Con l’approvazione al Senato del disegno di legge Calderoli (ora in discussione alla Camera) siamo a un tornante decisivo. È il tempo del massimo impegno sul piano parlamentare, dei ricorsi costituzionali, dei ricorsi amministrativi, di una vera e propria campagna di massa che coinvolga sindacati, movimenti di base, associazioni, partiti. Non possiamo certo delegare un tema decisivo alla contrapposizione banale e mediocre tra Vincenzo De Luca e Giorgia Meloni. A noi tocca tenere alto lo spessore dell’analisi e del progetto alternativo. Individuo, per brevità, quattro punti come temi di ricerca che sostengano la campagna di massa.
1) Il disegno di legge Calderoli configura un atto eversivo della forma Stato costituzionale. Si rischia, in Italia, la sostituzione del diritto di cittadinanza con quello che Giovanni Moro ha definito lo ius domicilii. Lo Stato sociale universale subisce un radicale processo di privatizzazione e il godimento dei diritti, sia per quantità che per qualità, dipende dalla regione in cui abiti e vivi. Ne deriva quella che l’economista Gianfranco Viesti ha, con efficacia, chiamato la “secessione dei ricchi”. Del resto, anche dopo la pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ha aperto la strada all'”autonomia differenziata”, l’articolo 119 della Costituzione è chiarissimo: “la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Il principio è chiaro: al decentramento delle funzioni non deve corrispondere la discriminazione concernente i diritti di cittadinanza. Alla base della controriforma voluta dal Governo non vi sono tecnicismi istituzionali, dobbiamo spiegarlo. Vi sono, invece, ragioni strutturali, cioè le forze del capitale che hanno interessi nel perseguire una differenziazione nei processi di accumulazione e nella gestione della cosa pubblica. Il “treno” dell'”autonomia differenziata” è guidato dal nuovo triangolo industriale che ha la necessità di ricostruire le catene del valore nella nuova Europa che si va configurando, per ragioni geopolitiche e motivi bellici. Le imprese del triangolo industriale, per la loro struttura ordoliberista, hanno necessità di procedere a ulteriori forme di integrazione sovranazionale e, per questo, spingono per differenziare il sistema istituzionale italiano.
2) Il Meridione è, quindi, fuori da questi processi di “nuova integrazione”. La questione “euromediterranea” è, di fatto, rimossa. Per il Sud si prospetta il pessimo progetto illustrato dalla Meloni alla Fiera del Levante di Bari: il destino di piattaforma, di hub di energia carbonifera e fossile, di trivellazioni marine, di grande area per i servizi della logistica. L’energia transiterà, provenendo dal Nord Africa e dal Medio Oriente, nei gasdotti del Sud per alimentare e fornire le industrie del Nord. L’alternativa democratica, che riguarda venti milioni di persone, pare a me la declinazione della questione meridionale in una prospettiva euromediterranea, rilanciando la ricerca, abbandonata da decenni a causa dell’orgia della globalizzazione liberista, sullo sviluppo autocentrato sulle risorse meridionali, sulla società sostenibile, sulla democrazia a chilometro zero. Ciò riguarda la scuola laica repubblicana, la sanità pubblica, il mercato del lavoro e le gabbie salariali, l’unità di classe, la ricostruzione di nessi sociali condivisi per rimettere in comunicazione conflitti parziali che, altrimenti, si frantumano nell’isolamento.
3) La via maestra della nostra campagna non può che essere l’abrogazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. L’autonomia differenziata, infatti, va sempre ribadito, è in contrasto con l’articolo 5 della Costituzione, in cui l’autonomia è articolazione della Repubblica “una e indivisibile”. Noi non siamo centralisti burocrati. Rispondiamo così ai secessionisti rilanciando una elaborazione seria sulla “democrazia di prossimità”. Sia riaffermando il ruolo centrale dei Comuni rispetto alla centralizzazione statale ed ai carrozzoni dei predatori gruppi di potere regionali; sia declinando con convinzione (finora del tutto assente anche nelle sinistre) il rapporto tra le rappresentanze istituzionali e l’autorganizzazione, la partecipazione popolare organizzata. All’egoismo territoriale, feroce contro le diversità, contrapponiamo il rapporto aperto tra territori, come potenza sociale costituente. L’autonomia prevista dall’articolo 5 allude a spazi “meticci”, condivisi, plurali. La prospettiva è quella di un paese unito, dal Nord al Sud e dal Sud al Nord. Anche il popolo del Nord, infatti, sarebbe, alla pari del popolo meridionale, vittima dell’autonomia differenziata, fondata soprattutto sulla privatizzazione dei pubblici servizi e sulla evaporazione dello Stato sociale. Il Governo fonderà molto la sua campagna sulla promessa che saranno rispettati i “livelli essenziali”. È il “triplo inganno di Calderoli”, come giustamente scrive Francesco Pallante. Innanzitutto si tratta di livelli “essenziali” e non “uniformi”, come il dettato costituzionale impone. In tal modo si abbassa l’asticella dei diritti che cittadina e cittadino possono pretendere: è la consacrazione normativa delle diseguaglianze. In secondo luogo, attraverso una bizzarra e furba sottrazione assoluta di ogni potete decisionale al Parlamento, che diventa mero orpello, i Lep sono definiti dal Governo, dal primo all’ultimo atto. In definitiva, i Lep saranno definiti sulla base dell’egoistica rivendicazione del residuo fiscale delle regioni più ricche, e non certo della perequazione solidaristica tra regioni più ricche e regioni più povere.
4) Del tema fondamentale dovremo, poi, occuparci a fondo, nella maniera più radicale e più unitaria possibile. Autonomia differenziata e proposta governativa di “premierato” si tengono insieme. Sbagliano, a mio avviso, coloro che ritengono i due istituti antitetici. È evidente, infatti, che un paese frantumato dalla autonomia differenziata in venti staterelli, senza alcun respiro confederale, senza una clausola di salvaguardia di supremazia statale, in un paese impoverito, impaurito, inerte ha bisogno della delega assoluto all’uomo, alla donna “forte”, eletta direttamente con un plebiscito. Alla democrazia costituzionale di rappresentanza , che muore, si sostituisce la democrazia di investitura, del “capo”. Così nascerebbe la “terza Repubblica” di cui parla Meloni. Che abbatte la Repubblica nata dalla Resistenza. Una forma Stato nazionalista, sovranista, populista, con una legge elettorale fortemente maggioritaria che spazza via le minoranze critiche, che riduce il dissenso a tema di ordine pubblico. In Italia, paese che non ha una tradizione confederale, né uno Stato amministrativo funzionante, siamo di fronte al rischio scientifico di una torsione autoritaria.
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