Il settore dei chip
È nota l’importanza strategica del settore dei chip, che oggi costituiscono il cuore e il sistema nervoso della gran parte dei business. In un prodotto come l’auto ce ne sono più di mille.
È anche noto che la situazione a livello mondiale, in questo come ormai in molti altri settori, vede il dominio dell’Asia nella produzione, in particolare quello di Taiwan nei chip avanzati nelle unità centrali (Cpu) e della Corea del Sud in quelli di memoria, mentre la Cina è di gran lunga il principale mercato mondiale. Gli Stati Uniti e l’UE, una volta padroni del settore, vedono oggi la loro quota di produzione mondiale non superare il 10% per ciascuno, mentre i primi mantengono comunque mantengono una certa leadership in alcuni segmenti del settore.
D’altro canto la Cina sta rapidamente avanzando in generale sul fronte economico e tecnologico e in particolare rivaleggia ormai con gli Stati Uniti proprio sulle tecnologie avanzate, anche se nel campo dei chip presenta ancora delle rilevanti debolezze che sta cercando di colmare.
A che punto siamo nella guerra dei chip?
È anche per queste ragioni che negli ultimi anni Biden ha scatenato una guerra a tutto campo per cercare di contenere l’espansione della Cina nel settore, in particolare nel campo delle produzioni più avanzate, mentre fa di tutto per convincere i produttori asiatici a insediarsi negli Stati Uniti. Tale guerra si è tradotta, tra l’altro, nell’emanazione di due leggi, il Chip Act e l’Inflation Recovery Act, insieme all’avvio di una serie di mosse diplomatiche verso i paesi alleati per indurli a seguire l’esempio di bloccare l’avanzamento del paese asiatico; con l’insieme delle azioni si mira da una parte ad attrarre investimenti nel settore in America e a far sì che i produttori occidentali cessino di vendere i prodotti più avanzati e i macchinari più sofisticati al paese asiatico, mentre dall’altra si proibisce di fatto ai cittadini statunitensi di partecipare ad attività che favoriscano lo sforzo cinese nel settore.
Un rapporto recente della SEMI, l’associazione mondiale dei produttori del settore dei chip, mostra che alla fine del 2023 l’80% della capacità produttiva nel campo dei chip è collocata in Asia; la Cina da sola registra il 26% del totale mondiale, seguita poi nell’ordine da Taiwan, Corea del Sud, Giappone.
Nel 2024 è previsto che la quota della Cina crescerà al 27% del totale, mentre quella degli Stati Uniti rimarrà ancora sotto al 10% e quella dei paesi europei sotto al 9%. Lo sforzo dei paesi occidentali per ricostruire le loro catene di fornitura interne non dovrebbe ottenere frutti sino a tutto il 2025 a essere ottimisti, più probabilmente sino a tutto il 2026.
Intanto, sempre secondo la SEMI, la capacità produttiva a livello mondiale nel settore dovrebbe aumentare del 6,4% nel 2024, dopo la crescita del 5,5% nel 2023, mentre quella cinese crescerà intorno al doppio di tale percentuale, collocandosi al 13%, dopo un aumento del 12% nel 2023. Nel 2024 la Cina metterà in funzione ben 18 nuove fabbriche nel settore, contro le 5 di Taiwan, 1 della Corea del Sud, 4 del Giappone, 6 degli USA e 4 dell’Asia del Sud-Est.
Le iniziative degli Stati Uniti e dell’UE avanzano lentamente, essendo certo tali paesi riusciti a convincere i produttori asiatici a impiantare delle fabbriche nei loro territori, ma con diverse difficoltà interne; in particolare negli USA produrre i chip costa circa il 50% in più che nei paesi asiatici, mentre ci sono problemi nel reperimento in loco di manodopera specializzata e mentre si registrano anche varie difficoltà burocratiche, compresi ritardi nell’erogazione dei fondi pubblici. Così i programmi di produzione slittano nel tempo e comunque Taiwan e Corea del Sud si guardano bene del produrre all’estero i chip più avanzati, anche se si può pensare che le pressioni statunitensi in proposito siano enormi.
