Articolo pubblicato sulla rivista “Il Mulino” il 06/11/2020.
Alla domanda «Quiere usted una Nueva Constitución?» («Vuoi una nuova Costituzione?») il popolo cileno ha risposto «apruebo» («approvo»), decidendo così di affossare la legge politica fondamentale approvata negli anni della dittatura di Pinochet: un assemblato di disposizioni “supreme” che di Costituzione aveva solo il nome e del costituzionalismo nulla.
Redatta da sostenitori del golpe del 1973, la Carta cilena venne approvata nell’agosto del 1980 dalla Giunta militare e successivamente ratificata da un plebiscito svoltosi sotto il vigile controllo dell’esercito. Le disposizioni in essa contenute affidavano al generale Pinochet le redini del governo per (almeno) altri otto anni; “costituzionalizzavano” la limitazione dei diritti; prevedevano l’esistenza di senatori nominati a vita (tra cui Pinochet) per assicurare anche ai futuri governi un saldo ancoraggio a destra; attribuivano al presidente della Giunta il potere di sciogliere la Camera dei deputati; assicuravano l’inamovibilità dei vertici delle forze armate; dichiaravano illegali tutte le organizzazioni politiche della sinistra foriere di “una concezione della società, dello Stato o dell’ordinamento giuridico, di carattere totalitario fondato sulla lotta di classe”. Un impianto, insomma, non proprio in linea con i principi del costituzionalismo e, in particolare, con il suo manifesto politico e normativo: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata in Francia nel 1789 che all’art. 16 solennemente sanciva che “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”.
In Cile un importante momento di svolta si ebbe in occasione del plebiscito del 1988 con il quale il popolo negò ad Augusto Pinochet un nuovo mandato presidenziale (per altri otto anni). Con el cambio del 1988 e il robusto processo di riforme da esso innescato, il sistema cileno inizierà progressivamente ad assumere le forme e i caratteri di una democrazia costituzionale: tra il 1989 e il 2012 furono approvate ben 31 leggi di revisione costituzionale in gran parte protese ad eliminare dal testo istituti e norme di marcato impianto pinochettista. Un processo ampio e incisivo (si pensi alle “riforme Bachelet” del 2005 che hanno introdotto ben 54 modifiche al testo costituzionale, espungendo da esso numerose “enclaves autoritarias” ancora presenti), ma tuttavia inadeguato ad assicurare un radicale rinnovamento del Cile soprattutto sul piano sociale.
La matrice neoliberale della “ley del tirano” del 1980 (il primo vero laboratorio di sperimentazione al mondo del sistema economico teorizzato dai “Chicago boys”) non è mai stata posta in discussione. E così anche la struttura normativa dello “Stato sussidiario”, il sistema di privatizzazione dei servizi sociali (la salute, l’istruzione, la previdenza), le disposizioni sul diritto di sciopero, espressamente vietato ai lavoratori pubblici (art. 19.6). Tutto ciò ha contribuito a consolidare nel corso del tempo un sistema sociale di impianto marcatamente liberista blindato oltre misura da leggi di rango costituzionale, dalla previsione di maggioranze qualificate (che ne avrebbero impedito di fatto la revisione), dal penetrante controllo di legittimità del Tribunale costituzionale (art. 92 e ss.).
Nel corso del 2019, ad aprire una breccia all’interno dello status quo cileno, sono però intervenute le straordinarie mobilitazioni giovanili di ottobre che neppure il ricorso allo stato di emergenza proclamato dal governo Piñera è stato in grado di arginare. Un’offensiva politica di massa senza precedenti nata, alla Metro estacion central, il 18 ottobre 2019, quando un ragazzo per protestare contro l’aumento di 30 pesos del costo del biglietto della metropolitana decise di saltare i tornelli (e dietro di lui molti altri). Un semplice gesto di disobbedienza, ma potenzialmente in grado di innescare (come altre volte è già avvenuto nella storia) un vero processo costituente. Perché i processi costituenti non hanno detentori prestabiliti, non dispongono di poteri d’iniziativa rigidamente codificati, non seguono procedimenti formali.
Il processo costituente è per sua natura un processo di fatto alimentato da istanze esclusivamente politiche. Ma il processo costituente è anche un processo descrittivo. E questo significa che solo nel momento in cui sarà venuta ad esistenza la nuova Costituzione cilena potremmo dire che vi è stato un processo costituente e provare a descriverne ex post l’origine, gli sviluppi, l’esito.
Prima di parlare di una nuova Costituzione cilena attendiamo quindi di conoscere quelli che saranno gli sviluppi futuri e le tappe successive del processo in atto. E soprattutto il loro esito. Intanto sappiamo che l’11 aprile 2021 i cittadini cileni saranno chiamati a eleggere i 155 membri della Convenzione costituente. Con il referendum del 25 ottobre i cittadini cileni hanno, infatti, deciso (con i 79,24% dei voti) che la redazione della Costituzione sarà compito di donne e uomini votati direttamente dal popolo (l’altra bizzarra opzione sottoposta al voto prevedeva la formazione di un organismo composto per metà da parlamentari e per metà da persone elette). Quella cilena sarà la prima assemblea costituente nella storia del costituzionalismo composta nel rispetto della perfetta parità di genere (metà uomini e metà donne).
L’assemblea (che nel corso dei suoi lavori si avvarrà anche della rappresentanza di delegati delle popolazioni indigene) avrà a disposizione dai 9 ai 12 mesi per redigere il nuovo progetto di Costituzione. Il testo una volta formulato dovrà essere votato da almeno i due terzi dell’assemblea, per poi essere sottoposto al popolo cileno per l’approvazione definitiva (agosto 2022). Un percorso – come si vede – fitto di tappe e denso di ostacoli. Dove nulla è scontato. A noi non resta che seguirne, anche emotivamente, gli sviluppi e confidare, ancora una volta, nella forza della democrazia e nelle ragioni del costituzionalismo.
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