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Una delle differenze principali tra la Repubblica di Bonn e quella di Berlino, espressioni con le quali si fa riferimento, rispettivamente, alla realtà politico-istituzionale della Germania occidentale dal 1949 al 1990 e a quella post-Riunificazione, è l’allargamento delle maglie del processo di selezione delle forze politiche. La Germania di oggi è, infatti, caratterizzata dalla presenza al Bundestag di ben sei partiti (sette se si fa riferimento alla Csu) rispetto ai soli tre (quattro considerando anche qui i bavaresi in modo autonomo) della vecchia Repubblica di Bonn. Ne derivano importanti ripercussioni anche per le prossime elezioni e la fase di definizione del prossimo governo: le classiche Volksparteien, Cdu e Spd, si indeboliscono e devono fare i conti con una pluralità della rappresentanza politica (liberali, verdi, sinistra e Rechtspopulisten, populisti di destra) che potrebbe determinare, ad esempio, una coalizione a tre gambe, una novità nel panorama politico tedesco occidentale del dopoguerra. Ecco perché le elezioni sono apertissime e l’esito dipenderà da chi, tra Spd e Cdu, prenderà più voti e, quindi, dovrebbe poi guidare le trattative per la coalizione e poi il governo.

Se da un lato questa pluralità esprime una vitalità della rappresentanza politica, diverse potrebbero essere dall’altro le sue conseguenze negative: governabilità assicurata solo da coalizioni tra partiti molto diversi fra loro (quasi che dopo i tanti anni di Grande coalizione, il sistema debba strutturalmente fare i conti con maggioranze molto eterogenee), quindi coalizioni più litigiose (con tempi di costituzione delle maggioranze molto lunghi, come nel 2017 quando ci vollero ben sei mesi per avere il nuovo governo), opposizioni divise e quindi più deboli che in passato. Non è un caso che i sondaggi indichino praticamente tutte le possibili coalizioni capaci di esprimere maggioranze al Bundestag, esplicitando due preferenze, in realtà due varianti di uno stesso modello: coalizione con Verdi e Liberali guidata o da Spd o da Cdu.

Sembra dunque che le prossime elezioni si caratterizzino esclusivamente come un Machtwechsel, un cambio di potere, più che una Zeitenwende, l’inizio di una nuova era, per recuperare una contrapposizione dedicata alla vittoria elettorale di Willy Brandt nel 1969. Un cambio che persino nella sua variante più radicale – dalla guida affidata dai conservatori ad Angela Merkel ai socialdemocratici di Olaf Scholz – sembra essere un puro passaggio di consegne, dopo il lunghissimo cancellierato merkeliano. E questo non solo perché Scholz appare agli elettori – qui forse la ragione vera del suo successo – come l’erede naturale della Cancelliera, paradossalmente più dello stesso Armin Laschet, candidato dei conservatori; ed è per questo motivo che l’intera campagna elettorale di Scholz ricorda quella di Merkel e sarebbe stata semplicemente impensabile se la Cancelliera avesse corso per un quinto mandato. Ma perché dopo anni di Grande coalizione – un modello usato nei quarant’anni di Repubblica di Bonn per meno di tre anni mentre nei trentuno di Repubblica di Berlino per ben dodici – sembra che i due partiti siano appena varianti dello stesso genere, diversi solo per personalità più o meno capaci di guidare il paese. E Scholz, vicecancelliere, ministro delle finanze e tra gli autori di Next generation EU, sembra essere avvantaggiato rispetto al rivale Laschet nel proporre agli elettori un modello di guida identico a quello di Merkel. Ancor più se si pensa che il vero elemento di continuità resterà Wolfgang Schäuble, presidente del Bundestag, istituzione centralissima, autonominatosi alla testa di una commissione parlamentare per affrontare le questioni economiche, anche sul piano europeo, nei prossimi anni.

E tuttavia queste valutazioni sono incomplete perché la Zeitenwende, inevitabilmente, comincia a materializzarsi anche a Berlino e la frammentazione del sistema politico, come pure coalizioni sempre più variegate potrebbero, costituire un buon compromesso “parlamentare” per dare voce alle tante istanze che animano il paese e affrontare anni di insicurezza e di trasformazione: beninteso, nel caso in cui la sintesi si riveli capace di affrontare le prossime sfide. A questo proposito vorrei citare tre questioni.

