Un elemento poco notato ma alquanto inquietante della corsa al Quirinale per come si sta svolgendo è il fatto che sembra di vivere in un paese senza tempo oltre che in una democrazia a rischio. Per impersonare la figura di massima garanzia dell’unità nazionale e dell’ordinamento costituzionale va bene chiunque: un uomo della (cosiddetta) prima Repubblica come Giuliano Amato, il demiurgo della (cosiddetta) seconda Repubblica Silvio Berlusconi, un tecnocrate gradito alla sempre a-venire Unione europea come Mario Draghi, e politici navigatissimi nel tempo, e pertanto senza tempo, come Pierferdinando Casini. Né le cose migliorano quando come propellente per il futuro qualche gentiluomo a corto di idee tira fuori dal cappello “una donna”, perché anche questa è una furbata che si ripete da lustri, di elezione in elezione e di nomina in nomina (del capo dello Stato, del presidente del Consiglio, dei membri della Consulta e via dicendo), come arma di distrazione di massa dal pantano della politica maschile; e poi perché “una donna” senza nome e senza cognome vuol dire nessuna donna, e rischia di coprire sorpresine tutt’altro che futuriste e più berlusconiane di Berlusconi tipo Letizia Moratti o Maria Elisabetta Alberti Casellati.
Che anno è che giorno è, ci chiederebbe se potesse un altro mito sempreverde come Lucio Battisti. Ma c’è poco da cantare o da ridere, perché una società che perde il senso del tempo è bene avviata sulla strada di quella “crisi epistemica” in cui secondo i più acuti osservatori già si dibatte la democrazia americana per aver perso quel senso del vero e del falso che noi, nel sempre precoce laboratorio italiano, avevamo già perso nel ventennio del Cavaliere; e come lì, pure qui la crisi epistemica rischia di intrecciarsi e avvitarsi con una crisi costituzionale.
Della quale tuttavia pare non importare nulla a nessun membro della classe politica attualmente in sella. Pochi giorni fa Massimo D’Alema ha fatto notare che l’eventualità di un premier “che si auto-elegge capo della Stato e nomina al suo posto un altro funzionario del Ministero del Tesoro” non è precisamente consona a un paese democratico, ma il 99% della stampa nazionale non ha registrato e ha preferito montare la panna più commestibile della solita rissa fra D’Alema e Renzi. E bisogna ricorrere a un altro politico senza tempo come Rino Formica per leggere a chiare lettere che tutta la discussione in corso sul cambio della guardia al Quirinale rischia di deragliare dai binari costituzionali, ossessionata com’è dalla volontà o di confermare “la coppia” Mattarella-Draghi o di sostituirla con un’altra coppia sostenuta – come auspicato dallo stesso Draghi nella sua conferenza stampa prenatalizia – dalla medesima maggioranza: laddove, scrive Formica, “la vita di coppia delle istituzioni non è ammessa” da una Costituzione basata sulla divisione dei poteri, e che non a caso prevede, per le due funzioni di presidente della Repubblica e di presidente del Consiglio, due diverse durate (la prima rigida, di sette anni, la seconda flessibile, legata alla durata della coalizione politica che la sostiene), due diverse procedure, due diverse platee di legittimazione (e quindi eventualmente due diverse maggioranze). E non è l’unico deragliamento in corso, perché la peculiare contingenza politica di un Draghi sospeso fra Palazzo Chigi e Quirinale ben si presta all’ennesimo tentativo di cambiamento in senso presidenzialista dell’ordinamento. Non è solo Giancarlo Giorgetti a perorare esplicitamente un semipresidenzialismo “di fatto”, sono in molti a presupporlo implicitamente: che altro significa l’auspicio che Draghi continui a esercitare “dal Colle” le funzioni di indirizzo della politica economica e di contrattazione con la Ue che secondo la Costituzione spettano al capo del governo e non al capo dello Stato? Ma si sa che nelle coppie i ruoli sono spesso intercambiabili.
