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Articoli pubblicato su “Factorya” il 30.10.2024.

La gravidanza per altre/i apre interrogativi che meriterebbero meno furia ideologica e più ponderazione tra diritto e morale in uno Stato costituzionale non etico.

Certamente andrebbero indagati meglio i suoi incerti e mistificati confini con una “surrogazione” della gravidanza che, con il linguaggio del mercato, trasmette immediatamente il senso della commercializzazione dei corpi delle donne: d’altra parte che lo sfruttamento delle capacità riproduttive di una donna sia un reato è fuori discussione, per la sua oltraggiosa violazione dell’autodeterminazione femminile e del rapporto unico che si crea tra gestante e chi si mette al mondo.

Per contro il divieto penale, assoluto e senza deroghe, che una donna possa portare avanti la gravidanza di un embrione formato da gameti appartenenti a una coppia che altrimenti non riuscirebbe a riprodursi presume come dato naturalizzato che nessuna donna, consapevolmente e liberamente, possa decidere di mettere al mondo una nuova persona senza volerle fare da madre. Sulle presunzioni di quello che naturalmente una donna sarebbe portata a fare e che l’ordinamento per sicurezza le deve vietare per il suo stesso bene e la sua “dignità” è lastricata tutta la lunga storia del patriarcato: non essendo soggetti di diritto a pieno titolo la dignità delle donne non è frutto di una valutazione soggettiva ma è oggetto sancito e regolato dall’ordinamento che divide le donne “per bene” da quelle sciagurate.

Eppure dalla fine dell’Ottocento le partorienti possono non riconoscere alla nascita chi mettono al mondo. La scissione tra gravidanza/parto e maternità, quindi, è un fatto socialmente, moralmente e giuridicamente accettato da molto tempo.

Nella gravidanza per altre/i, tuttavia, l’attenzione si sposta sul ruolo della coppia il cui embrione viene impiantato nell’utero della mère porteuse. Sono convinta che sia incedibile il diritto della partoriente a riconoscere come propria/o figlia/o chi mette al mondo e che nessuna legge o contratto potrebbe legittimamente prevedere il contrario, ma mi chiedo perché condannare come crimini contro l’umanità gli accordi che una donna in grado di partorire possa consapevolmente raggiungere con chi invece non può riprodursi autonomamente, per offrire loro la speranza di diventare genitori. Augurandosi che non si arrivi mai ad accusare di tale crimine anche la partoriente, non dovremmo prendere in considerazione la sincera empatia di quest’ultima per la sofferenza altrui, come il dolore delle donne che non sono in grado di portare avanti una gravidanza nonostante strazianti tentativi, che è la condizione assolutamente prevalente nella cosiddetta maternità surrogata?

Altri paesi, contrariamente al nostro, già lo fanno ed è lì che finora sono andate le coppie italiane (eterosessuali e omosessuali) impossibilitate a diventare genitori senza la dedizione di una donna con un utero in salute: un turismo riproduttivo che ora, con la proclamata “universalità” del reato di surrogazione di maternità1, è condannato dall’Italia che così pretende di ingerire nelle scelte degli altri Stati che, infatti, si sono risentiti non poco a essere trattati come protettori di crimini contro l’umanità. Perché di questa natura, come i crimini di guerra, sono i reati che derogano al principio di territorialità statale.

Alla mente viene Israele, dove è stata prodotta A body that works: è una serie che offre uno sguardo non banale, non pacificato sulla gravidanza per altre/i, facendo emergere tutte le contraddizioni, le insidie e i conflitti sottostanti ma anche direttamente scatenati dalla scelta di una coppia di rivolgersi, per diventare genitori, a una donna il cui “corpo funziona”. Questa scelta riproduttiva non viene isolata ma calata in una concreta realtà sociale e psicologica che parla di disagio economico, di pressioni sociali e culturali sulla genitorialità ma anche di un mondo del lavoro che considera la riproduzione con i suoi tempi e le sue esigenze un intoppo per la produzione. Illuminanti, però, sono soprattutto le dinamiche che travolgono i singoli componenti della coppia e la madre gestante. La madre intenzionale diventa troppo invadente della libera scelta su come portare avanti la gravidanza per non sentirsi del tutto esautorata, provando un’invincibile invidia del dono che la gestante ha e vive con leggerezza; tra il padre intenzionale e la gestante si crea una forte intesa attraversata da ambiguità anche sentimentali; ma soprattutto la ragazza riesce a riprendere in mano le sorti della sua vita grazie a questa scelta. Lei ha bisogno dei soldi della coppia per non perdere l’affidamento del figlio che già ha e non è mai attraversata dal dubbio di volersi tenere chi porta in grembo e metterà alla luce. Non si nega affatto, quindi, il bisogno economico che la spinge a portare avanti per altri una gravidanza ma la madre gestante è convinta di fare una scelta apprezzabile nella quale non è disposta a diventare un utero in affitto sotto alcun profilo.

Afferma in ogni momento la sua totale autonomia nel come portare avanti la gravidanza e nel come partorire e rinasce sotto una nuova stella.

E col parto nasce, oltre al neonato, anche un rapporto di tenace complicità tra le due donne.

Davvero è un crimine contro l’umanità?

Nota

1 Si è aggiunto un nuovo periodo alla fine del comma 6 dell’art. 12 della legge n. 40 del 2004 per sottoporre alla giurisdizione italiana le condotte riferibili al delitto di surrogazione di maternità, pure se commesse in territorio estero: dopo questa novella normativa registrare in Italia un bambino nato tramite gestazione per altri rappresenta una autodenuncia, col rischio di due anni di carcere e la multa fino a un milione di euro.

Un commento a “La complessità della gpa ridotta a reato”

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