Intanto si sta realizzando quello che la gran parte degli analisti aveva previsto. La Cina, di fronte al tentativo di blocco occidentale, ha raddoppiato gli sforzi per fare un balzo in avanti autonomo e il 2023 mostra i primi, importanti, risultati in questo senso. Oltre al forte aumento della produzione interna, fatto che si dovrebbe registrare anche nel 2024, di recente viene annunciato, con la sorpresa di tutti in Occidente, che Huawei e Smic, quest’ultimo il principale produttore di chip del paese, hanno sviluppato un chip a 7 nanometri, mentre subito dopo si scopre che presumibilmente ne hanno approntato anche uno a 5 nanometri, impresa che sembrava impossibile senza i macchinari e le competenze straniere.
Intanto la stessa Huawei si è ripresa dal colpo quasi mortale infertole a suo tempo dai veti USA e il 2023 vede di nuovo la crescita del suo fatturato, che ha raggiunto ormai i 100 miliardi di dollari, con un aumento del 10% circa sull’anno precedente; ha ripreso con molto successo a vendere dei suoi telefonini, mentre avanza con gran clamore anche in nuovi business, tra cui quelli dell’IA, delle auto elettriche e di quelle autonome. All’inizio del 2024 viene poi annunciata la notizia che la Origin Quantum, una società sempre cinese, ha messo a punto un chip quantistico a 72 qubit.
Certo resta ancora molto da fare in diversi campi per allinearsi alle tecnologie asiatiche e statunitensi più avanzate, ma la via sembra ormai tracciata.
Parallelamente va avanti la guerra anche su altri fronti
Ma non ci sono soltanto i chip. Il tentativo di guerra dei paesi ricchi si estende a molti altri campi.
Come è ampiamente noto, nel dopoguerra le nazioni occidentali, guidate dagli Stati Uniti, hanno predicato e sostanzialmente imposto al mondo la dottrina e la pratica del libero scambio; a suo tempo è stata anche creata un’apposita organizzazione, la WTO (World Trade Organization) per promuovere e fare da gendarme a tale dottrina. In effetti da allora in poi si è assistito a un progressivo abbattimento delle barriere doganali, alla caduta di dazi e di altri balzelli burocratici, in maniera convinta o anche attraverso imposizioni e ricatti ai paesi poveri. Il culmine di tale operazione è sembrato l’ingresso della Cina nell’organizzazione nel 2001. Il commercio mondiale è fiorito, superando normalmente e di molto ogni anno il tasso di crescita del Pil a livello mondiale.
Ma ora che la Cina e gli altri paesi emergenti hanno imparato la lezione e hanno cominciato a praticare con successo il gioco della concorrenza, avendo alla fine gli allievi superato il maestro, surclassando in molti campi gli occidentali, sembra che le vecchie regole non valgano più – in generale, al di là del settore dei chip. Stati Uniti e UE si chiudono progressivamente alle merci cinesi e a quelle di altri paesi con i pretesti più vari.
Il caso delle auto
Un caso di scuola, ma certamente non il solo, appare quello dell’auto.
Anche in questo settore è l’Asia a dominare il gioco, con la Cina che nel 2023 ha prodotto più di 30 milioni di vetture, quasi il 40% del totale mondiale, mentre nello stesso anno è diventata anche la prima esportatrice di auto con quasi 5 milioni delle stesse vendute all’estero, sopravanzando del resto un altro produttore asiatico, il Giappone. Intanto è esplosa la filiera dell’auto elettrica e la Cina fa di nuovo registrare le performances migliori, con una produzione di tale tipo di vetture pari a oltre il 60% di quella mondiale. Più in generale essa domina tutta la filiera, dalla produzione delle materie prime, a quella delle batterie, del software, sino al riciclaggio delle vetture fuori produzione. Solo la statunitense Tesla sembra in qualche modo tenere testa a tale ondata, peraltro soprattutto attraverso il suo radicamento in Cina.
