto britannico) di limitare la sua efficacia, l’attribuzione di efficacia giuridica al documento di Nizza costituisce uno dei fattori di maggiore discontinuità rispetto al passato. La Carta potrà infatti costituire un potente strumento per accelerare lo sviluppo delle politiche sociali e per favorire l’innalzamento del livello di protezione dei diritti fondamentali nell’Unione. Indicazioni nello stesso provengono anche dall’ampliamento della sfera d’intervento della Corte di giustizia, che ora si estende, pur con alcuni limiti, anche al settore della giustizia e degli affari interni.
Accanto a queste luci, non mancano di certo le ombre. Piuttosto deludenti sono ad esempio le soluzioni prospettate per quanto riguarda il capitolo più strettamente istituzionale. Qui abbiamo un panorama più affollato (contro le aspettative di semplificazione ) con alcune figure dalle collocazione ancora piuttosto incerta. La “presa” degli stati nazionali sul processo decisionale comunitario non sembra decisamente allentata, e viene anzi forse rafforzata. Il Parlamento europeo accresce significativamente i suoi poteri, ma la Commissione perde posizione, fino a porre a rischio il suo ruolo storico di “motore” dell’integrazione. Molto ridotti i progressi anche in materia di politiche sociali, e di politica estera, cioè in due settori in cui si giocano gran parte delle chances dell’Unione di porsi come un soggetto credibile sia all’interno dei suoi confini che all’esterno. In entrambi i settori il principio di unanimità viene sostanzialmente mantenuto, e dunque, con l’aumento degli Stati membri , in futuro decidere sarà ancora più difficile di quanto non lo sia già ora.
C’è poi la questione delle regole di revisione. Secondo molti giuristi da qui passa il vero discrimine tra un “trattato” e una “costituzione”. Il primo è un atto tipico del diritto internazionale e per definizione richiede l’accordo unanime di tutti i contraenti. La seconda esprime invece una volontà politica unitaria, e dunque può essere modificata in ragione del principio di maggioranza, anche se con quorum sufficientemente alti da garantire tutti. Se usiamo questo criterio di valutazione, il testo approvato a Roma dovrebbe rientrare senz’altro nella prima categoria. Anche in futuro, infatti, le sue modifiche dovranno essere accettate da tutti gli Stati membri, e ratificate secondo le rispettive regole costituzionali (quindi con l’intervento del parlamento e l’eventuale referendum). E’ evidente che con 25 stati, e ulteriori allargamenti ormai alle porte, il mantenimento dell’unanimità rischia di rendere assai difficile lo sviluppo istituzionale dell’Unione. Soluzioni diverse peraltro non mancavano. Si sarebbe ad esempio potuto prevedere un modello di revisione autonoma da parte delle istituzioni dell’Unione, eventualmente anche all’unanimità, ma senza la necessaria ratifica dei parlamenti nazionale. Oppure, più semplicemente, si sarebbe potuta fissare una maggioranza qualificata, eventualmente anche molto alta, ma comunque tale da introdurre un elemento di dinamismo quanto mai necessario. Rispetto a questa chiusura passano in secondo piano anche i segnali di apertura, per la verità piuttosto timidi, che nel testo pure ci sono (l’istituzionalizzazione del “metodo Convenzione”, e una norma “passerella” che consente al Consiglio, con un voto unanime, di trasferire una certa materia al voto a maggioranza qualificata senza modificare il Trattato).

E’ un trattato oppure una costituzione?

