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Una bussola del lutto. È quanto cerca Judith Butler in un intervento sulla “London Review of Books” (19 ottobre 2023), a seguito dei massacri ai quali stiamo assistendo impotenti. Una volta di più è interessante la sua posizione, non fosse altro per il fatto che la maggior parte della sua famiglia materna morì nell’Olocausto.

Butler coglie subito un punto: le questioni che più hanno bisogno di essere discusse pubblicamente, quelle che più urgentemente dovrebbero venir dibattute, sono proprio quelle più difficili da affrontare dall’interno delle logiche di cui disponiamo. Anche se si vuole andare direttamente al sodo, ci si scontra con i limiti di un quadro di riferimento che rende quasi impossibile dire ciò che si ha da dire. Se si ragiona, si viene costantemente equivocati. Se solo si prova a documentare la violenza di oggi e di ieri, si viene subito accusati di “relativizzare” o “contestualizzare”. Sembriamo chiamati a condannare o ad approvare, stop. Ma davvero è tutto ciò che ci si può richiedere eticamente?

Sembra che la gente si accontenti di sapere da che parte si sta. Ovvio che la prima risposta possibile alle brutalità alle quali stiamo assistendo è una condanna inequivocabile. Il problema viene al passo successivo, quando si prova ad articolare un minimo la nostra posizione, chiedendoci per esempio se davvero abbiamo gli elementi sufficienti per capire di cosa stiamo parlando. Come se una buona comprensione della situazione storica fosse di ostacolo a una condanna morale “senza se e senza ma”, secondo l’orrendo modo di dire dominante. Butler domanda se si pecchi davvero di relativismo (strano peccato, tra l’altro) a chiedersi che cosa stiamo condannando esattamente, fin dove dovrebbe spingersi la portata della nostra condanna e se conosciamo sufficientemente quello a cui ci opponiamo. Peraltro, sarebbe ben strano opporsi a qualcosa che non si conosce bene. Suonerebbe assurdo ritenere che la condanna comporti il rifiuto di capire, per paura che la conoscenza possa avere una funzione relativizzante minando la nostra capacità di giudizio. Non abbiamo forse bisogno di una valutazione critica e informata della situazione per accompagnare la condanna morale e politica, senza temere che la conoscenza ci trasformi, agli occhi di chi sembra saper tutto in partenza, in falliti morali complici di crimini orrendi, si chiede la filosofa americana?

C’è chi risponde: no, non ho bisogno di sapere nulla della Palestina per sapere che ciò che ha fatto Hamas è sbagliato e per condannarlo. Dopo tutto, non possiamo essere tutti storici o sociologi. Fermarsi però alle rappresentazioni mediatiche, senza chiedersi se siano effettivamente corrette, significa scontare una dose di ignoranza e di inconsapevolezza. Per coloro la cui posizione morale si limita alla sola condanna, la comprensione della situazione non è l’obiettivo. È possibile ragionare così, ma si paga un prezzo.

I media contemporanei, per la maggior parte, non danno conto degli orrori che il popolo palestinese ha vissuto per decenni. Se le atrocità degli ultimi giorni assumono per i media un’importanza morale maggiore rispetto a quelle degli ultimi settant’anni, allora la risposta morale del momento rischia di eclissare la comprensione delle ingiustizie radicali subite dalla Palestina occupata e dai palestinesi sfollati con la forza fin dal ’48, come la stessa storiografia israeliana attesta, così come il disastro umanitario e la perdita di vite umane che si stanno verificando in questo momento nella Striscia.

Negli Stati Uniti, diverse università – Harvard in testa – hanno invece richiamato subito gli avvenimenti nella regione dal ’47 a oggi, rendendo evidenti le responsabilità di Israele nell’incancrenirsi di una situazione difficilissima fin dai suoi inizi. Tuttavia, ragiona Butler, la necessità di separare la comprensione della violenza pervasiva e implacabile dello Stato israeliano da qualsiasi giustificazione della violenza di Hamas è cruciale se vogliamo pensare oltre, considerando se e quali altri modi ci siano per liberarsi dal dominio coloniale, per porre fine agli arresti arbitrari e alle torture nelle carceri israeliane e all’assedio-massacro di Gaza. In altre parole, se teniamo ancora a chiederci quale mondo sia ancora possibile per tutti gli abitanti di quella regione una volta posta fine al dominio coloniale. Hamas ha una risposta terrificante e spaventosa a questa domanda, ma forse ce ne sono altre possibili. Tuttavia, se nel ragionare viene impedito di fare riferimento all’occupazione israeliana, se non si può neppure istruire un dibattito se il dominio militare israeliano della regione sia una forma di apartheid razziale o di colonialismo, allora – secondo Butler – non abbiamo alcuna speranza di comprendere il passato, il presente o il futuro. La condanna morale non può non accompagnarsi a una visione storica, la sola che consente un giudizio equo e ponderato, al di là delle rabbie e del rancore.