Negli Stati Uniti, come più o meno nel caso dei chip, l’amministrazione ha varato norme che di fatto impediscono la vendita di vetture che contengano anche soltanto alla lontana componenti cinesi.
Intanto l’Unione Europea, fedele scudiero, ha aperto un’indagine sui sussidi che lo Stato cinese fornirebbe alle imprese locali dell’auto, minacciando di aumentare i dazi sull’importazione di tali prodotti. Naturalmente, nel caso di applicazione di dazi più alti, i cinesi non resterebbero con le mani in mano e come primo avvertimento essi hanno intanto aperto un’indagine sul settore europeo dei liquori; peraltro, per quanto riguarda la UE, si consideri che i produttori di auto tedeschi hanno nella Cina il principale mercato di sbocco e di profitti, mentre quelli francesi stanno stringendo diversi accordi di partnership con quelli del paese asiatico. Parallelamente, il brillante Macron, che pare agitarsi molto nel settore, ha varato a sua volta delle norme che bloccano gli incentivi alle auto di provenienza cinese.
Intanto non risulta che l’UE abbia aperto un’analoga indagine sui sussidi statunitensi nel settore.
Ma c’è dell’altro
La terribile von Leyden minaccia intanto da par suo un’altra indagine sui pannelli solari e sulle pale eoliche del paese asiatico, settori nei quali di nuovo gli Stati Uniti hanno posto delle forti barriere all’ingresso.
Ma con queste mosse, tra l’altro, frenando le importazioni dalla Cina, i paesi occidentali rallentano e rendono più costosa la riconversione all’energia pulita, alimentando anche l’inflazione: in effetti, i pannelli solari e gli apparati fotovoltaici cinesi costano dal 50% al 60% meno di quelli prodotti in Occidente. Ma il fatto è che le politiche commerciali e industriali dei paesi ricchi mirano ormai soprattutto a degli obiettivi di potenza a scapito di quelli di prosperità globale (Benhamou, Cartapanis, 2023).
Nel frattempo, per non distrarsi, l’UE ha varato una norma che impone pesanti balzelli alle importazioni da paesi terzi in relazione alla impronta di carbonio delle stesse, cominciando con alcuni settori tra i più inquinanti, acciaio, alluminio, cemento, ecc. Saranno presumibilmente danneggiate soprattutto le merci originarie dei paesi emergenti. Inoltre, sempre l’UE ha emesso delle nuove norme anche per quanto riguarda le importazioni dalle terre preda delle deforestazioni.
Commentando questi fatti, Rebecca Greenspan, la responsabile del commercio delle Nazioni Unite, ha affermato che i paesi ricchi stanno usando la transizione ambientale come un scusa per far crescere le proprie economie a spese di quelle dei paesi emergenti, mentre questi ultimi vedono i provvedimenti semplicemente come misure protezionistiche (Bounds, Espinoza, 2023).
Intanto lo spirito protezionista tocca anche i paesi sviluppati nei loro scambi interni. Ovviamente le misure di Biden stanno avendo l’effetto di danneggiare anche i paesi europei; le imprese UE attratte dagli incentivi, stanno investendo sempre più in America abbandonando l’Europa. L’ipotesi poi che la Nippon Steel acquisisca la US Steel, operazione in atto, sta incontrando grandi ostacoli politici negli Stati Uniti, dove in particolare molti parlamentari cercano di opporsi con considerazioni “patriottiche”.
Alla fine paradossalmente è la Cina, insieme alla gran parte dei paesi emergenti – dall’Arabia Saudita al Brasile, all’India, all’Indonesia – che spingono a favore della globalizzazione e contro gli ostacoli al libero commercio, ravvisando nell’apertura delle frontiere al commercio e agli investimenti una importante possibilità di crescita economica interna.
Testi citati nell’articolo
– Benhamou F., Cartapanis A., Un monde de rivalités économiques, «Le Monde», 24-25-26 dicembre 2023.
– Bounds A., Espinoza J., Rich world uses green policies to hold back the poor, says UN trade chief, «Financial Times», 24 dicembre 2023.
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