Proprio partendo dalla questione del procedimento di revisione, ma poi andando molto al di là, si è aperta un’ampia discussione sulla natura stessa del testo firmato a Roma. Al di là dei giudizi di merito, al di là delle luci e delle ombre, ci si chiede infatti come si possa definirlo, e a quali categorie giuridiche appartenga.
Nel processo di riforma che ha portato all’approvazione del testo gli indizi di un distacco dal diritto internazionale non mancano di certo, a cominciare dal “metodo Convenzione”. Ma l’integrazione europea è già da molto tempo un’esperienza assolutamente sui generis, che non può essere ricondotta nelle categorie tradizionali. Per questo una netta contrapposizione, dal punto di vista contenutistico, tra “costituzione” e “trattato”, non può che essere sciolta in maniera problematica. Non appare infatti convincente qualificare il testo, senza mezzi termini, come una costituzione, perché rappresenterebbe un consenso su valori condivisi, oltre che un quadro di regole sul sistema di governo e sul rapporto tra gli Stati (Lenearts e Gerard, 2004). Occorre invece ammettere che ci troviamo di fronte a un “ibrido” tra trattato e costituzione, in cui il primo aspetto rimane ancora prevalente (Fioravanti, 2003).
Il nome prescelto “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, esprime fino in fondo questa ambiguità. Rispetto ai concetti giudici tradizionali, l’idea che un trattato possa “adottare” una costituzione è assai poco ortodossa (anche se forse qualche precedente storico si potrebbe rintracciare, e qualcuno cita come esempio il trattato di Dayton). Un titolo così ambiguo esprime però allo stesso tempo un aspetto cruciale della costituzionalizzazione dell’Unione, e cioè il suo carattere inevitabilmente processuale. E da qui si può prendere spunto per cogliere un’altra possibile chiave di lettura. Se ci si chiede se il processo di integrazione debba considerarsi concluso con questo testo, la risposta non può che essere negativa. E allora si prende implicitamente posizione anche sulla natura del testo. Attribuirgli il carattere di “costituzione”, oltre che probabilmente scorretto dal punto di vista concettuale, comporta anche un rischio: quello di consacrare questo testo come un fatto “costitutivo”, che definisce in maniera tendenzialmente stabile un ordinamento giuridico. Le costituzioni, infatti, chiedono, a livello simbolico, ma anche a livello pratico, di essere considerate come testi superiori, almeno fino ad una modifica formale. Negare questa qualità non significa quindi non accettare l’obbligazione giuridica che nasce dall’approvazione del testo, né disconoscere i progressi (parziali) che esso comporta rispetto alla situazione attuale. Significa invece considerarlo una tappa, certo importante, ma ancora una volta inevitabilmente parziale e provvisoria, verso un traguardo più lontano (Allegretti, 2003).
La ricostruzione sembra adattarsi particolarmente al contenuto del testo, sia perché questo non favorisce particolari entusiasmi, sia perché in esso gli elementi di continuità sembrano decisamente prevalenti. Si può dire che la Convenzione abbia compiuto una vasta e utile opera di codificazione dell’esistente, che abbia cercato di adeguare l’ordinamento alle nuove esigenze dell’allargamento, ma non si può certo dire che sia stata capace di dare “una visione del divenire dell’Europa” (Jacqué, 2004). Allora si deve convenire che ci troviamo di fronte a un’opera di razionalizzazione istituzionale, che deve soprattutto mirare a sgombrare il cammino, eliminando barriere statualistiche e ponendo principi di evoluzione costituzionale, perché il processo unitario continui (Manzella, 2004). Se l’esperienza della Convenzione conferma dunque da un lato la matrice inevitabilmente processuale dell’integrazione, allo stesso tempo indica dall’altro che il metodo funzionalista a là Schumann è ormai alle corde. Se la scrittura di una costituzione si traduce in una revisione “regolamentare” dei trattati, in un nuovo bilanciamento tra le istanze nazionali e l’istanza europea, solo per rispondere a esigenze di funzionamento del sistema, probabilmente tutto ciò indica la fragilità, nello scenario attuale, della prospettiva funzionalistica. Questa è forse la più facile da seguire, ma non ha la forza, soprattutto in questo momento, di reggere all’urto degli interessi nazionali e nemmeno alle divergenti aspirazioni di autoconservazione delle classi dirigenti dei diversi paesi (Zagrebelsky, 2003).
Proprio perché ha rappresentato un passaggio significativo nel processo di costruzione di una sfera pubblica europea, la Convenzione ne ha anche evidenziato tutti i limiti. A partire dall’assenza di una classe politica europea motivata e determinata, capace di sviluppare una visione dell’integrazione diversa dal semplice compromesso tra venticinque diverse “ragion di stato”. Come è stato scritto, insomma, un Alterio Spinelli nella Convenzione non c’era (Padoa Schioppa, 2003). Per questo, inevitabilmente, nell’immediato futuro, molte energie dovranno essere trovate anche lontano dal “palazzo”. E di certo la “solidarietà di fatto” di cui parlava Schumann, deve diventare una solidarietà tra i cittadini e le cittadine, e non solo tra gli stati.
Già da ora, peraltro, quella che viene definisce la società aperta degli interpreti costituzionali, cioè non solo i magistrati, i politici e gli altri addetti ai lavori, ma tendenzialmente l’intera “cittadinanza attiva”, è chiamata a un ruolo di interpretazione del testo. Si tratta ovviamente di un’attività che non è certo neutrale rispetto ai suoi esiti. Lo sforzo è ora dunque quello di valorizzare gli aspetti del testo che aprono le migliori prospettive, in modo da orientare nel modo più progressivo possibile le sue varie forme di attuazione e applicazione. Del resto i testi costituzionali camminano con le gambe delle persone (come individui e come delle collettività), che ne assumono i principi e sono chiamate a realizzarne gli obiettivi. Il “Trattato che adotta una Costituzione per l’europa” non è certo l’ideale per suscitare grandi passioni civili, ma se non altro fornisce un punto di riferimento comune su scala continentale. E quindi sicuramente è (anche) da qui che occorre partire.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Allegretti U., (2003), Il senso dell’Europa nel progetto della Convenzione, Democrazia e diritto, n. 2. Jacqué J. P., (2004), I principi costituzionali fondamentali nel progetto di Trattato che istituisce una Costituzione europea, in Rossi L. S. (a cura di), Il progetto di Trattato-Costituzione. Verso una nuova architettura dell’Unione europea, Giuffrè, Milano.
Fioravanti M., (2003), Un ibrido fra “Trattato” e “Costituzione”, in Paciotti E. (a cura di), La Costituzione europea. Luci e ombre, Meltemi, Roma.
Lenearts K, Gerard D., (2004), The structure of the Union according to the Constitution for Europe: the emperor is getting dressed, European Law Review, 29, n. 3.
Manzella A., (2004), La Costituzione europea: una vera costituzione?, in Rossi L. S. (a cura di), Il progetto di Trattato-Costituzione. Verso una nuova architettura dell’Unione europea, Giuffrè, Milano.
Pernice I. e Mayer F. (2003) , La Costituzione integrata dell’Europa, in G.Zagrebelsky, (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Roma-Bari, Laterza.
Ridola P., La “Costituzione europea” dopo il voto, www.federalismi.it
Zagrebelsky G., (2003), Introduzione, in Id. (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Roma-Bari, Laterza.

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