I tanti dibattiti in televisione si limitano a opporre opinionisti che cercano di surclassarsi. Specie chi non ritiene ci sia bisogno di alcuna spiegazione dà sulla voce a chi invece cerca il ragionamento e l’approfondimento storico. Ma se si decide che non è necessario sapere quanti bambini e adolescenti palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania e a Gaza quest’anno, o nel corso degli anni di occupazione, che questa informazione non è importante per conoscere o valutare gli attacchi a Israele e le uccisioni di israeliani, allora è evidente che non si vuol spiegare davvero la storia della violenza, del lutto e dell’indignazione vissuta dai palestinesi. Mentre ci si commuove e ci s’indigna per la storia della violenza, del lutto e dell’indignazione vissuta dagli israeliani. Butler ricorda di essere ebrea e di vivere un trauma transgenerazionale in seguito alle atrocità commesse contro la sua gente. Ma ha anche presente gli orrori commessi anche contro persone diverse da lei, non ebree. Se il quadro di riferimento dominante sceglie in partenza quali vite valga la pena piangere, allora il razzismo entra in campo. Se i palestinesi sono “animali”, come insiste il ministro della Difesa israeliano, e se gli israeliani rappresentano ora tutto “il popolo ebraico”, come insiste Biden, allora gli unici titolati a essere addolorati sono gli israeliani, una volta che la scena della “guerra” è tra il popolo ebraico e gli animali che cercano di ucciderlo. Per Butler, si tratta di una riproposizione di quell’inquadramento razzista coloniale tra “civilizzati” e “animali” da eliminare per preservare la “civiltà”. Un quadro di riferimento francamente inaccettabile.

Cosa accade invece se la nostra moralità e la nostra politica non si accontentano dell’atto di condanna? Se insistessimo nel chiederci quale forma di vita libererebbe la regione da questa violenza atroce? È un destino ineluttabile per Israele e per i Palestinesi odiarsi e uccidersi?

Si dà un’aspirazione normativa che va oltre la condanna momentanea. Per realizzarla, si deve conoscere la storia, la crescita di Hamas come gruppo militante e militare nella devastazione del post-Oslo; la formazione di altri gruppi palestinesi con altre tattiche e obiettivi; la storia del popolo palestinese e le sue aspirazioni alla libertà e al diritto all’autodeterminazione politica, alla liberazione dal dominio coloniale e dalla violenza militare e carceraria dilagante. Allora sì – sostiene Butler – potremmo lottare davvero per una Palestina libera, in cui Hamas potrebbe venir sciolto o sostituito da gruppi con aspirazioni non violente alla convivenza.

Personalmente, Butler difende una politica della non violenza, pur sapendo che non può funzionare come principio assoluto da applicare in ogni occasione. Le lotte di liberazione che praticano la non violenza contribuiscono a creare il mondo non violento in cui tutti vogliamo vivere. Ovviamente, deplora inequivocabilmente la violenza e allo stesso tempo, come molti altri, la filosofa di Berkeley vuole concorrere alla lotta per una vera uguaglianza e giustizia nella regione, che costringerebbe gruppi come Hamas a scomparire, a porre fine all’occupazione e a far fiorire nuove forme di libertà e giustizia politica.

In conclusione, sostiene Butler, un futuro simile non può realizzarsi senza essere liberi di nominare, descrivere e opporsi a tutta la violenza, compresa quella dello Stato israeliano in tutte le sue forme, e di farlo senza temere la censura, la criminalizzazione o di essere accusati maliziosamente di antisemitismo. Il mondo che immagina e che ritiene possibile è un mondo che si opponga alla normalizzazione del dominio coloniale e sostenga l’autodeterminazione e la libertà dei palestinesi, un mondo che, di fatto, realizzi i desideri più profondi di tutti gli abitanti di quelle terre di vivere insieme in libertà, non violenza, uguaglianza e giustizia. Questa speranza sembra ingenua, persino impossibile, a molti: agli smaliziati, ai cinici, ai cosiddetti realisti. Tuttavia, è moralmente giusto aggrapparsi selvaggiamente ad essa, rifiutandosi di credere che le strutture e i riferimenti attuali esisteranno per sempre. Una guerra lunga, nella quale chi si arma di buona volontà avrà bisogno certamente della politica e della mediazione, ma anche della capacità di sognare e di vedere oltre propria dei poeti e dei letterati.

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2 commenti a “La bussola del lutto di Judith Butler”

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