Innanzitutto, la transizione ecologica e la trasformazione dell’industria richiederanno nei prossimi anni un difficilissimo gioco di sponda tra politica, istituzioni, sindacato e imprese che ha come obiettivo la salvaguardia del modello sociale e occupazionale “dentro” il processo di trasformazione dell’economia. Qui la difesa del Modell Deutschland accomuna conservatori e progressisti, questi ultimi, però, più attenti a intervenire in un contesto segnato da disuguaglianze (salari bassi soprattutto nei servizi, fenomeno del precariato, assicurazione sanitaria da riconfigurare, patrimoniale: interventi che sono, però, mal visti dai Liberali della Fdp, più prossimi al programma dei conservatori, e che potrebbero essere il vero ostacolo alle ambizioni di Scholz) ma entrambi in rotta di collisione con i Verdi che potrebbero chiedere tempi troppo rapidi per la riconversione.

In secondo luogo, la gestione della pluralità interna e della nuova complessità della società tedesca, certamente non del tutto post-nazionale ma comunque più variegata e plurale, anche di fronte a preoccupanti fenomeni di intolleranza e razzismo della destra più radicale, impone scelte nuove di ripensamento delle istituzioni classiche dello Stato sociale, a partire dalle scuole che in Germania conservano ancora un marcato classismo e il fuoco alle polveri sarebbe far combaciare l’immobilità sociale con l’origine “migrante” dei nuovi tedeschi.

Da questo punto di vista, va segnalato come l’indebolimento della Cdu per ora non sembra avvantaggiare Afd (giusta è stata la strategia di Laschet di ricompattare il partito e aprirsi anche al suo avversario interno Friedrich Merz, fautore di una linea più radicale) ma va detto che se i conservatori dovessero uscire troppo malmessi dalle elezioni i rischi di una radicalizzazione di forze e singoli sarebbero concreti, con effetti preoccupanti nel caso di una “nazionalizzazione” della questione sociale o di una radicalizzazione di quella nazionale (la difesa degli interessi tedeschi, proprio nella fase di riconversione ecologica e industriale, considerata insufficiente).

Infine, la questione di come “stare al mondo” quando riesplodono i nazionalismi. Il gioco di Merkel è stato sino a oggi anche una sorta di ‘trucco’ ottico: spacciare problemi politici per questioni tecniche. Così è stato camuffato il Nord Stream II e così si è cercato di fare anche con la Cina (ad esempio con il 5G). Non si può negare che in questa fase l’operazione abbia avuto un suo senso e un suo successo, ma è ormai probabilmente arrivata al limite della propria elasticità e la sfida sarà pensare ad un ruolo tedesco e europeo nei rapporti con i nuovi attori globali. Al logoro rapporto con la Francia si affianca quello sempre meno amichevole con gli Stati Uniti: il ritiro da Kabul dimostra ancora una volta come le tensioni tra le due sponde dell’Atlantico non siano destinate a essere ricucite, nemmeno con una presidenza democratica dopo quella di Donald Trump. Le politiche di Biden, infatti, passano sempre attraverso quella supremazia dell’interesse nazionale statunitense che non è necessariamente o automaticamente compatibile con gli interessi tedeschi o europei. Ed è proprio qui che la classe dirigente tedesca è chiamata a una riformulazione del proprio ruolo, a partire dall’Europa e alla sintesi sulle proposte dell’«autonomia strategica continentale» (come formulata, tra gli altri, da Herfried Münkler) anche sotto il profilo militare, per la quale è, però, indispensabile Parigi e si dovrà attendere l’esito del voto francese fissato per il prossimo anno.

Ed è forse anche l’aspetto dove si potrebbe concentrare la maggiore pressione (e una nuova, futura cocente delusione) delle sinistre europee sull’ipotesi di un governo a guida socialdemocratica. Olaf Scholz, infatti, non vincerebbe con un programma “radicale” e il rischio è che la sua idea di socialdemocrazia allontani ancor di più le sinistre nordiche da quelle meridionali. Anche il mezzo fallimento della Linke, dopo quattordici anni dalla sua fondazione data a percentuali tra il sei e il sette percento, profondamente divisa al suo interno e incapace di esprimere una cultura politica autonoma, evidenzia come sia ormai del tutto esaurita la fase delle “due” sinistre. Anche se Scholz è stato tra i protagonisti del Next Generation EU e ha promesso di volerlo implementare, il negoziato non potrà riproporre il vecchio schema nord contro sud, radicali contro riformisti. Perché potrebbe sovraccaricare di responsabilità all’estero il governo socialdemocratico, rischiando di bruciarne velocemente il consenso in patria. Una vittoria di Scholz dovrebbe quantomeno aprire una fase di riflessione in quello che resta delle sinistre continentali.

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