Il fatto è che la logica messianica dell’uomo della provvidenza mal si concilia con la logica razionale del costituzionalismo, e prima o poi finisce col colludere anche con le pulsioni irrazionali che agitano il teatro politico. Un anno fa Mario Draghi fu chiamato a salvare l’Italia da quello che – a torto o a ragione – veniva descritto come un abisso sanitario, economico e politico: l’ex presidente della Bce aveva l’aura giusta per essere investito del compito di avviare il Pnrr e la transizione energetica e digitale comandata dall’Europa, organizzare la campagna vaccinale e rimettere in riga il sistema dei partiti in preda all’ennesimo impazzimento. Una classica soluzione tecnocratica di una crisi politica, col classico corollario di un governo di unità nazionale. Ora qualunque cosa si pensi di quella soluzione, logica vorrebbe che un anno dopo, col Pnrr avviato solo sulla carta e l’emergenza sociosanitaria in piena risalita grazie a Omicron, Draghi e il suo governo restassero al loro posto per proseguire e portare a termine il lavoro, e si eleggesse intanto un/a presidente della Repubblica credibile con la più ampia maggioranza possibile, uguale o diversa da quella che sostiene il governo.
Senonché, come ha candidamente detto in televisione la voce dal sen fuggita di un noto commentatore politico, fin dal conferimento dell’incarico di governo a Draghi era stato “implicitamente promesso” il passaggio successivo al Quirinale. Vero o falso poco importa, quell’implicita promessa essendo stata data per scontata da allora a oggi da tutto il sistema politico nonché da quello mediatico. I quali infatti sul dopo-Mattarella sono stati appesi al busillis “che vuole fare Draghi?” fino a che Draghi non l’ha “implicitamente” fatto trapelare nella già menzionata conferenza stampa del 22 dicembre. Ci si poteva aspettare un’accoglienza entusiastica, e invece non appena la tanto evocata e invocata disponibilità di Draghi si è vagamente manifestata nessuno l’ha raccolta e tutti hanno cominciato a ostacolarla o a condizionarla all’impossibile: l’uomo della provvidenza era già diventato troppo ingombrante. Sì che adesso ci troviamo nella singolare situazione del candidato al Quirinale più credibile che non è candidato da nessuno, e di quello più impresentabile, Berlusconi, che è candidato solo da sé stesso.
Prevedere come andrà a finire è un bel rompicapo. La ricerca di un un/a candidato/a unitario/a diverso da Draghi, di per sé non impossibile, contrasta con l’implicita promessa di un anno fa e con la voglia di Draghi di traslocare, e se in teoria servirebbe a garantire la stabilità del governo in pratica lo espone alle fibrillazioni di una maggioranza già stanca di fingersi unita. Di converso, eleggere Draghi metterebbe sì in sicurezza l’immagine dell’Italia in Europa per un settennato, ma rischierebbe di troncare la legislatura e di consegnare il governo del paese ai sovranisti, che è esattamente quello che l’Europa teme e scongiura. Può darsi che Omicron tolga temporaneamente le castagne dal fuoco al parlamento imponendo un rinvio di qualche settimana, che tuttavia non risolverebbe nulla. Oppure può darsi che Mattarella ceda a un reincarico e che “la coppia” venga riconfermata, complici gli endorsement delle cancellerie europee, fino alla scadenza naturale della legislatura; ma non sarebbe affatto un buon segnale per la regolarità costituzionale, e i nodi si ripresenterebbero ancor più ingarbugliati da qui a un anno.
Intanto tre cose sono certe. La prima: mai come in questa circostanza il centrosinistra, e le forze sfilacciate e rissose che lo compongono, è apparso privo di una strategia e di una regia. La seconda: l’unico ad avere una strategia e una regia è Berlusconi, che nel labirinto degli impliciti scommette esplicitamente su sé stesso e per sé stesso, giocando una partita che se anche non lo porterà al Colle lo ha già riportato al centro della scena, gli consente finché gli serve di tenere incollati i cocci del centrodestra e gli darà un peso decisivo nei prossimi round. La terza, e più importante: in un tempo di incertezza e disorientamento com’è questo in cui ci ha gettati la pandemia le istituzioni e i loro riti dovrebbero servire a dare ai cittadini un ancoraggio e una bussola. Negli ultimi decenni di perenne tribolazione del sistema politico ci è stato detto, non senza ragione, che la presidenza della Repubblica è stata la sola istituzione ad aver resistito alla crisi di fiducia e legittimazione che ha screditato il parlamento e l’esecutivo. Se anch’essa viene travolta in una commedia farsesca, gli effetti sociali possono essere devastanti. Non occorre arrivare all’assalto a Capitol Hill per diagnosticare lo stato preagonico di una democrazia. E non serve a niente, per capirne e curarne le cause, prendersela solo con i deliri dei no-vax.
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